Si è detto che 16 individui thailandesi sono implicati in questi documenti, ma sono stati rivelati pochi dettagli. Sembra quasi che i ricchi e potenti desiderano che questo scandalo esplosivo evapori senza conseguenze a livello locale.
Un tale errore sarebbe strano e divergente sotto il governo della giunta a tradire la sua pretesa di essere salita al potere per la crociata contro la corruzione, per ripulire e riformare il regno una volta per tutte. Grazie alle approfondite ed intense indagini di ICIJ, le Panama Papers ci dicono molte cose, e dobbiamo annotare per mantenere lontani l’ipocrisia e i grossi interessi. Esse sono istruttive per le lezioni che si sovrappongono con gli errori di regolamenti, con le falle del sistema fiscale e dei puri interessi acquisiti.
Nei capitali del mondo dove prevalgono il governo della legge e la responsabilità, l’attenzione è rivolta ai politici e alle figure pubbliche per il loro coinvolgimento nei paradisi fiscali come elencati dai rapporti di Mossak Fonseca, la compagnia legale panamense che si è specializzata a creare compagnie nei paradisi fiscali.
Eppur qui in Thailandia la Commissione contro il riciclaggio, AMLO, l’agenzia che ha il compito di indagare il percorso dei soldi dei cittadini thai i cui nomi sono citati nei Panama Papers, sembra molto calma e persino protettiva verso i nomi presunti, in forte contrasto rispetto ad altri casi che hanno attratto l’attenzione della AMLO.
Prima di tutto si deve determinare nelle indagini ufficiali la legalità di queste transazioni. Ma scrutinare la sola evasione fiscale non è sufficiente. Ci sono manchevolezze fondamentali nelle nostre istituzioni nazionali che hanno condotto all’uso sempre più forte di transazioni all’estero. Di fronte alla rabbia pubblica e alla richiesta di responsabilità, che in Islanda hanno portato alle dimissioni del primo ministro e in Gran Bretagna pongono Cameron in simile situazione, il trattamento ufficiale della Thailandia sembra perfettamente superficiale.
Ci sono tre questioni che spiegano la calma piatta sui Panama Papers thailandesi.
Prima cosa, è proprio vero che le autorità thai non avessero una qualche conoscenza dell’utilizzo degli investimenti offshore da parte di entità thailandesi? Sembra la cosa più improbabile. Le statistiche sull’investimento thai verso l’esterno sono pubblicate in almeno due fonti ottenibili, la posizione dell’investimento internazionale della Thailandia, IIP, della Banca della Thailandia e nei rapporti finanziari delle compagnie quotate in borsa.
Le statistiche dell’IIP del 2015 mostrano che un 25% dell’investimento all’estero della Thailandia OFDI è andato nei tre principali paradisi fiscali delle Isole Vergini Britanniche, le Cayman e Mauritius. Non è una cosa nuova dal momento che nel passato decennio la media era del 20%.
Quando lo si paragoni al 29% del 2015 andato ai vicini dell’ASEAN, principale destinazione del OFDI, si nota una quantità impressionante che può difficilmente essere sfuggita dalle autorità. Tracciando i dettagli dell’OFDI dai rapporti annuali della borsa si ha che la maggioranza delle compagnie stabilite nelle IVB e Cayman descrivono le proprie attività come compagnie di investimento o di proprietà.
Ovviamente il principale obiettivo per le compagnie multinazionali della Thailandia o di altri paesi è di stabilire delle filiali in centri finanziari offshore per l’efficienza fiscale, un termine ironico che significa minimizzazione delle tasse se non proprio evitare di pagarle.
Oltre alla segretezza garantita, queste località forniscono i minimi requisiti di regolamentazione, permettendo quindi flessibilità e vantaggi fiscali, tra i quali nessuna tassazione sugli interessi, dividendi e pagamenti di royalties. Per le multinazionali i paradisi fiscali con trattati di doppia tassazione sono anche attraenti perché il flusso delle entrate non viene tassato più di una volta per entrate generate globalmente. Le autorità thai hanno bisogno di un approccio integrato non solo appoggiarsi all’AMLO, per monitorare e impedire transazioni offshore nei paradisi fiscali.
Seconda cosa, l’apatia locale sui Panama Papers la si può attribuire alla mancanza di conoscenza sulla proprietà delle imprese corporate. L’uso diffuso di vari gradi di filiali, molte delle quali sono di proprietà di una rete complessa di azioni, potrebbero confondere l’identità reale dei proprietari e far perdere le tracce alle autorità di chi possiede cosa. Le inefficienze nelle istituzioni legali e del mercato dei capitali, comuni nelle economie emergenti con domini familiari forti, hanno portato a strutture complesse di proprietà tra i grandi gruppi industriali con il risultato di numerosi filiali con condivisioni di azioni all’estero ed a casa. Perciò si possono istituire compagnie comprensive nei paradisi fiscali offshore per perseguire attività di affari a cui le autorità in patria non riescono a controllare.
Mentre si possono affrontare i controlli delle autorità e la struttura complessa delle proprietà con regolamenti più attenti e stringenti, la terza questione è forse la più difficile.
Non è che non siamo toccati dall’informazione diffusa dai Panama Papers solo a causa dei suoi doppi standard? Sembra quasi che giudichiamo una cosa cattiva per chi l’ha fatta piuttosto che per cosa è stato fatto.
Un esempio potrebbe essere la vendita di suoli da 600 milioni di Baht, oltre 15 milioni di euro, da parte del Generale Prayuth Chanochoa che nel 2013 era capo dell’Esercito, cosa che si è venuta a conoscere quando dichiarò le proprietà al momento di divenir primo ministro.
La transazione era connessa ad una compagnia offshore nelle Isole Vergini Britanniche, legata a Charoen Sirivadhanabhakdi, il patriarca del gruppo di affari Thai Beverage e seconda persona più ricca in Thailandia secondo la lista di Forbes del 2015.
In molte altre circostanze questa storia sarebbe stata investigata per guadagni senza scrupolo e dettagli piccanti che potrebbero aver violato la legge. Ma questa storia cadde nell’oblio.
Un altro esempio è Kurlab Kaew, uno strumento di affari thai stabilito dalla Temasek di Singapore attraverso compagnie offshore per acquistare Shin Corp che appartenevano alla famiglia dell’ex premier Thaksin Shinawatra nel gennaio 2006. Il caso Kularb Kaew pose in luce la controversia del nominato e della circonvenzione all’estero e contribuì alla caduta di Thaksin.
Mentre questi due casi mostrano che l’uso delle compagnie offshore negli oscuri paradisi fiscali non è cosa nuova in Thailandia, le indagini però divergono e dipendono su chi è indagato piuttosto che la legalità della transazione. Forse Panama Papers attrarranno più interesse se i 16 nomi che sembrano esserci cadranno lungo la divisione politica del paese.
L’uso e l’abuso dei paradisi fiscali è un fenomeno globale. Per gestirlo bene sono richieste la supervisione globale e locale. Il progresso non è difficile da immaginare.
Le informazioni sulle transazioni offshore sono a disposizione e devono essere usate a pieno da chi applica la legge. Strutture di proprietà a molti livelli devono essere minimizzati e scoraggiati per aumentare la responsabilità delle grandi imprese e per scoprire la potenziale corruzione e il conflitto di interessi. Inoltre la pratica cattiva delle grandi imprese deve esser trattata e perseguite in un modo univoco.
PAVIDA PANANOND, Bangkokpost