Armate i buddisti, e bruciate una moschea per ogni buddista ucciso, era il tono del suo discorso. Nella dichiarazione di abbandono, Phra Apichart del Tempio di Marmo, nella sua retorica che somiglia molto gli estremisti buddisti di Myanmar o quella degli Ayatollah iraniani degli anni 70, ha promesso di fare solo una volta il passo indietro e che sarebbe ritornato al buddismo “quando i buddisti lo vogliono”.
Siamo esterrefatti da tutti i generi di odio sui media sociali, ma questa richiesta ardente di uccidere è la più sinistra, specialmente quando viene da un uomo religioso di un tempio rispettabile. La scorsa settimana ho anche incontrato un manifesto contro tutto ciò che è Halal, ed un ragionamento contorto secondo cui la produzione degli alimenti Halal accresce i costi e quindi i prezzi, che dovrebbero essere sobbarcati anche dai non musulmani che non se ne fregano proprio di come si deve uccidere una vacca. I commenti erano ovviamente una litania di frasi di odio. Fu una gioia masochistica dare uno sguardo, ma fino al punto in cui diventavano una visione dell’inferno.
Phra Apichart non era accurato sui fatti, che vuol dire che non è accurato su tutto. Ad ottobre 27 buddisti e 41 musulmani furono uccisi nel profondo meridione. A settembre 43 buddisti e 25 musulmani. Ad agosto 16 buddisti e 24 musulmani. In tutto il 2014, l’anno meno violento, sono stati uccisi 148 buddisti contro 176 musulmani. Complessivamente dal 2004 quasi 6500 persone sono state uccise nei passati 10 anni con la scala che pende leggermente verso i musulmani.
E’ deprimente non solo per le cifre ma poiché la morte è morte, e mentre il doverla categorizzare è una necessità burocratica, riduciamo l’essere umano a numeri e tipi.
Il punto è, sia i civili buddisti che musulmani condividono lo stesso destino, lo stesso rischio, la stessa prospettiva di pericolo. Sono stati uccisi monaci, come pure imam. Naturalmente i criminali sono per lo più i ribelli separatisti musulmani ma quello non cambia il mero fatto che il conflitto protratto, che ha distrutto così tante vite e consumato 50 miliardi di dollari per la difesa, colpisce chiunque indipendentemente da cosa pregano.
Sono passati dieci anni ed il monaco Phra Apichart non riesce a capire questa semplice verità.
Nessuno nega che la religione nutra il terrore; L’Islam ne ha visto molto di ciò, qui e all’estero, solo che non ho mai desiderato che il buddismo si adeguasse così rapidamente. Quello che complica tutto è la miscela tossica di nazionalismo e religione, e qui c’è la reale preoccupazione: il discorso di Phra Apichart rende manifesto il desiderio che non muore di rendere ancora più islamico il problema meridionale, che è ulteriormente complicato dalla richiesta del clero buddista di fare del buddismo una religione di stato. Quando scoppiò la violenza nel profondo meridione dieci anni fa, quando la gente aveva ancora un modo grottesco di pensare a causa dei pregiudizi di tanto tempo e alla mancanza di informazione, il discorso era che si trattava di uno scontro tra Musulmani e Buddisti. Negli anni, pensavo che era diventato chiaro come non fosse così, di nuovo guardiamo i numeri.
Ma quello che Phra Apichart diceva ha mostrato che quel modo di pensare gretto non è mai scomparso da alcune parti della società. Cova, si affaccia, cresce persino, attendendo di ritornare di nuovo in superficie.
E lo è. Quello che lo accende è forse l’esempio dei monaci di destra birmani, o l’orrore dell’estremismo islamico sul palcoscenico globale, o il problema dell’immigrazione, o il bigottismo troppo umano, o l’impulso strutturale a promuovere il nazionalismo. Oppure lo scrivere di un nuovo capitolo e l’idea del buddismo che si rende costituzionale come una forma di identità nazionale.
L’islamizzazione del problema meridionale non fa affatto bene se non per qualche soddisfazione da sangue caldo (e questo significa anche che l’atto di rendere ancora più islamico da parte di qualche musulmano, poiché gli estremisti spesso pensano alla stessa maniera). Il conflitto meridionale, come abbiamo ripetuto tantissime volte negli scorsi dieci anni, è una matrice di ingiustizie storiche, discriminazione etnica, fervore nazionalista, fallimento del sistema di giustizia e certo di tensioni religiose e culturali.
Distorcere la complessità mettendo in risalto solo quest’ultimo fattore per orgoglio, pregiudizio, politica o per vendetta, significa ignorare la struttura maggiore che ha fatto sanguinare la regione per così a lungo. Il consiglio della Sangha ha fatto la cosa giusta a mettere in guardia Phra Apichart, eppure quello di cui il monaco infuriato e il suo gruppo parlano è una manifestazione della mentalità disturbante che domanda allo stato di essere una cosa sola con la religione, e che la società sia delaicizzata in favore di una affermazione pomposa di moralità religiosa. Phra Apichart è per il momento calmo, ed il suo silenzio risuona come un eco dagli abissi.
Kong Rithdee, BangkokPost