Un morto ed altri 18 feriti a ricordare Tak Bai, con lo scoppio di una bomba vicino ad un ristorantino a Pattani, lunedì.
L’attacco è coinciso con l’anniversario per ricordare Tak Bai, quando decine di malay musulmani morirono per mano delle forze di sicurezza thai. Quell’evento, di cui ricordiamo dopo il passato, accese l’insorgenza del meridione thailandese dodici anni fa.La bomba ha distrutto il ristorantino verso le sette della sera nel centro di Pattani nel meridione thai di lingua malay.
“Una donna è morta, una buddista thai ed altri 18 sono i feriti.” ma olti di questi feriti versano in gravi condizioni.
Da quel 25 ottobre del 2004, quando morirono 85 thai musulmani soffocati nei camion militari, è iniziata un’insorgenza che ha fatto 6600 morti, in gran parte civili, e decine di migliaia di feriti. Questo ottobre ha visto un’ondata di attentati a segnare l’inizio di quell’insorgenza.
Va fatto notare che l’attentato è accaduto nel centro di Pattani che si suppone nella morsa della sicurezza, ma questo non impedisce all’insorgenza di muoversi e colpir a piacimento.I negoziati che la giunta militare usa come paravento non riescono a decollare, mentre l’insorgenza mostra di saper colpire anche fuori dei suoi territori storici come accaduto ad agosto scorso. Ma lo stato thai nega che questi attentati, giunti a Hua Hin e Phuket, abbiano a che fare con l’insorgenza per non intaccare l’immagine del meridione thailandese.
Ricordare Tak Bai dodici anni dopo
Ogni anno nel Ramadan, tante persone passano il confine a Tak Bai per comprare da mangiare per il pasto serale e interrompere il digiuno; allo stesso modo a Taba attraversano il confine nella Malesia per comprare gli abiti nuovi per la festa del Hari Raya che celebra la fine del Ramadan.
All’alba del 25 ottobre del 2004, nel dodicesimo giorno del digiuno del Ramadan, la gente di Tak Bai iniziò la loro solita vita. Questo giorno sarebbe stato differente. Un gruppo, la mattina, si riunì per una dimostrazione a chiedere giustizia per sei membri di un Gruppo di Sicurezza del Villaggio che erano stati arrestati. In tanti andarono a vedere la dimostrazione, e in tanti giunsero con auto e camion per vedere cosa succedeva quando sentirono cosa stava succedendo. Nessuno pensava che quegli eventi della giornata avrebbero cambiato la loro vita.
Benché siano stati pagati i risarcimenti, tutte le famiglie, ogni giorno vanno avanti senza che sia stata fatta giustizia.
La Storia di Yaena Salaemae: marito ucciso e figlio in prigione.
Yaena, che vive nel distretto di Tak Bai a Badomati, cuciva in casa quando la gente iniziò a parlare di una dimostrazione vicino alla frontiera a Tak Bai. Yaena e il figlio Muhammad Maruwasi Malong andarono a vedere di cosa si trattasse. Dopo il loro arrivo non riuscirono ad andarsene: “Cucivo, verso le 9 di mattina, quando seppi della dimostrazione e andai a vedere cosa fosse. Andarono mio figlio e mia figlia anche. Volevamo vedere di cosa si trattasse, ma poi lì non riuscimmo ad andare via. I capi della dimostrazione dissero che non ce ne potevamo andare. Molta altra gente giunse durante la giornata, e c’era solo un percorso per entrare ed uscire. Vennero le forze dell’ordine e chiusero il percorso così non c’era modo di uscire.”
Gli uomini erano alla testa, le donne dietro, vicino un parco per bambini vicino al fiume, Yaeana era separata dal figlio.
“La sicurezza disse che ci avrebbero fatto tornare alle case alle tre di pomeriggio, ma a quell’ora cominciarono a sparare. Ed i lacrimogeni. Spararono in aria e vicino alla folla. Alcuni ascapparono nel fiume.” dice Yaena.
Una volta che tutti erano distesi per terra e il fumo si era diradato, le autorità separarono le donne dagli uomini che furono mandate a casa. I feriti inviati all’ospedale. Agli uomini fu intimato di togliere le magliette e ebbero le mani legate dietro le spalle. Furono buttati a cassone dei camion accatastati come legname.
“Tornai a casa senza figlio. Il più giovane andò a parlare con l’avvocato. Andai alla base di Ingkhayut ma non fu permesso di vedere i prigionieri. Non mi lasciarono entrare. Fu di lunedì la manifestazione, il martedì non sapevo se il ragazzo era vivo o morto. Mercoledì chiamò a casa e gli chiedemmo degli altri ragazzi che conoscevamo, riuscendo a scrivere una lista di chi viveva. Dopo una settimana di detenzione fu rilasciato su cauzione mentre altri furono tenuti fino a 45 giorni. Solo dopo il suo rilascio sapemmo che era stato accatastato sui camion nel secondo strato di corpi, e che i soldati camminarono su di loro colpendoli. Non riuscii a mangiare o bere per due giorni.”
Suo figlio fortunatamente non fu ferito, ma sfortunatamente fu accusato di essere uno dei capi della violenza ed incriminato insieme ad altri 57 senza alcuna ragione.
Suo figlio dovette presentarsi settimanalmente al tribunale. Gli altri abitanti furono colpiti anche. I figli di alcuni fuono uccisi, alcuni feriti. Yaena contattò giornalisti, attivisti dei diritti umani, membri delle ONG che come Soraya Jamjuree, Angkhana Neelapaijit e Pechdau Tohmeena riuscendo a comprendere il processo giudiziario e la necessità di chiedere un risarcimento. Da allora nonostante la sua istruzione era appena abbozzata, Yaena non ha mai smesso di chiedere giustizia.
“Parlavo agli altri. Nessuno riusciva ad accettare quello che era successo. Erano feriti e arrabbiati. Volevano la vendetta e lottare. Provai a dissuaderli. Con la vendetta ci mettevamo dalla parte del torto, ma provavo a far comprendere loro anche le forz dell’ordine. Dissi loro che anche Allah lo aveva detto. Ma alcuni dissero che una cosa così non andava bene. Inaccettabile”.
Dopo le lotte di due anni, il governo di Surayud Chulanont chiese le scuse per Tak Bai e Krue Se e ritirò le accuse. Ma accadde solo dopo due anni di battaglie di tribunale. Il figlio di Yaena e altri 59 ingiustamente accusati ricevettero 30 mila baht di risarcimento.
“L’inchiesta sulla morte ammise che erano stati soffocati. Abbastanza vero. Ma la gente non era soddisfatta; volevano sapere dalla corte perché erano stati soffocati.”
Yaena dice che dopo il risarcimento e dopo aver accettato di non fare causa allo stato, la maggioranza era abbastanza soddisfatta e stanca di portare avanti la lotta. “Non potevo farci nulla perché la gente non voleva lottare più. Sentivano di non farcela perché significava altri anni ancora di tribunali e non volevano guai dai militari”.
La richiesta instancabile e incessante di Yaena attirò il sospetto che la donna sostenesse i juwae, l’insorgenza. Fu sorvegliata costantemente e chiamata dai militari. “Non andavo. Non sapevo cosa e chi fossero gli juwae. Ho fatto solo la scuola elementare e non ho studiato alle scuole islamiche. Da allora polizia e soldati circondarono e perquisirono la casa regolarmente. Nei primi dieci anni vennero a gruppi oltre dieci volte. Come si avvicinava l’anniversario, i soldati venivano e perquisivano per intimidirmi, per prevenire attività politiche. Ogni volta che accadeva qualcosa vicino, venivano a perquisire la casa. Il caso più estremo fu nel 2014 quando dissero che c’era un ricercato a casa mia e vennero in gran numero a perquisire. Ma non vengono da due anni ormai.”
Ma non fu la prova più dura. Nel 2007 suo marito Mayuso Malong fu sparato a morte in una caffetteria per strada. Testimoni, prove e rapporti dei passanti dissero che l’omicida era un membro della Guardia dei Volontari, legata ai militari, con lo scopo di porre fine al movimento di giustizia con l’intimidazione. Il livello di paura era comunque così alto che nessuno si fece avanti a testimoniare e nessuno fu accusato.
“Allah non vuole che abbia paura. Aiuto la gente. Non so se serve per guadagnare meriti ma la vita di mio marito è sempre stata sacrificata. I miei figli dicono che ho fatto abbastanza. Chiedo loro, però, se non continuassi a chi verrebbe a chiedere aiuto la gente? Non mi fermerò. Chiedo la benedizione ad Allah di una vita lunga per aver cura dei figli al posto del padre. E quello i toglie la paura dei militari. Quando morì mio padre, i soldati vennero a casa e dissi loro che l’omicida vestiva un’uniforme militare. Dissero che i fuorilegge possono anche indossarla”. Suo marito non era conosciuto molto, perché era sulle sue, ma la gente andò alla casa sua ogni giorno a mostrare il loro dolore.
Hayiding Maiseng: un proiettile alle spalle che passa il petto.
Aveva 47 anni Hayiding Maiseng all’epoca dell’incidente. Non era interessato alla manifestazione ma passò per la zona per comprare da mangiare per il pasto serale del Ramadan. “Non andavo alla manifestazione ma a Taba per comprare da a mangiare. I chiesi perché c’era così tanta gente e andai a edere cosa accadeva. Erano le 11 la mattina. Ma dopo essere entrato non riuscii più ad uscire. C’era un posto di blocco all’uscita. Verso le tre si sentirono dei colpi verso i dimostranti. La gente si acquattò e corsi a ripararmi dietro ai blocchi dove piantavano alberi, ma rimasi colpito. Riacquistai coscienza il giorno dopo nell’ospedale di Pattani. Non so perché mi mandarono così lontano. Forse perché volevano che morissi. Ma non morii. C’erano altri sette feriti allo stesso ospedale. Tutti colpiti. I nostri familiari provarono a farci visita ma non fu permesso loro per tre giorni. I soldati non ci lasciavano muoverci. Dopo fui indagato di continuo. Quando finalmente qualcuno venne a visitarmi, seppi che molti del mio villaggio erano morti.”
Dopo che guarì, Hayiding andò a lavorare in Malesia per tre mesi. I soldati andarono a casa sua spesso, quasi ogni giorno. Immediatamente dopo il suo ritorno, i militari si presentarono a casa sua con due veicoli armati. “Al loro arrivo offrii loro cocco e acqua fresca, per amicizia nei confronti dei soldati. Venivano così spesso che non avevamo più paura.”
Sebbene sia rimasto contento del risarcimento avuto, non c’è ancora giustizia: “Prima volevo che punissero i militari, ma ora non so cosa posso fare.”
Mueyae: madre sofferente il cui figlio morì dolorosamente
Moglie di 56 anni, Mueyae So perse il figlio che era un giovane uomo. Era andata insieme a suo figlio a vedere cosa succedeva vicino al passaggio di frontiera dove tanta gente si era radunata. Giunta nell’area della dimostrazione non riuscì più andarsene. Alle tre i dimostranti furono dispersi con cannoni ad acqua e pallottole. Al pari di Yaena, Mueyae si trovava con le donne sul retro. Si acquattò nel fiume per sfuggire ai proiettili.
Appena la sicurezza ebbe il controllo della situazione chiamarono le donne dall’acqua e misero gli uomini di fronte alla stazione di polizia. Provò a cercare suo figlio ma dovunque guardasse non riusciva a vederlo. Al tramonto la portarono a casa.
“Pensavo che mio figlio fosse stato arrestato ma sarebbe stato salvo. Pensavo che se lo avevano arrestato ne avrebbero avuto cura. Non ero preoccupata molto. La mattina la gente cominciò a dire che erano morti molti nel campo militare, ma non sapevo che mio figlio era morto. Suo padre q quasi tutto il villaggio andarono a cercarlo senza trovarlo e tornarono a casa. Il terzo giorno andarono all’incrocio dove posero i nomi di chi era morto e qualcuno vide il nome di mio figlio.
“Andammo alla base militare per identificare il cadavere. Non riuscii a riconoscerlo subito. Alla fine lo riconobbi da un segno sul polso e dall’asciugamano rosso. C’erano tre corpi del nostro villaggio e li riportammo tutti e tre insieme. Non so come fosse morto. Non c’erano segni di proiettili, ma il corpo era blu, nero e gonfio. Non riuscivo a spiegarmelo. Sapevo solo che era stato lo stato e temevo per la mia famiglia, che gli altri due figli potessero essere uccisi. Provavo rabbia e volevo vendicarmi e mi chiedevo come si potesse coesistere in questo modo con lo stato”.
Diceche isoldati sono andati a trovarla tantissime volte. Le facevano domande del tipo, Quante persone sono qui?, chi sta qui? Chiedevano spesso se fosse venuto a stare qualcun altro che lei nascondeva. Spesso i soldati passavano camminando e lei capiva che provavano ad intimidirla.
La famiglia ricevette un grosso risarcimento ma per lei non è finita. La morte del figlio le pesa ancora. “Capisco che la morte è la fine. Che non tornerà. Ma per me non è finita. Il tribunale disse che morì soffocato. Non mi basta. Perché lo soffocarono? Se non li avessero accatastati l’uno sull’altro non sarebbe morto. Le mani erano legate ed i soldati siedevano su di loro. Voglio una nuova sentenza per riaprire il caso. Ma non posso lottare. Sono un abitante di villagio qualunque. Se provassi a lottare non cambierebbe nulla.”
Mueyae dice che negli ultimi 12 anni l’arrivo del Ramsdan era una tortura mentale. Non può fare a meno di pensare al figlio. Evita le immagini di Tak Bai e le notizie che la fanno pensare al figlio morto e la fanno soffrire. Evita di andare vicino al sito dell’incidente.
La gamba sinistra di Maliki Dolo
Quella mattina Maliki Dolo non sapeva nulla che il suo giovane corpo sarebbe stato reso disabile, che non sarebbe stato più capace di lavorare o di aver cura di sé.
“Quella mattina verso le nove e mezza andai al passaggio di frontiera, volevo comprare nuovi vestiti per la festa del Hari Raya. Vidi un grande gruppo di persone ed andai a dare un’occhiata. Non sapevo chesarebbe finita così. Provai ad andarmene ma non ci riuscii. Avevano chiuso le vie di uscita. Non spendo che fare e andi sul fiume. Quando caricarono la manifestazione, ebbi la fronte tagliata da una pietra da una fionda. Mi abbassai a lavare la ferita nel fiume ma fu sparata un fumogeno e chiusi gli occhi e mi acquattai. Rimasi giù a lungo e quando provai ad alzarmi, non me lo permisero. I soldati dissero che chiunque si alzava era morto. Sparavano alla folla. Mi voltai e vidi una persona al mio fianco colpito in faccia e fu il silenzio.”
Dopo che la situazione fu sotto controllo, ordinarono agli uomini di togliere le magliette. Legarono le mani alle spalle e li ordinarono di stendersi e tenere la testa bassa. “I soldati ci ordinarono di saliere sul retro del camion, ma con le mani legate non ci risucivamo. CI presero ad uno alla volta e ci buttarono come blocchi di ghiaccio.
Furono buttati a cassone in strati intrecciati. Il cassone era troppo stretto per stare sdraiati e Maliki dice che le sue gambe dovettero essere ritratte per tutto il percorso da Tak Bai alla base di Ingkhayutthborihan. Il viaggio di 150 chilometri impiegò sei ore.
“Sentii qualcuno sotto di me respirare rumorosamente come se avesse acqua nel naso e immaginai fosse sangue. Lo sentivo dal primo momento che fummo posti a cassone. Alcuni gemevano con forza ed i soldati che stavano su di noi dicevano che se non la finivamo avrebbero fermao il camion. Provai a rilasciare dell’aria per lui ma dopo un po’ non sentii più il suo respiro. Qualcuno sotto disse non ce la faccio, poi fu silenzio.
Sul camion faceva caldo, pieno di dolori, esanime, non riuscivo a respirare. Se iniziavo a piangere non l’avrei finita più. Lo sopporterò e non penserò che ad Allah”.
“Ad un certo punto persi conoscenza. Non so quando. Giunsi a 21 giorni dopo nell’ospedale di HatYai. Mi svegliai e scoprii che mi avevano amputato la gamba.”
I muscoli erano morti e in decomposizione perché rimasti sotto pressione a lungo. Poi tolsero la carne morta dalle braccia lasciandolo incapace di manipolare le dita. Gran parte degli altri muscoli sono paralizzati come il ginocchio della gamba rimasta e i muscoli delle mani. Non prova sensazioni sul dorso delle mani e muove a malapena le dita. Non ha forza nelle dita che non può quindi usare. Muove la mano sinistra appena.
Inoltre soffre ai reni per non aver mangiato e bevuto per molto tempo. Ci vuole molta dialisi per far riprendere i reni, cosa comune a molti dimostranti di quel giorno.
Maliki non poté più continuare la scuola e non può lavorare. Aiuta la madre ora, pianta delle verdure e dipende dalla madre per la cura della giornata.
Con la somma di due milioni e mezzo di baht di risarcimento si è comprato un motociclo a quattro ruote che gli permette di viaggiare da solo.
Quando gli si chiede se ha ricevuto giustizia, sorride e risponde. “Non riesco a rispondere. Voglio che siano puniti ma non posso farci nulla”.
Non dimenticherà mai quello che successe: “Come si fa? E’ stata la cosa peggiore in vita mia, ed ogni giorno quando mangio, se è troppo grasso ed un po’ va sul cucchiaio non posso tenerlo”.
Dall’incidente è andato vicino alla stazione di polizia una volta per chiedere il risarcimento. Poi non vuole andarci.
Maliki sorride sempre. “Devo sorridere, devo continuare la mia vita e sorridere. Se mi deprimo resterò depresso”.
Thaweeporn Kummetha, Prachati.org