C’è sempre stato, per ragioni complesse un fascino oscuro per le cause perse ed i «cattivi».
Se diamo uno sguardo veloce a quello che si propone nei cinema, vedremo che siamo affascinati dai gangster mafiosi, dai criminali, da chi ha la pistola facile e a tutti i buoni a nulla di ogni tipo.
Oggi lo stesso fascino macabro ha portato ad uno sviluppo ugualmente allarmante, quello di giovani arrabbiati e frustrati che hanno scelto di attraversare il mondo per prendere parte a quello che considerano un conflitto guidato da cause più grandi della legge, della nazione e degli doveri di un cittadino.
La situazione è aggravata dal fatto che i militanti stranieri che sono andati in luoghi come l’Iraq e la Siria non provengono da una sola comunità, ma da differenti nazioni di retroterra differenti. Da giovani musulmani del mondo musulmano a bande di motociclisti dei paesi dell’Europa occidentale.
Opporsi, in modo violento, sembra essere di moda al momento, perché è là che questi individui sperano di scoprire il senso della propria identità e del proprio scopo.
Queste legioni di anime arrabbiate sentono che non ci sono altre alternative al resistere a qualunque cosa che percepiscono come giusta o sbagliata attraverso metodi violenti. Ci sono comunque semplici verità da dover considerare da parte di chi pensa che il cambiamento sociale può giungere semplicemente attraverso l’opposizione violenta, o che sente che solo l’opposizione violenta causa un cambiamento reale nel mondo.
Perché, al di là degli atti in essere di violenza che si commettono in nome del cambiamento (in nome del progresso o di un desiderio nostalgico di un ritorno ad un altro mondo), esiste una ordine di conoscenze e potere persino più potente, più egemonico che già comanda che tipo di violenza è permesso e definito sensibile, e quale tipo di violenza sarà sempre considerata contro l’etica e sbagliata.
Gli stati per esempio non ricercano il consenso della comunità internazionale per difendersi quando si ritrovano sotto attacco, come una vittima di furto non ha bisogno di chiedere il permesso per difendersi.
Il consenso egemonico che esiste nel mondo reale in cui viviamo già dà un valore all’autoconservazione sotto entrambe le circostanze e quindi atti di auodifesa sono accettati come comprensibili. Lo stesso comunque non si può dire per un individuo che lascia un ambiente sicuro del proprio paese per viaggiare in un altro posto e commettere atti di omicidio nel nome di altri.
I militanti stranieri non hanno notato che in questo caso la loro identità e status sono state determinate persino prima di essersene andati, perché il consenso più grande è che la violenza commessa da militanti in luoghi come Siria o Iraq non ha assoluta giustificazione.
Qui il consenso è più grande di sempre: per cominciare, migliaia di studiosi musulmani, teologi ed esperti di legge hanno affermato che, in primo luogo, il cosiddetto movimento che si autodefinisce «Stato Islamico in Iraq e Siria» non avrebbe mai dovuto associare le sue azioni alla religione che professa, dal momento che l’opinione teologica musulmana è unita nel dire che non c’è nulla di islamico nel tagliare la testa ad un prigioniero o nell’attaccare i civili.
Seconda cosa, tutti i governi di tutti i paesi interessati hanno dichiarato all’unisono che questa è un’organizzazione violenta, radicale che è più un movimento anti statale di gente in guerra che un gruppo di individui che lottano per una causa universale più umana.
Terza cosa, i militanti si sono sparati sul piede cadendo nella trappola della dialettica degli opposti e sistemandosi in modo deliberato come un gruppo radicale che si è dedicato ad attaccare e destabilizzare gli stati che attaccano.
Come frangia radicale di militanti stranieri, che ha scelto di posizionarsi all’opposizione alla propria comunità religiosa, ai propri stati e governi, sembra aver perso su tutti i fronti.
Quindi, mentre i militanti di questo cosiddetto ISIS possono reclamare la vittoria sui campi di battaglia, hanno perso la guerra prima ancora di iniziarla. Perché dagli inizi si sono già configurati come l’Altro negativo, come estremisti radicali ed una minaccia armata.
Senza il consenso della comunità internazionale e prima ancora dei propri correligionari che affermano di rappresentare, questi militanti non parlano che a se stessi essendosi rinchiusi in un angolo politicamente e epistemologicamente. Come possono affermare di essere «eroi della propria fede» quando la voce principale della loro comunità li ha rigettati?
Trattare con tali gruppi resterà sempre una sfida per il futuro per gli stati e le società, perché nel mondo globalizzato in cui viviamo, vedremo sempre più situazioni di cause transfrontaliere che chiedono fedeltà e sostegno di tutta la gente al mondo.
Ma mentre questi militanti stranieri perderanno la loro radicalità, abbiamo bisogno di sottolineare ancora una volta il semplice fatto logico che la loro scelta di opposizione violenta, per quanto spettacolare nei suoi risultati orripilanti, è segnata sin dall’inizio.
Collegato a questo vi è il bisogno do comprendere la psicologia di chi si sente attratto alle cause perse ed assume posizioni soggettive negative; e questo non vale solo per la militanza religiosa, perché si è anche manifestata in conflitti non religiosi del passato.
Abbiamo vissuto la stessa cosa durante la Guerra Civile Spagnola (dove migliaia di europei si unirono) e nella lotta dei mujahideen contro l’URSS negli anni 80. In tutti questi casi resta la questione legale filosofica di cosa fare con chi ha lasciato il proprio paese per commettere atti di violenza che non sarebbero stati altrimenti accettati a casa propria.
Non si nega il bisogno di discutere e comprendere il processo del cambiamento sociopolitico nè la necessità del cambiamento in alcuni momenti. Ma perché un cambiamento accada in modo costruttivo, significativo e sostenibile, deve avvenire lungo modi e rotte che siano civili ed emancipatorie, non attraverso la distruzione senza senso e la violenza gratuita.
I militanti radicali che combattono una guerra per delega in Siria ed Iraq possono giustificare le proprie azioni in nome di una causa più alta sovrastatale, o per un desiderio di grandezza perduta. Ma che tipo di società rimarrà da costruire se, nel corso di questa violenza, librerie di università e case di conoscenza, piene di libri di scienza, di filosofia e teologia di grande valore sono distrutte nella loro scia?
Quale tipo di vittoria di civiltà possono sperare di conseguire se distruggono le vere fondamenta di quella civiltà stessa?
Allo stesso modo dei gangsta rap che riproducono e perpetuano gli stereotipi negativi che squalificano e disumanizzano, in modo simile l’etichetta di «militante radicale» non fa nulla per migliorare la conoscenza delle complessità del mondo musulmano arabo di oggi. Entrambi sono afferrati nel vicolo cieco delle dialettiche degli opposti e in entrambi i casi sono delle cause perse anche prima di iniziarle.
Farish A. Noor, docente presso la Nanyang Technological University di Singapore STRAITSTIMES