Duterte, nell’ammettere gli omicidi extragiudiziali strumento esplicito di politica governativa, ha spostato in modo significativo l’asticella di ciò che può essere considerato accettabile negli affari internazionali.
Ogni giorno nelle Filippine si ritrovano per strada alcuni corpi. Le facce sono spesso coperte di nastri di plastica neri. Talvolta ci sono segni di tortura. Di solito sono stati sparati in testa. Pochi interessano alla polizia, che di solito è sospettata come la responsabile.
Non ci si deve sorprendere che questo accada. Il capo democraticamente eletto del paese, dopo tutto, era stato eletto per aver promesso proprio questo, reprimere quello che lui stesso descrisse come la minaccia della droga nel paese.
Se esiste un capo di stato nel mondo ad esemplificare le tendenze più allarmanti nella politica di questo decennio, quello è il presidente Filippino Duterte. La sua elezione, e le politiche perseguite sin dall’aver preso il potere, rappresentano un rigetto totale di decenni, se non proprio secoli, di quanto conquistato a fatica verso il rispetto dei diritti umani e il governo della legge.
Tali sottigliezze legali, afferma Duterte con chi gli sta intorno, hanno semplicemente dato ai criminali troppo spazio. Un’idea del genere ha trovato la propria strada anche nella campagna di Donald Trump, il presidente americano eletto parlò dopo tutto di diventare davvero cattivo contro lo stato islamico.
Nelle Filippine comunque il costo umano si pensa abbia raggiunto un livello ben superiore ai 5000 morti. Di questi 2000 sono stati uccisi in scontri armati con la polizia e altri 3000 legati ad omicidi extragiudiziali.
“Il numero dei drogati è alquanto elevato ed impressionante” disse Duterte nel suo discorso inaugurale alla Nazione. “Devo massacrare questi idioti per aver distrutto il mio paese”
Il capo di stato filippino è al potere da appena sei mesi. Ha ancora cinque anni e mezzo fino alle prossime elezioni.
Che la sua retorica abbia sostegno tra gli elettori non deve di per sé sorprendere. L’idea della giustizia da vigilanti fa chiaramente ancora presa, se solo lo si vede dal modo in cui resta un tema comune dei film di Hollywood. Da sindaco di Davao per oltre venti anni, il presidente filippino ha esultato in tale immaginario. A lui ci si è speso riferito con nomi cari ai film di Clint Eastwood, Il Punitore o Duterte Harry.
Da sindaco, Duterte fu ripetutamente accusato di coinvolgimento nelle squadre della morte che prendevano di mira criminali e nemici politici. All’inizio di questo anno, comunque, un uomo che affermava di essere stato un membro di quelle squadre della morte accusava il presidente di aver preso parte ad alcuni omicidi e di averne ordinato altri, come anche di aver dato uno in pasto ai coccodrilli del 2007. Nulla è stato mai provato, comunque, ed in questi giorni ha negato un coinvolgimento diretto. Un’indagine ufficiale pubblicata all’inizio di questo anno, e pesantemente criticata, diceva che non erano state prove di squadre della morte o di un diretto diretto di Duterte.
Da quando Duterte è salito alla presidenza a giugno, è stato comunque molto più chiaro, oltre a prendersi responsabilità per quello che alcuni stimano possano esser varie migliaia di morti. Questa settimana ha apertamente minacciato di prendere ad obiettivo militanti dei diritti umani che ha accusato di mettersi di traverso nella epurazione.
Alcune tattiche sembrano essere costate alle Filippine la sua alleanza antica con gli USA, per lo meno sotto Obama. Il capo filippino ha detto di sperare in relazioni migliori con Trump. Duterte ha detto che cercare apertamente alleanze con la Cina e la Russia. Entrambi i paesi si crede che permettano alle Filippine di fare come vuole nelle questioni interne.
Duterte è chiaramente un’anomalia. Per ora comunque il suo approccio gli va relativamente bene nel campo della politica interna. Secondo un sondaggio infatti resta uno dei più fidati leader del Sud estasiatico.
Ma fa parte di una tendenza più vasta che forse sta ora accelerando. Ci sono sempre stati capi che hanno fatto virtù di “fare quello che ci vuole” per restaurare l’ordine e di essere relativamente contenti per avere la fama per tattiche relativamente brutali, anche se pubblicamente le negano.
Il presidente ruandese Paul Kagame, per esempio, ha sempre detto che il suo paese ha bisogno di assumere talvolta una linea dura verso chi destabilizza il paese se si vuole evitare il ripetersi del genocidio del 1994.
I capi dell’allora Sri Lanka usarono talvolta misure brutali per porre fine alla guerra civile con i Tamil nel 2009. Dopo il caos degli anni 90 Vladimir Putin si è fatto brutalmente una reputazione di duro particolarmente nella lunga insorgenza nella Cecenia, dove le forze di Mosca sono state sempre accusate di uso illimitato della forza e di diffusi abusi di diritti.
Molti di questi capi hanno cercato sempre di negare la la diretta responsabilità, o almeno hanno cercato di mantenere un grado di negazione, quando si giunge ad atti inammissibili di omicidi extragiudiziali.
Duterte, nell’ammettere gli omicidi extragiudiziali strumento esplicito di politica governativa, ha spostato in modo significativo l’asticella di ciò che può essere considerato accettabile negli affari internazionali.
Dove è stato criticato, è stato diretto nella sua risposta minacciando persino di lasciar l’ONU ed unirsi ad un nuovo gruppo, forse sostenuto dai russi o cinesi, che includerebbe anche governi africani pronti a respingere alcune richieste dei diritti umani internazionali.
All’inizio dell’anno Sudafrica e Burundi annunciarono che avrebbero abbandonato la Corte Internazionale di Giustizia, istituita per rispondere ai genocidi degli anni 90, ma che i critici dicono essere state selettiva nei conflitti in cui decide di indagare.
Queste tendenza, almeno in parte, sono evidenti in occidente. Trump ha parlato apertamente di alcune forme di tortura e di prendere di mira alcune famiglie di militanti durante la propria campagna elettorale, sebbene rimanga incerto se porterà avanti queste politiche nel suo mandato. I partiti politici e giornali della estrema destra europea hanno chiesto periodicamente di un approccio duro verso l’emigrazione suggerendo anche che questo potrebbe dire l’uso delle armi da fuoco per mantenere le frontiere potenzialmente insicure.
Quello che ciò rappresenta è la distruzione di un sistema di regole, e in molti casi del concetto essenziale di diritti umani fondamentali, iscritto nella carta delle Nazioni Unite firmata dalle nazioni più progredite dopo la II guerra mondiale.
Quell’impegno è stato sempre imperfetto e frequentemente imposto in modo ipocrita. Eppure è stato raramente respinto come lo è ora dalle Filippine.
L’anno prossimo potrebbe vedere le forze del presidente Assad riaffermare il controllo della Siria e lo sgretolarsi di un’altra politica sostenuta dagli USA di sostegno di militanti inefficaci dell’opposizione. Gli USA e l’Europa vedranno una reazione politica considerevole contro quello che è stato visto come diritto relativamente fondamentale, specialmente quando si parla di asilo e libertà di movimento.
Nessuno di tutto ciò è inutilmente irragionevole. Quello che le Filippine ci ricordano è quanto possa essere breve il passo per distruggere davvero alcune delle regole più fondamentali che erano state ritenute fondanti di una società civile. Peggio ancora potrebbe essere persino popolare.
Peter Apps, Reuters