Gli antenati delle popolazioni attuali del sudestasiatico parlano attraverso i loro monumenti complessi e ci tramandano lezioni sulla complessità.
Viviamo in un momento particolare in cui tante comunità e nazioni al mondo sembrano volersi dedicare alle proprie glorie perse da tempo, consumandosi per il ritorno ad un passato reazionario, quando il mondo li guardava come qualcosa di speciale e superiore.
La cosa, in sé, ci pone due semplici domande: Se queste nazioni o comunità erano grandi un tempo, quella grandezza era forse a spese di altre comunità e nazioni che furono soggiogate da loro e quindi rese inferiori, minori, più deboli? E se quello era il caso, non è una cosa buona che tale “grandezza”, se conquistata a spese di altri, si sia persa oggi?
Con questo pensiero ho salutato la notizia della scoperta di un immenso e certamente impressionante complesso città nelle vicinanze di Angkor Wat in Cambogia. Per un paese la cui storia recente è stata segnata dalla tragedia umana e dalla perdita, una notizia così è certamente benvenuta. Perché Angkokr Wat è diventata un’icona totemica del paese ed è ora una grande fonte di guadagni dal turismo.
Che il complesso di Angkor Wat sia diventato una destinazione turistica tra le più grandi è più che giustificato: chiunque l’abbia visitato sarà stato impressionato dalla scala e dalla grandezza del posto, e dal sontuoso lavoro artistico che si può notare. Il tempio complesso di Angkor fu costruito nel XII secolo quando il sistema di credo dominante era l’Induismo per diventare, però, in seguito un complesso buddista; la cosa riflette il passato fluido e complesso della Cambogia e del Sudestasiatico, dove le culture e i sistemi di credo spesso si mescolavano e adattavano alle realtà socioculturali della regione.
Angkor è davvero una gemma che merita tutte le lodi piovutele addosso. Credito è anche dovuto alla popolazione cambogiana che ha fatto di tutto per preservare il luogo che è ora la loro icona nazionale, perché è davvero una ricchezza per tutta l’umanità. Nelle ultime settimane è stato rivelata, nelle vicinanze di Angkor, l’esistenza di resti di quello che potrebbe essere un immenso complesso cittadino che è rimasto sepolto da secoli.
Grandezza e nostalgia
Comunque vale la pena ricordare qui la storia della “scoperta” di Angkor per mano di Henri Mouhot e il modo in cui si definì l’identità Khmer Cambogiana dopo la scoperta: non si deve dimenticare che Angkor fu “scoperta”, o piuttosto fatta conoscere al mondo occidentale, come un risultato dell’intervento coloniale francese in Indocina nel XIX secolo.
In quel tempo l’obiettivo primario degli esploratori francesi era di trovare, attraverso il fiume Mekong, nuove strade di commercio verso la Cina che avrebbero dato accesso al mercato cinese ed anche supremazia sulle altri rivali europee, la Gran Bretagna essenzialmente.
Quando l’artista ed esploratore Louis Delaporte si ritrovò ad Angkor, rimase colpito da quello che vide. I suoi disegni furono tra i primi di Angkor fatti da un europeo allora. Fu lui che aiutò a creare la leggenda di Angkor, e fu lui il responsabile per elevare lo status di Angkor in Europa. Delaporte inizialmente trovò resistenze da storici dell’arte e curatori, che non rimasero impressionati dal suo racconto di Angkor: per quanto possa sembrare ironico oggi, la trovarono noiosa e cattiva imitazione dell’arte e architettura dell’India e dell’Egitto.
L’intervento coloniale francese in Cambogia, insieme al Laos e al Vietnam, portò alla creazione della Indocina e fu la scoperta di Angkor che elevò quell’impresa coloniale, che era tutta basata sui profitti e geopolitica, in qualcosa di più alto.
Grazie a questa “ scoperta di Angkor ” i francesi in Indocina iniziarono a vedersi non come colonizzatori e costruttori di impero, ma curatori e custodi di una civiltà grande ed antica.
Sta tutta qui l’ironia alla radice della scoperta di Angkor da parte dell’occidente: il governo coloniale si era appropriato di Angkor come prova di un antica civiltà scomparsa un tempo grande ma non più. In altre parole, i Cambogiani, e quindi tutti gli abitanti del sudestasiatico, erano una grande popolazione del passato, la cui gloria era scomparsa, e che ora avevano bisogno di essere civilizzati dall’occidente. Mentre immediatamente Angkor divenne l’icona totemica della Cambogia e della Cultura Khmer, si definì anche quella cultura come antica, agraria, feudale, mistica e non scientifica: fu una scoperta dal doppio significato che, allo stesso tempo, elevava e soggiogava i Khmer.
La trappola della nostalgia
Oggi viviamo in un’era di stati nazione moderni, ma non serve nulla dire che, in così tanti modi fondamentali, le nostre visioni del mondo, le nostre epistemologie e sistemi di valori sono stati formati dalla modernità. Si guardi alla mappa del Sudestasiatico e si vedrà che aleggia ancora su di noi la lunga ombra del colonialismo del XIX secolo, per il modo in cui furono fissati i nostri confini nazionali durante il periodo coloniale un secolo fa.
Ma da moderne società postcoloniali, ci comportiamo come comunità moderne e facciamo quello che la gente moderna fa: ci appropriamo del nostro passato, talvolta in modo strumentale, e reclamiamo il passato come nostro, talvolta in modo esclusivo. Si deve notare, però, che quando Angkor e glialtri templi come Ayudhya, Pagan, Borobudr e Prambanan furono costruiti i nostri antenati non avrebbero potuto anticipare l’arrivo dello stato nazione moderno come lo conosciamo oggi.
Le nostre storie sono ora storie nazionali: storie di stati nazione piuttosto che storie di popolazioni o comunità. E c’è spesso la tendenza ad appianare le complessità del passato fluido ed ibrido per amore di una semplice narrazione nazionalista che non accetta confini confusi o ambigui, multipli, identità e rivendicazioni che si sovrappongono.
E’ solo giusto che i Cambogiani siano contenti che sia stata fatta una nuova grande scoperta attorno ad Angkor Wat, ed che si debba fase ogni sforzo per riportarli alla luce e proteggerli. Ma nel fare ciò non si cada anche nella trappola di una nostalgia reazionaria di storie semplici e felici di grandezza.
Perché la “grandezza” di Angkor, direi, è che mostra come i nostri antenati, i precursori delle popolazioni moderne del Sudestasiatico, vivessero in un mondo che era complesso, mobile, pieno di sfumature e sfide. Quando si fece il primo censimento nella Cambogia del XIX secolo, si trovò che a Phnom Penh soltanto c’era una miriade di comunità che vivevano insieme: c’erano khmer, ma anche annamiti, siamesi, laotiani, Malay di etnia Cham, cinesi, indiani, arabi, euroasiatici e poi europei. In altre parole il mondo era già arrivato nell’Asia del Sudest e quella è una testimonianza di come fosse globalizzata la nostra regione, ben prima che fosse coniata la parola “globalizzazione” poi diventata così di moda.
Quello su cui abbiamo bisogno di riflettere oggi in modo serio è che quasi tutti i grandi siti archeologi della regione rivelano una dovizia di popolazioni differenti che vivono, lavorano e commerciano l’un con l’altro: perché queste erano comunità che sembravano capaci di accettare, accomodare e abbracciare la diversità senza doversi addentrare nella rotta intricata di politiche identitarie e di dover negoziare costantemente le loro differenze.
Se riuscivano ad esistere nel passato, fianco a fianco, templi e moschee di fedi e denominazioni differenti, significa che le comunità che erano per lingua, cultura e per religione differenti riuscivano a convivere. Cosa ci dice dei nostri antenati premoderni e come si riflette su di noi oggi?
Quindi la notizia della scoperta di Angkor deve darci ragione a celebrare insieme ma anche fermarci un po’ nella nostra marcia nel futuro: l’importanza di siti storici come Angkor va ben oltre il dollaro del turista o come si vendono per belle cartoline e per situazioni cinematografiche.
Questi siti sono la concreta evidenza di mondi alternativi e visioni del mondo che erano un tempo reali e che abbiamo forse oggi perso.
Nel riprenderci il nostro passato non si cada nella trappola della semplice appropriazione, ma si impari anche qualcosa di noi stessi. I nostri antenati sono scomparsi, ma nei complessi dei monumenti e strutture che ci hanno lasciato, complessi nel vero senso del termine, ci parlano ancora e possono insegnarci qualcosa.
FARISH A NOOR, Professore presso S. Rajaratnam School of International Studies, Singapore. The Straits Times