Aung Kyaw Min Tun ha vissuto durante i suoi 24 anni in Birmania, la sua lingua di nascita è il birmano ed i suoi genitori e nonni sono tutti nati qui in Birmania. Ma ufficialmente non è un cittadino del paese che chiama patria, e non sa neanche se lo sarà mai.
Il problema è che è di etnia Tamil induista, una delle etnie che non rientra nella legge complessa fino all’inverosimile della cittadinanza, secondo cui la cittadinanza si basa sull’appartenenza ad una delle 135 “razze nazionali” che sarebbero vissute dentro i confini del paese prima dell’invasione dei britannici bel 1823.
La legge che fu creata nel 1982 dalla dittatura militare, esclude gli altri dalla piena cittadinanza ma permette loro di chiedere livelli inferiori con minori diritti.
La pesante enfasi legata all’etnicità ha spinto i gruppi dei diritti a definirla discriminatoria. E’ stata anche applicata selettivamente e a casaccio, con strati differenti di burocrazia e di corruzione endemica che si aggiungono alla confusione. Negli anni sono stati emessi documenti ad hoc di cittadinanza e residenza.
Il risultato può essere un’attesa di anni per chi non rientra ovviamente nella lista di razze nazionali, come Cinesi Indiani, Nepalesi, molti musulmani e persone con genitori stranieri.
“Il processo della cittadinanza, come tanta della burocrazia birmana, è stato un disastro almeno dal 1962 quando i militari hanno preso il potere.” dice Ronan Lee, consulente politico dell’università di Deakin a Melbourne.
La famiglia di Aung Kyaw Min Tun esemplifica il caos. Suo padre ha una carta di cittadinanza che ottenne prima della approvazione della legge del 1982, mentre suo fratello pagò una somma di circa 300 dollari per la stessa carta agli inizi del 2000. Sua madre e la sorella maggiore hanno solo permessi di residenza, mentre lui e la sorella minore non sono riusciti ad ottenere alcun documento. Anche se tecnicamente possono essere tecnicamente dei “cittadini associati” di seconda classe ha detto di essere stato per anni spedito da un ufficio all’altro senza alcun risultato.
Stima che due terzi della sua comunità di Rangoon si trova di fronte allo stesso problema, per lo più tutti coloro che sono troppo poveri per pagare le grandi somme informali. Senza documenti di cittadinanza non possono viaggiare liberamente nel paese, non possono avere passaporto o comprare proprietà.
“Se qualcuno provasse a cacciarci non avremmo dove andare perché non abbiamo documenti. Fa paura” dice. “Sono nato qui e morirò qui, perciò dovrei avere documenti per provarlo”.
Apolidi birmani
Gran parte dei discorsi sulla cittadinanza in Birmania iniziano e finiscono con i Rohingya, minoranza musulmana apolide di un milione di persone che vivono nello stato Rakhine sulla frontiera occidentale con il Bangladesh.
Loro non rientrano nelle 135 etnie nazionali e la loro incapacità di affermare i loro diritti di cittadinanza significa che sono vulnerabili a governi ostili come anche ad alcuni dei loro vicini buddisti etnici Rakhine, i quali sono indicati nella lista delle etnie ed hanno pieni diritti di cittadinanza.
In contrasto i Rohingya vivono in un sistema simile all’apartheid che restringe la loro capacità di andare in giro per ricercare lavoro o altro, e limita il loro accesso al sistema sanitario e all’istruzione. Negli scoppi di violenza settaria hanno rappresentato la grande maggioranza delle vittime e 120 mila di loro vivono in campi squallidi dopo essere stati cacciati dalle case nel 2012.
Ci sono state grida internazionali di dolore sulla questione Rohingya che non pare destinata a migliorare senza una riforma della legge di cittadinanza. Ma l’apolidicità è un problema ben più grande in Birmania che il governo non ha ancora cominciato a toccare.
“Guardandolo attraverso gli occhi di un Rakhine non si ha il quadro completo.” dice Cecile Fradot, rappresentante anziano dell’UNHRC a Rangoon che affronta il problema della cittadinanza. “Quella è la cosa più visibile ma altri gruppi nel paese si trovano anche sfide per accedere alla documentazione civile”. Poi aggiunge: “Forse il più grande problema di tutti è che non c’è mai stato un censimento completo su mappe dell’apolidicità e ci mancano dati completi e dettagliati.”
Cambiare etnia
La Seagull Foundation, organizzazione dei diritti umani e di costruzione della pace, di recente ha censito 100 minoranze etniche e religiose nella città settentrionale di Mandalay trovando che quasi tutti avevano problemi ad ottenere le carte di registrazione nazionale. Denunciavano attese lunghe e chiaramente arbitrarie, e molti dicevano che era stato detto loro di cambiare etnia o religione per ricadere nelle categorie prescritte per ricevere i documenti.
Gli intervistati denunciavano anche di dover pagare mazzette fino a 400 dollari, mentre i loro figli erano sistematicamente esclusi dai programmi di emissione di carte di registrazione nelle scuole.
Molte persone, particolarmente musulmane, dicono di essere state costrette ad accettare il terzo livello di cittadino naturalizzato per avere i documenti con l’assunzione che non potranno mai, tra le tante restrizioni, adire ad una posizione politica.
Myint Kyaing, segretario permanente del ministero dell’immigrazione, ha detto che il governo provava a combattere tale corruzione conducendo controlli negli uffici dell’immigrazione ed indagando tutte le denunce. Non ha voluto commentare invece sulla legge di cittadinanza.
Ma secondo Harry Myo Lin della Seagull Foundation la riforma fondamentale è necessaria oltre a sforzi più corretti contro la corruzione. “Etnia e religione non devono essere sulle carte di identità. Un sistema di immigrazione deve avere cittadini e non cittadini”.
Se si considerano le rivolte nello stato Rakhine e dovunque, come anche la ripresa di un nazionalismo buddista, non sorprende che i musulmani siano sempre i colpiti di questa corruzione.
Ronan Lee dice che persino i musulmani che erano in regola con la cittadinanza secondo la legge del 1982 hanno trovato problemi ad affermare i loro diritti di cittadinanza. “Le restrizioni di viaggio nello stato Rakhine sembra siano state applicate secondo la religione ed il colore della pelle e non se la gente avesse i documenti corretti.”
Tra le vittime vi è Phwey Phwe New, giovane donna Kaman che è rimasta chiusa dalla violenza del 2012 in uno dei campi di Sittwe. I Kaman musulmani fanno parte delle etnie della legge, eppure soffrono simili attacchi e privazioni subiti dai Rohingya. Prima del 2012, non le era mai venuto in testa che avrebbe avuto bisogno di una carta di cittadinanza. Aveva considerato il proprio status certo e viaggiava liberamente.
Dopo la violenza quando la casa le fu incendiata, si rifugiò in un campo e scoprì di non lo poterlo più lasciare. SI decise a fare i documenti per il quale impiegò più di due anni per la complessità del processo, le mazzette da pagare, e la difficoltà di andare dal campo all’ufficio di immigrazione a Sittwe a causa del numero di mezzi e della distanza.
“Quando andavo all’ufficio allora, mi chiedevano soldi. Una volta 20 mila Kyat, un’altra 30 mila kyat. Se l’ufficiale cambiava si doveva negoziare di nuovo. Ho speso tanti soldi e vivo in un campo di profughi interni. Quindi non è facile muoversi da lì.”
Nonostante avesse ricevuto la sua carta di identità nel 2015, non può ancora lasciare il campo per i profughi interni perché suo marito, anche lui Kaman, è in attesa della sua carta. Mentre prima aveva un negozietto nel centro di Sittwe, ora fa lavoretti di cucito per i suoi vicini per i quali ha un po’ di riso. E attende.
Cosa c’è in un nome?
Per quanto riguarda i Rohingya, il gruppo più colpito dalla legge del 1982, gli sforzi per normalizzare la loro situazione si sono fermati. Non solo a causa dell’animosità da parte dei buddisti nazionalisti ma anche a causa della sfiducia dei Rohingya nel governo e nella loro crescente solidarietà etnica, alimentata da anni di politiche di discriminazione.
Molti in Birmania li considerano immigrati dal Bangladesh, nonostante il fatto che alcuni di loro hanno antenati che vivevano nell’area centinaia di anni fa. Altre famiglie Rohingya sono in quello che ora è lo stato Rakhine da generazioni, dopo essere emigrate nella regione sia prima che dopo che l’impero britannico disegnasse una frontiera arbitraria dopo la conquista di parte di quello che allora nel 1824 era conosciuta come Birmania.
Un programma pilota di verifica della cittadinanza lanciato nel 2014 sotto il governo sostenuto dai militari, perché i Rohingya erano stati costretti ad iscrivere la loro etnia come bengali, implicando che erano immigrati dal Bangladesh.
All’inizio di questo anno, il nuovo governo eletto guidato dal partito NLD di Aung San Suu Kyi ha tentato di evitare la questione permettendo ai Rohingya di iscriversi senza registrare la loro etnia o religione. Anche questa scelta si è vista essere impopolare.
Shom Shul Alom, un uomo Rohingya che vive vicino al campo dei profughi interni spiega che l’etnia è così importante per il tessuto sociale e politico del paese che lui avrebbe rifiutato di accettare un documento di identità che non lo identificasse come Rohingya musulmano.
“Se non metti la SIM nel tuo telefono, non funziona, non puoi contattare nessuno” dice indicando il suo telefonino. “Se si prova a distribuire carte di identità senza mettere la razza o la religione, non funzionerebbe. Non l’accetteremo”.
Julia Wallace, IRIN