Dopo una dipendenza strategica dagli USA lunga quasi un secolo, le Filippine sono ora interessate a disegnare il proprio cammino. Duterte si è presentato come un totale anticonformista che vuole scuotere lo stato delle cose del paese, dovesse anche venire a spese dell’estraniamento dei paesi alleati tradizionali.
Ma non molto tempo fa il nuovo presidente eletto è stato apostrofato sindaco di provincia, parolaio da molti paesi del mondo.
Molti analisti si sono domandati della sua competenza a guidare una delle economie a più rapida crescita al mondo. Altri temevano una mancanza di conoscenze strategiche importanti per gestire questioni di politica estera come le dispute nel mare cinese meridionale.
Dopo un mese dal suo insediamento, Duterte si ritrova a ricevere il corteggiamento delle potenze globali, USA e Cina, vogliose di vincere la sua volontà.
Duterte, che si descrive come un socialista con legami storici forti col partito comunista filippino, ha promesso una nuova era sia a livello nazionale che nel confronto con la comunità internazionale.
Ha proposto un cambio di paradigma nella politica estera filippina. Alcuni dei suoi critici liberali legati molto agli USA prontamente hanno sollevato lo scenario potenziale di un Hugo Chavez nelle Filippine.
Come nessuno prima di lui, Duterte in uno dei giorni più succulenti della sua campagna elettorale, si spinse a dire all’ambasciatore USA a Manila e al suo collega australiano di “chiudere la bocca”.
Ha persino minacciato di tagliare i legami delle Filippine con i due alleati occidentali più forti una volta che assume la presidenza.
Di rado ha lasciato andare la possibilità di mettere sotto la luce Washington chiedendo quanto la superpotenza fosse impegnata verso le Filippine: “Siete con noi?” si dice abbia chiesto agli USA, per rendere chiara la propria posizione, fino a che punto si sarebbero spinti per difendere le Filippine verso le minacce esterne.
Ha anche fatto capire, tra le righe, di essere disposto a restringere l’accesso militare americano alle basi filippine. “I militari americani non potrebbero usare un altro luogo nelle Filpiine senza la conoscenza o finché c’è il sostegno delle nostre forze armate” ha spiegato Duterte quando gli è stato chiesto cosa ne pensasse dell’EDCA, l’accordo di cooperazione tra USA e Filippine.
Nel frattempo Duterte ha incontrato spesso l’ambasciatore cinese Zhao Jinhua. L’inviato cinese si è persino incontrato con Duterte appena prima della pubblicazione della decisione arbitrale del Tribunale permanente di L’Aia, su richiesta di Manila, che emise una sentenza contro Pechino sul Mare Cinese Meridionale.
Secondo tutti sono stati scambi profondamente cordiali, toccanti se si considerano le sempre più amare dispute tra i due vicini.
Lo stesso presidente cinese Xi Jinping inviò i suoi auguri personali a Duterte che segnalò a sua volta la volontà a riaprire i canali di comunicazione con Pechino senza sbandierare la vittoria legale contro la Cina a L’Aia.
Un’analisi più sottile rivela che Duterte non cerca di allontanarsi dall’occidente per saltare tra le braccia cinesi, quanto creare un bilancio salutare nelle relazioni di politica estera del paese.
Vuole assicurare che il suo paese non sia sottovalutato e nello stesso tempo trarre i massimi benefici dalle superpotenze che corteggiano il suo paese.
Finora la strategia sembra funzionare. Invece di estraniarsi l’occidente Duterte sembra aver catturato la loro attenzione come non mai.
Il presidente Obama fu il primo capo di stato a chiamare personalmente Duterte dopo la sua vittoria. Il primo ministro canadese Justin Trudeau fu il secondo. L’inviato nuovo americano a Manila, Sung Kim, ha una storia ragguardevole in diplomazia di alto livello, dopo essere stato l’inviato americano in Corea del Nord.
Solo questo mese, gli USA hanno inviato due dei suoi diplomatici più anziani a Manila per mantenere uno dei suoi alleati più fidati in Asia. La prima fu Kristie Kenney, consigliere del dipartimento di stato ed ex amabasciatrice a Manila, che cercò di “iniziare la conversazione con il nuovo governo filippino”
Non passa molto tempo che il segretario di stato Kerry atterra a Manila pronto a discutere totalmente gli impegni strategici con le Filippine. Queste visite riflettono la crescente preoccupazione sulla possibilità di un reindirizzamento della politica estera filippina specie verso la Cina.
Negli ultimi mesi il gigante asiatico ha offerto alle Filippine grandi investimenti infrastrutturali mentre offriva dialogo per risolvere le dispute nel mare cinese meridionale.
Duterte fa un atto di fede diplomatica nominando il già presidente Fidel Ramos, un uomo di stato molto rispettato che riuscì a gestire con la Cina alcune dispute marittime a metà degli anni 90, ad iniziare negoziati bilaterali di alto livello con la Cina.
Eppure Duterte sembra conscio dei rischi inerenti al negoziato con Pechino che si è dimostrata intransigente nelle dispute territoriali. Più probabilmente il presidente filippino considera uno spostamento tattico di breve periodo con la discussione diretta con Pechino per verificare la situazione.
Se il suo reindirizzo temporaneo non dovesse portare frutti, la cosa più probabile, si attende maggiore assistenza e assicurazione dagli alleati occidentali come opzione di ripiego. Questa è la ragione perché ha salutato i colloqui di alto livello con gli USA.
Una cosa sembra chiara. Con la Cina e gli USA che corteggiano attivamente le Filippine, Duterte, sindaco di provincia, ha astutamente accresciuto la propria posizione di contrattazione sul tavolo strategico regionale.
Richard Heydaryan, Al Jazeera