La tragedia del 1965 reclamò le vite di membri del PKI, partito comunista indonesiano, e di altri considerati comunisti. Lo stato colpì tanta gente innocente con una violenza orrenda, come vittime sacrificali per i propri guai. Uno stigma violento è stato fatto passare da generazione in generazione. Oggi a cinquantanni dopo quel disastro umanitario, le vittime e le loro famiglie soffrono ancora della quella crudeltà.
La tragedia del 1965 ferì non solo le sue vittime dirette ma l’intera società del paese. L’intera nazione fu danneggiata dalla tragedia del 1965. A commettere le violenze non furono solo i soldati, ma anche i civili furono coinvolti. I soldati organizzavano giovani per attaccare le vittime. Il PKI fu trasformato in un male che minacciava l’unità nazionale. Fu precisamente questo discorso di unità che fu usato per distruggere la solidarietà nazionale. Successivamente l’unità indonesiana divenne un mero slogan. La solidarietà tra i cittadini divenne un mantra vuoto che mancava di ogni significato.
Un’altra eredità della tragedia del 1965 è l’impunità. I criminali divennero eroi nazionali, le vittime dei criminali. La storia nazionale fu stravolta. La violenza continuava poiché era vista come un metodo legittimo di risolvere i conflitti. Fino ad oggi, la legge e la sua applicazione sono mitigate dalle minacce, terrore e intimidazione da parte di gruppi violenti. Il sistema giudiziario indonesiano sembra essere malato. Non è mai chiaro quando si applica la legge e quando la si può ignorare senza pene.
E’ per questo che si è radicata un’idea forte tra chi è sopravvissuto alla tragedia del 1965 nella provincia Orientale di Nusa Tenggara, che non si può avere nessuna risoluzione al 1965 senza la confessione da parte dello stato della propria responsabilità per la violenza accaduta. La riconciliazione tra i cittadini alla base avrà un impatto minimo se lo stato non riconosce apertamente che le vittime sono davvero vittime della violenza di stato. Le vittime non sono, come si è sostenuto finora, traditori nazionali che minavano la Pancasila e l’unità della repubblica dell’Indonesia. Nulla di meno che una dichiarazione di colpa dello stato per le violenze del passato, con la completa riabilitazione dei delle vittime, avrà un effetto di guarigione sulle vittime e la società intera per andare avanti nel futuro.
Raccogliere le storie
La ricerca sulla tragedia del 1965 a Nusa Tenggara Orientale, NTT, iniziò in un incontro a Kupang nel 2010 con un gruppo di studio di donne chiamato JPIT, Rete delle donne dell’Indonesia Orientale per lo studio delle donne, religione e cultura. Provenivano da vari retroterra culturali, etnici e religiosi. Una ricerca comune fu di riscoprire storie di donne vittima della tragedia umanitaria del 1965. Come primo stadio furono selezionati sei luoghi della provincia.
La raccolta delle storie fu difficile. Si iniziò reclutando i ricercatori, tutte donne di due grandi chiese protestanti del luogo, la GMIT e la GKS. I ricercatori erano pastori ordinari o da ordinare. Alcuni che all’inizio si erano uniti con grande entusiasmo non giunsero fino alla fine. Alcuni si ritirarono per paura che la loro partecipazione avrebbe potuto mettere in pericolo se stessi e la famiglia.
La sicurezza fu una delle nostre prime questioni durante la nostra preparazione. Sapevamo che era una questione sensibile e che non tutte le vittime si sentivano libere di parlare. C’era la paura che i responsabili potessero minacciare tutto il gruppo di lavoro. Demmo alla ricerca un titolo innocuo “Donne e il servizio della chiesa nel periodo 1960 – 1970”.
La nostra paura della sicurezza si rivelò però non avere basi, forse perché i ricercatori erano tutte ministre di culto e le vittime erano donne sopravvissute. Il libro della ricerca fu pubblicato nel 2012 col titolo Memori-Memori Terlarang: Kisah Perempuan Penyintas Tragedi ’65 di NTT, e in lingua inglese sarà Forbidden memories: Women’s experiences of 1965in eastern Indonesia.
Oggi tre anni dopo l’uscita del libro non abbiamo vissuto quasi alcuna intimidazione. Il 27 luglio del 2015 abbiamo lavorato insieme al People’s ribunal 1965, IPT65, guidato dal professore Saskia Wieringa e alla signora Nursyahbani Katjasungkana per spiegare alla gente in Nusa Tenggara Orientale quello che IPT65 è e cosa fa. Invitammo sopravvissuti, militanti, rappresentanti del governo locale, capi religiosi e media. Si presentò anche un rappresentante locale dei militari per quanto non invitato. Forse l’interessamento della sicurezza è perché JPIT è ora una rete vasta o perché si sapeva di IPT65. Nessuno comunque ha vissuto cose poco piacevoli.
Reazioni
Vittime e sopravvissuti hanno reagito in tanti modi differenti, quando i ricercatori del JPIT li avvicinavano con domande del 1965. Non erano tutti pronti ad poter essere intervistati. Alcuni dicevano che non c’era nulla di quello che avrebbero potuto dire a poter cambiare quello che era accaduto. Sentivano ancora profondamente la perdita delle persone amate.
Alcuni si arrabbiarono anche con noi che eravamo visti come rappresentanti di una chiesa che aveva fatto la sua parte nella distruzione delle vite e delle loro famiglie. Sentivano che la chiesa non aveva alcun diritto ora a presentarsi e chiedere loro di ciò che era accaduto. Altri erano pronti a parlare, ma non hanno voluto che fossero pubblicate le loro storie. Credevano che fosse giusto condividere i pesi della vita con noi in quanto ministri di culto. Avevano comunque paura che la pubblicazione poteva incitare nuova violenza contro di loro e le loro famiglie, cosa particolarmente vera per i figli e genitori di impiegati dello stato che potrebbero patire le conseguenze delle loro storie. Il trauma vissuto da lacune vittime e da alcune famiglia resta molto forte.
Un altro gruppo ci diede il più profondo benvenuto. Una anziana e malata sopravvissuta dell’isola di Sabu disse al gruppo dal suo letto di degenza delle sue esperienze in quegli anni difficili. Continuava a svenire ma non smetteva mai di parlare. Dopo disse: “Se il signore mi chiama ora, sono pronta a morire poiché ho condiviso la storia della mia vita.” Sapemmo due mesi fa che era morta, in pace perché la sua storia era stata pubblicata.
Un uomo che nel 1965 era stato impiegato in un ufficio governativo a Kupang ci diede cataste di documenti che provavano che non si era trovato dal lato sbagliato. Sebbene alla fine fosse stato liberato dall’accusa di essere un membro del PKI, fu licenziato senza indennizzo. Ci disse: “So che un giorno qualcuno verrà a cercarmi perché sono certo che la verità vincerà. Sono innocente”. Quando morì lo scorso anno fu terribile per noi. Non vide alcun risultato dalla sua lotta con lo stato per i suoi diritti.
Fu questo ultimo gruppo ad essere il più impegnato ad una lotta per il riconoscimento da parte dello stato. Non hanno granché da difendere. Sarlotha Kopi Lede, una vecchia nonna disse con fermezza: “Siamo abituati alla sofferenza. Non abbiamo bisogno del denaro o di altro dallo stato. Rivogliamo solo il nostro buon nome”.
La lotta per il riconoscimento
Invitammo che era pronto a parlare ad incontrarsi con noi una volta ogni due mesi. Non tutti ce la potettero fare. La provincia è grande ed è costituita da molte isole. Ci viveva a Sumba, Alor o Sabu non riusciva a raggiungere Kupang. Solo chi viveva nella provincia di Kupang riusciva a essere presente regolarmente.
Demmo il nome a questi incontri di Amici della preghiera degli Anziani, Sahabat Doa Lansia. Pregavamo sempre insieme e facevamo riflessioni su parti della Bibbia. Ma c’era qualcosa di unico in questo gruppo di preghiera. Alla fine di ogni incontro discutevamo di come procedeva la lotta per il riconoscimento dello stato, e se riuscivano ad avere accesso ai servizi pubblici a cui avevano diritto.
JPIT condusse anche alcune ricerche con alcuni sopravvissuti. C’erano vittime di tortura a Amarasi Occidentale, vicino Kupang. Anche questi uomini si presentarono al gruppo di preghiera.
In uno dei nostri incontri le nonne decisero che saremmo andati ad incontrare i capi del governo locale e della chiesa per dare una copia del libro. Erano determinate a voler far ascoltare la loro storia alle generazioni più giovani. In altri incontri le nonne discussero come poter far riflettere altri settori della società. Speravano che studenti universitari avrebbero imparato che non tutto quello scritto nei libri di storia era vero e che avrebbero visto la storia attraverso gli occhi delle vittime.
La lotta per il riconoscimento da parte dello stato è ancora lunga. Nessuno sa quando sarà vinta. Chi sa quando alla fine il governo ammetterà la violenza commessa dallo stato nel passato? Le nonne di Timor sono convinte di avere una responsabilità particolare per condividere le loro storie per la guarigione della nazione. Credono che conoscimento dello stato non serva solo al loro bene, ma per tutta la popolazione. E per fare ciò sentono che non devono smettere di fare ascoltare la propria voce.
Il grande progetto di guarigione
La violenza del 1965 ha dato forma a tutta la violenza commessa dallo stato da allora. La tragedia del 1998, per esempio, non la si può risolvere se non si parte dal 1965. JPIT lavora ora alla prossima fase della ricerca su donne, conflitto e pace. Si lavora ad Atamba, Poso e Ambon. Abbiamo anche imparato da tutto questo che un percorso di violenze simili alla tragedia del 1965 ebbe luogo a East Timor, che non dista molto da Kubang, durante l’occupazione militare del 1975-1999. Provocazioni che intendevano produrre violenza e polarizzazione, stigmatizzazione e intimidazione erano combinate per distruggere la solidarietà dentro la società Un’altra somiglianza era l’uso di gruppi civili da parte dei militari, giovani, affinché partecipassero alle violenze.
Abbiamo anche imparato qualcosa sulla guarigione comune dalla saggezza locale a Timor Occidentale. Nella tradizione di quel luogo, la guarigione avviene attraverso il racconto delle storie e riponendo le cose brutte nel posto dovuto. Naketi lo chiamano. Senza riabilitazione e indennizzo, senza il reintegro dei diritti delle vittime e delle condizioni che sono state così fortemente distrutte dallo stato, non si può raggiungere la genuina riconciliazione. Il recupero della dignità umana e la guarigione della nazione non chiede di meno.
Il processo di accertamento della verità sarà certamente doloroso. Le ferite del passato sono come il pus nel corpo della nazione. Solo la prontezza a fare uscire questo pus può portare alla reale guarigione.
Finché questo marciume resta nel corpo, qualunque passo in avanti della nazione sarà appesantito dall’amarezza del passato. Finché si alimenta l’impunità non è impossibile persino una ripetizione del passato.
Mery Kolimon, ministro di culto della Chiesa Evangelica di Timor, JPIT, Inside Indonesia