Ragazza priva di istruzione di appena quindici anni, Vahn fu convinta da una sorellastra a lavorare presso un’azienda contadina nella Thailandia centrale, ma poi finì in un bordello thailandese, dove fu costretta a fare sesso con un cliente che aveva comprato la sua verginità.
La storia di Vahn non è unica e il Laos, paese comunista racchiuso nell’entroterra con uno dei tassi di povertà peggiori in Asia, è una fonte importante per i floridi circoli di trafficanti di sesso della Thailandia. La maggioranza delle vittime Laotiane dei trafficanti di sesso sono portate in Thailandia e la maggioranza di età compresa tra i dodici e i 18 anni sono costretti ad entrare nella tratta sessuale.
“Ogni volta che dormo non riesco a non pensarci ed ho gli incubi” dice Vahn che solo lo scorso anno è diventata una prostituta schiava. Provò due volte a fuggire prima di essere rinchiusa in una stanza da sola quando non vendeva il suo corpo. Quello che guadagnava andava a pagare le spese di viaggio, una tattica usata dai trafficanti conosciuta come schiavitù da debito.
Quando un nuovo gruppo di ragazze furono portate nel bordello, la sorellastra di Vahn la riconsegnò al suo villaggio vicino Vientiane. A casa, ma senza soldi, Vahn fu tradita da sua cugina che le chiese di lavorare come lavapiatti in un ristorante thailandese. Invece, in un Bar karaoke, dovette lavorare per tre mesi come prostituta fin quando la polizia thailandese non la trovò in una incursione e la mandò ad un rifugio del governo.
Secondo gli esperti le misure prive di effetti contro il traffico in Laos non riescono ad impedire alle ragazze come Vahn di essere immesse nella tratta del sesso. Non si fa molto per identificare e reintegrare le vittime nella regione del Grande Mekong che include Laos e Thailandia ed ha dirlo è uno studio di un progetto multinazionale di lotta al traffico, COMMIT, Iniziativa ministeriale coordinata del Mekong contro il traffico. “Vedersela per conto proprio è stressante e incredibile, e talvolta le persone che hanno subito la tratta restano in posizioni molto fragili sia socialmente che emotivamente” dice lo studio.
Si stima che ci siano 470 mila vittime della tratta in Thailandia che si posiziona al 24° posto su 162 paesi nella prevalenza della moderna schiavitù. Il Laos si trova al 30° posto con 50 mila vittime secondo l’Indice di Schiavitù del 2013.
Ma i rifugi del governo thailandese hanno aiutato appena 271 vittime nel 2012. Solo 2100 vittime laotiane sono state rimpatriate ufficialmente dalla Thailandia sin dal 2001. Secondo il progetto ONU Inter Agency Project on Human Traffiching, gran parte delle vittime provengono dai centri della tratta delle province meridionali e da Vientiane, lungo la frontiera con la Thailandia.
Inoltre le autorità thailandesi respingono grandi numeri di laotiani senza documenti in parti del paese dove guardie di frontiera laotiane inesperte non sono addestrate per aiutare le vittime di tratta. Xoukiet Panyanouvong, un coordinatore laotiano del UNIAP ha detto che il governo laotiano deve farsi carico della lotta al traffico, una pratica che si affida pesantemente ai paesi donatori. “Si capisce che il governo manca di risorse umane, di sostegno finanziario e perizie tecniche” dice Panyanouvong che aggiunge: “Deve fare più sforzi per combattere il traffico e prendere l’iniziativa di implementarlo”
In Laos un centro di transito per le vittime è finanziato in parte dal governo, ma i servizi per le vittime sono finanziate da ONG ed organizzazioni internazionali i cui progetti possono essere ritardati da inefficienze interne del governo nel dare l’approvazione, secondo il rapporto del Dipartimento di stato USA del 2013.
Polizia e capi villaggio corrotti spesso facilitano il trasporto di ragazze. Oltre a non essere identificate le vittime non riescono ad essere assistite per servizi inadeguati, informazioni limitate su servizi, sistemi di riferimento deboli o vittime che accettano come normale lo sfruttamento.
Lo studio dice che questa mancanza di assistenza per sfuggire alla tratta spesso porta le stesse vittime ad essere riportate nel traffico. “E’ il nostro più grande cruccio che tate donne lao attraversano la frontiera senza ricevere l’aiuto di cui hanno bisogno.” dice Virith Khattignavong di Acting Woman in Distressing Situations, AFESIP, ONG francese che gestisce programmi di reintegro a Vientiane.
Le vittime che sono ritrovate nei centri di sfruttamento sessuale sono tenute dalle autorità thailandesi per massimo due anni nei rifugi, dove non possono lavorare o contattare membri di famiglia. La legge thailandese del 2008 afferma che le vittime devono essere rimpatriate nel paese natio senza alcun ritardo. Inotre inserisce una “testimonianza immediata” nel caso in cui la testimonianza della vittima non può essere usata in tribunale senza che la vittima debba essere lì fisicamente a testimoniare. La legge ammette che una vittima possa chiedere il permesso di risiedere temporaneamente presso un rifugio e lavorare mentre attende che il processo vada avanti contro un presunto trafficante.
“Le vittime hanno molti diritti secondo la legge ma non sempre sono applicati” dice Malayvanh Khamhoung, coordinatore per Anti Slavery international. “Molte vittime dicono che è come essere di nuovo in carcere. Non hanno idea perché devono stare in un rifugio così tanto o quando torneranno a casa.”
La conseguenza può essere che la vittima rinunci all’assistenza per poter lavorare e sostenere le famiglie. Alcuni neanche denunciano il crimine alla polizia per paura che i poliziotti siano sul libro paga di qualche trafficante. “Non vogliono tornare a casa senza soldi” dice Khamhoung che spesso si trova a che fare con casi di traffico in Thailandia.
Vahn ora ha 17 anni ed è una delle poche rimpatriata dopo aver passato un anno in custodia delle autorità thailandesi, che l’hanno usata come testimone per condannare un padrone di un bar karaoke. La polizia ha anche arrestato la cugina per traffico ma quel processo deve ancora iniziare.
“Ho ancora paura di tornar a casa per paura che mi si prenda in giro di nuovo e sia riportata nel traffico” dice la ragazza.
Insieme a qualche altra vittima, Vahn sta studiando da estetista perché vorrebbe aprire un suo proprio salone di bellezza con un microfinanziamento da parte del AFESIP nell’ambito di un progetto di addestramento professionale per aiutare le vittime. “Speriamo che le donne saranno più forti per proteggersi da sole” dice Khattignavong. “Possono attendersi una nuova vita e non preoccuparsi più del passato”.
Ma innumerevoli altre vittime non hanno avuto la stessa fortuna. E l’addestramento professionale spesso non è tagliato a misura di opportunità di lavoro realistiche una volta che le vittime tornano a casa, secondo le autorità. Come si nota nel rapporto americano, c’è una mancanza di sostegno adeguato a lungo termine” per le vittime che li rende vulnerabili al rientrare nella tratta.
Il Laos nel frattempo ha approvato nel 2012 un piano di azione contro la tratta umana atteso da tanto tempo ma deve essere ancora applicato. Mira a migliorare l’identificazione delle vittime e agli sforzi di monitoraggio e mira anche ad accrescere le risorse come addestramento professionale per le vittime. Il Laos in aggiunta non ha una legge contro la tratta umana che copra tutte le vittime di traffico. La legge sullo sviluppo e la protezione delle donne del 2004 sostiene le donne ed i bambini trafficati, ma secondo tanti l’applicazione è inesistente.
“Sarebbe un bene avere una legge comprensiva contro il traffico con i servizi per le vittime, ma anche senza questa ci sono metodi per dare assistenza alle vittime. Non avere questa legge non implica che non si possano assistere le vittime” dice Khamhoung.
Sean Kimmons, The Diplomat