I profughi musulmani Rohingya stanno causando una grande agitazione politica nel Sud Est Asiatico, dove le questioni etnico-religiose e della migrazione restano molto calde e mettono in crisi le definizioni di stato nazionale e regionalismo.
Nei mesi scorsi, sono giunte sulle spiagge della Thailandia, della Malesia e dell’Indonesia nuove ondate di Musulmani Rohingya dove, nella assoluta mancanza di pietas, è stato negato loro l’accesso e sono stati respinti in mare con pochissime considerazioni umanitarie.
I Rohingya sono un gruppo etnico minoritario che risiede nella parte occidentale della Birmania nello stato Rakhine, conosciuto anche come Arakan.
Secondo le statistiche attuali, oltre 140 mila persone, su un totale che varia tra 800 mila e 1,1 milioni di persone, sono state costrette a rifugiarsi in campi di rifugiati nel 2012 dopo una serie di conflitti con la maggioranza buddista. Circa centomila Rohingya sono da allora fuggiti dai campi per scampare alla violenza e persecuzione sistematica.
Finora, il governo birmano si è rifiutato di riconoscere i Rohingya come uno dei gruppi etnici del paese che, quindi, sono diventati “entità apolidi”, conseguenza anche di qualunque protezione legale dal governo birmano. Resi vittima dalla politica di alienazione etnica, i Rohingya sono percepiti dal governo birmano come dei meri rifugiati dal Bangladesh, privi di una propria posizione nella società a maggioranza buddista.
Per sfuggire alla misera situazione in Birmania, i Rohingya hanno ricercato una nuova terra in alcuni stati della regione e provano ad entravi illegalmente, implorando sostegno umanitario dai paesi potenzialmente ospitanti. Di solito non sono accolti a braccia aperte.
Con una serie di casi sempre più orripilanti, i Rohingya sono diventati l’obiettivo per i sindacati del traffico di schiavi che abbondano in questa parte del mondo. La scoperta di un gran numero di cadaveri, presumibilmente Rohingya, nel meridione thailandese riafferma la posizione di vittima di queste “entità apolidi” che finiscono preda di tali attività illegali.
Al centro di questa crisi dei Rohingya ci sono vari fatti scomodi nel Sud Est Asiatico. Come musulmani, i Rohingya soffrono a causa del pregiudizio da parte dello stato thailandese che da decenni vive una propria insorgenza musulmana. La Thailandia in modo riluttante ha deciso di dare rifugio ai Rohingya ma ha paura che la situazione potrebbe peggiorare la fragile situazione nelle province meridionali di Narathiwat, Pattani e Yala, dove la popolazione musulmana chiede poteri autonomi.
Nella scorsa settimana, oltre 30 bombe sono scoppiate nella provincia di Yala, cosa che accresce il senso di sospetto da parte dello stato thai verso l’arrivo di Rohingya Musulmani. Sebbene non ci siano prova che i Rohingya possano diventare partecipi dell’insorgenza, il fattore religioso ha continuato a forgiare la politica Thai verso i Rohingya.
Inoltre l’idea eterna che la Thailandia sia uno stato fortemente omogeneo lascia poco spazio all’accettazione della diversità religiosa. Nel mondo thai i musulmani sono sempre stati percepiti come “L’Altro” nell’identità nazionale thai.
Quello che è ancor di più preoccupante è il fatto che i Rohingya sono stati rigettati da due nazioni musulmane come Indonesia e Malesia. Mentre i fattori etnico religiosi forse non giocano un grande ruolo in questo caso i Rohingya certamente sono visti come un peso economico ed una font potenziale di disarmonia sociale.
Ci si chiede: Quanta parte del bilancio nazionale si spenderebbe per aver cura dei Rohingya? Avrà un’influenza sul mercato locale del lavoro questa ondata i Rohingya? Il loro arrivo porterà ad un incremento del crimine e dell’insicurezza tra la popolazione locale?
La lista delle domande continua in riguardo per lo più alle minacce economiche e sociali dell’afflusso di migranti.
Nel contesto dell’ASEAN, la questione non è stata mai seriamente affrontata dalla Birmania e dagli altri stati che questo esodo tocca. Mentre l’ASEAN si è preposta un obiettivo ambizioso di raggiungere per la fine dell’anno la costruzione della comunità, la crisi Rohingya getta dei dubbi sull’abilità del gruppo regionale di gestire la questione delle migrazioni e della cittadinanza.
Mentre l’ASEAN è andata avanti negli anni in termini di rafforzamento organizzativo. È chiaro che il gruppo manca sia la finanza che i meccanismi per affrontare questo tipi di scelta. Infatti l’ASEAN è sempre stata una organizzazione “reattiva” che risponde ad una crisi senza piani preventivi. Lo Tsunami del 2004 e il ciclone Nargis del 2008 dimostrano come l’ASEAN sia stata mal messa per affrontare sfide umanitarie di vasta scala.
La Commissione intergovernativa per i diritti umani dell’ASEAN, AICHR, di fronte alle sofferenze che hanno luogo, vive questa situazione da lontano. Sebbene si pensi che il suo compito sia di proteggere i diritti umani nell’ASEAN, è triste dire che è rimasta per lo più impotente.
La situazione critica che vivono i Rohingya oggi deve servire come una eccellente opportunità per AICHR di risollevarsi e confermare il suo impegno di difendere i diritti umani fondamentali.
La AICHR avrebbe dovuto chiamare ad un incontro immediato i paesi dell’ASEAN per cercare una soluzione alla crisi. Eppure il suo silenzio prova ancora una volta quanto la protezione dei diritti non sia al top nella coscienza degli stati dell’ASEAN.
Per ultimo, cosa ha detto la Birmania sull’origine della crisi dei Rohingya? Ci si attende che il governo birmano affronterà la difficile questione Rohingya in modo triviale, secondo i suoi canoni stretti di cittadinanza. Ma quello che sorprende è il fatto che figure come Aung San Suu Kyi siano mute sul destino cattivo dei Rohingya. Suu Kyi non ha mai espresso preoccupazione per il loro benessere.
Dalla Birmania fonti dicono che lei ha desiderato restare neutrale poiché “Qualunque parte lei avesse sostenuto ci sarebbe stato del sangue”. Questo sembra davvero debole per un politico che osò sfidare il governo militare persino durante i suoi lunghi anni di arresti domiciliari.
Poiché è ammirata sia dai gruppi democratici che da chi difende i diritti umani, potrebbe dare una mano a trasformare la retorica della soluzione Rohingya in un qualcosa più tangibile.
PAVIN CHACHAVALPONGPUN, JAPANTIMES