Michaelis Vatikiotis: Dopo il fattore dell’istituzionalizzazione, il secondo fattore che porto in discussione è l’estremo egoismo delle elite. A loro davvero non gliene frega nulla. Se si prende in considerazione la questione della corruzione, perché dovrebbero affrontare la corruzione quando, nei casi delle elite cambogiane, Thai, Malesi o Indonesiane significa che si è come tutti, che si deve smantellare il sistema che ingrandisce il loto status e da loro una posizione di privilegio.
Perché dovrebbero smantellare il sistema da cui beneficiano direttamente? Lo fai andare avanti, perché mantiene le proprie famiglie in una posizione molto miglire di chiunque altro. Va avanti da decenni e questo ha voluto dire che qualunque cosa accade all’economia c’è un consistente e molto chiaro aumento delle ineguaglianze. Persino con la classe media ora, è molto più distante in termini di entrate economiche dai membri della elite in molti di questi paesi.
La quota dell’elite di denaro accumulato perpetua la loro posizione. Possono comprare qualunque processo politico che si sia in una semidemocrazia che in un contesto più democratico. Semplicemente comprano tutto quello che serve alla scalata per il potere.
Bridget Welsh: Credo che tu sottolinei molto i politici individuali all’interno del sistema. Le relazioni politico economiche sono cambiate negli anni, foggiate da decenni di legami affari politica. La struttura è altrettanto importante quanto le persone.
MV: Abbiamo delle varianti. In Indonesia abbiamo una società molto più orizzontale a causa della geografia. Abbiamo più città che in altre parti della regione e di fatto spezzetta le cose un po’.
BW: Certo ma l’Indonesia è anche molto gerarchica. Ad un livello fondamentale hanno pochi incentivi ad intraprendere riforme economiche fondamentali e riforme politiche. Non si deve sottostimare il ruolo che le elite economiche specialmente giocano. Quando guardiamo a posti come la Malesia e al suo percorso, le elite degli affari e dei banchieri hanno giocato un loro ruolo. Questo vale anche al di là delle frontiere. Gli uomini di affari preferiscono lavorare con qualcuno che possono corrompere e con cui fare affari. Najib come ministro delle finanze era colui che più di tutti concludeva accordi. Triste è che la gran parte dei malesi sono stati dalla parte perdente di questi accordi.
MV: Questo ci porta alla terza ragione del deficit democratico della regione: una completa mancanza di contrappesi sufficienti dal governo della legge verso il potere politico o delle corporazioni. Ho visto questa situazione abbastanza da vicino in Malesia, in Thailandia meno in Indonesia.
Ci sono grandissimi problemi con un sistema giudiziario che funzioni. Lo si vede in Thailandia in particolare dove vi è stata una politicizzazione aggressiva della magistratura. C’è il senso mal riposto che la magistratura debba essere controllata politicamente piuttosto che porre una pressione morale sui politici corrotti.
In un caso in Malesia la magistratura era una delle strutture più forti ereditate con la fine del sistema coloniale britannico. E’ impressionante guardare ad alcune decisioni dell’alta corte del passato, nei primi anni dopo l’indipendenza, casi che facevano riferimento all’alta corte del Regno Unito prima che Mahatir interrompesse questa pratica.
L’insufficienza delle leggi per fornire sistemi di controllo e bilancio, rispetto a quello che abbiamo discusso prima, in termini di istituzioni deboli e potere delle elite è un fattore molto importante nel determinare il deficit democratico.
BW: Non so se questo sia anche un riflesso della opinione pubblica. Si ritrova in molte indagini che tanti nel sudestasiatico non sostengono il sistema di controllo e di contrappesi, come un sistema giudiziario degno di questo nome. Lo si scopre dal Asian Barometer Survey. Gli abitanti di questa regione non concettualizzano una responsabilità orizzontale con controlli e contrappesi, sia per l’eredità del governo dell’uomo forte e la natura personalizzata e gerarchica della politica, di cui abbiamo parlato prima.
Il problema va al di là del sistema giudiziario. E’ la mancanza di altre istituzioni efficaci di responsabilità orizzontale come commissioni elettorali efficienti e agenzie contro la corruzione. In gran parte della regione queste agenzie dello stato non hanno potere reale. Ci sono pochi controlli importanti dentro il sistema. Le leggi che regolano queste agenzie sono spesso manipolate in modo da favorire chi sta al potere. E’ un circolo vizioso, la mancanza di controlli operativi contribuisce alla mancanza di sostegno di queste istituzioni ed incoraggia un’ulteriore manipolazione di queste istituzioni a fini politici.
MV: Si deve prendere in considerazione l’altro aspetto che sono le risposte da parte della gente comune che è molto meno chiaro. Un altro grande problema è l’impunità. La mancanza di risoluzione dei problemi non significa che la gente non soffra e non voglia che siano affrontati. In tutto questo periodo, ci sono stati esempi belli in cui la società civile ha creato pressione e impedito in alcuni casi alcuni degli abusi di potere più perniciosi.
Non è un quadro totalmente in bianco e nero. In alcuni casi la società civile ha fatto progressi notevoli, forse non sufficienti, ostacolati dalla presa dura sul sistema da parte di una elite egoista.
Spesso si graffia solo la superficie del problema. E’ comunque importante riconoscere le aspirazioni della gente e di chi è stato in prima linea nella lotta per il cambiamento democratico.
In più di trentanni di vita nella regione, ho incontrato tante persone davvero di ispirazione che lavorano in piccole ONG, in piccoli uffici legali o nei partiti di opposizione. Davvero loro si battono al meglio. Non è sempre una lotta violenta benché a volte lo sia. Osserviamo la regione spesso colpita da violenza inutile, violenza politica. E’ spesso una lotta per il cambiamento, giornaliera, talvolta solitaria.
BW: Credo che tu abbia giustamente dato peso all’eroismo della gente ordinaria. Comunque anche qui, guardando alla società, osserviamo due tendenze preoccupanti. La prima tendenza è l’approfondimento della polarizzazione politica, le magliette rosse e gialle. Tu hai citato le magliette gialle negli anni 80 filippini. Ora si hanno scontri aperti in Thailandia e Malesia, grandi scontri in Cambogia e Singapore con differenti prospettive mostrate dalle indagini statistiche, e divisioni in Indonesia, Birmania e Filippine come risultato dalle recenti elezioni. Persino in Birmania dove si parla della vittoria a man bassa di Aung San Suu Kyi, lei ha conquistato solo il 57% del voto popolare. Prawobo aveva quasi vinto in Indonesia. Duterte ha avuto solo il 38% del voto.
Chiaramente abbiamo società profondamente polarizzate politicamente. I governi spesso usano questa polarizzazione a proprio vantaggio, sia come nel caso thailandese come scusa di un intervento o per perpetuare questa polarizzazionein luoghi come la Malesia.
Le divisioni sono usate per giustificare il governo autoritario e perpetuare il loro potere in nome della stabilità. Grandi parti delle aspirazioni politiche delle società del sudestasiatico sono state trascurate politicamente mentre lo erano anche economicamente.
MV: Credo che questa polarizzazione ci sia sempre stata. Ora di certo, come dici tu, c’è una maggiore capacità di mobilitare e sfruttare questa polarizzazione. Una cosa che mi interessa della polarizzazione sono i canali limitati per affrontare le differenze e i problemi.
Sono colpito dal costante restringimento di opportunità per le ideologie differenti, per un’ideologia di qualche tipo di socialismo che ravvivi il desiderio ella gente di chiedere un cambiamento in un contesto politico. Il collasso del comunismo e la fine della guerra fredda li si possono percepire ancora nel sudestasiatico. Persiste ancora la grande paura della sinistra. Quello che succede è che la gente incanala tanta polarizzazione in sentimenti razziali o religiosi. La realtà è che la gente soffre e si dispera sotto il peso dell’uguaglianza. Desiderano un qualche tipo di ispirazione, un’ideologia che li motivi e dia spazio pr una protesta. Se lo è di fatto escluso poiché i lcomunismo è ancora messo al bando in Indonesia e mal visto in Filippine e Thailandia. Il capo delle magliette rosse in Thailandia è un ex comunista che provò a creare un partito che aspiri a rappresentare la massa delle persone. E’ molto difficile allora incanalare quella polarizzazione in qualcosa meno violento e più costruttivo.
BW: Sappiamo che in termini di ricerca, gran parte degli abitanti della regione concettualizzano la democrazia in termini di uguaglianza messa a paragone in modo sproporzionato rispetto alle altre parti del mondo. Sappiamo che non ci sono dibattiti sostanziali di politica aperti negli ambienti politici di gran parte della regione. Ci sono certo alcune aree ed alcune sacche che non vogliamo lasciar perdere, ma ci sono vuoti reali di discussione nel senso di discussione significativa sulle politiche di sviluppo o di allocazione di fondi.
Specialmente negli ultimi cinque anni, tante politiche governative erano dei frutti facili da cogliere, soldi gettati via per nascondere i problemi. Un’area che è stata discussa particolarmente è stata quella delle infrastrutture, sviluppo pesante, un’area che ha creato pochi lavori per i giovani della regione e che ha rafforzato la corruzione. I governi regionali non trattano bene con le fide sottostanti che questi paesi incontrano in termini di miglioramento delle loro economie e trasformare le società verso il futuro specie per i giovani. La promessa di maggiore mobilità sociale non si realizza.
Una seconda preoccupazione nelle società coinvolge le violazioni degli altri da membri della società stessa. I governi non intervengono sulle violazioni significative dei diritti umani che vengono fatte da agenti non statali, sia in nome della religione, di droga o egoismo.
MV: E’ vero. C’è qualcos’altro da citare. Nel periodo iniziale dell’indipendenza nel sudestasiatico molti di questi paesi erano considerati delle democrazie, il periodo dell’indipendenza indonesiana pre 1965, pre 1962 in Birmania, e persino il 1954 in Cambogia. Queste democrazie in formazione erano guidate da un gruppo di persone che erano piene di nozioni di democrazia venute dall’esterno. Erano state educate fuori dalla regione. Se si guardano i primi capi indonesiani, erano dei socialisti fabiani. Portarono questi valori nella creazione della repubblica. Tutto quello sparì negli anni 80.
Una delle cose che trovo molto interessante su ciò che porta a questo deficit democratico è l’emergenza di una generazione di capi che di fatto non condividevano valori democratici allo stesso modo. emocratici. Semplicemente non li condividevano. Mahatir non è mai andato in occidente per la propria istruzione. Lee Kwan Yeu è un altro esempio. L’intero dibattito sui valori asiatici degli anni 90 fu generato attorno a tanto risentimento e frustrazione da parte di una generazione che succedette ai padri fondatori. I poteri coloniali che se ne andavano lasciarono ai capi fondatori il compito di istituire la democrazia, perché erano imbevuti degli stessi valori. Negli anni 80 era tutto sparito. Si ebbe una generazione invece che era imbevuta di nozioni tradizionali di potere e della politica.
BW: Continuo a credere che tu ponga troppa importanza sui capi e i loro valori. Per me si tratta della ricchezza che accumulavano e della sinergia tra potere economico e politico. Molti di questi capi erano alleati con gli affari e le altre elite, e volevano sfidare chi li sfidava. Non volevano proprio condividere un potere.
MV: Le generazioni successive che emersero al potere non erano imbevuti di questi valori democratici. Ecco perché era difficile accettare cambiamenti e riforme.
Ora veniamo alla questione dei diritti umani. Secondo me gli abitanti della regione hanno davvero un buon senso della sopravvivenza, della famiglia e della terra. La cosa più importante era la sicurezza per sé e le loro famiglie.
Queste cose molto spesso sono rese prioritarie contro cose più universali che si pensa più importanti per la gente. Se si guarda alle vittime del 1965 indonesiano, forse non vogliono tanto giustizia quanto il risarcimento.
BW: Non dovrebbe esserci uno scambio, ma averli entrambi.
MV: Dovrebbero averli entrambi, ma credo che, alla fine, quello che la gente accetta è la cosa materiale, non l’altra. Ci aiuta a comprendere la questione dei diritti umani che non sono consacrati o portati avanti in modo giusto. Si ha anche una società che è, sfortunatamente, meno interessata di quanto ci si attende a spingere per questi temi.
BW: Chi difende i diritti umani nella regione è chiaramente una minoranza nella regione, ma non è così semplice come dici. La maggioranza della gente vuole governi migliori, più equi e morali. Molto più del materiale che dici. Le ricerche del Asian Barometer Survey danno dei suggerimenti. Non esiste per esempio una maggioranza di pubblica opinione che sostenga un governo laico in un singolo paese della regione, Singapore inclusa.
MV: Infatti la crescita della comunità cristiana a Singapore è uno dei fenomeni meno studiati nella regione.
BW: penso anche alla nascita di un nazionalismo religioso che è intollerante e antidemocratico. Non è l’estremismo che associamo al terrorismo, ma un’intolleranza che consuma il tessuto sociale. Ci sono chiaramente forze di contrasto, ma la retorica autoritaria e sistemi educativi chiusi di molti governi rafforzano questa mancanza di sfumature, di empatia e comprensione.
Manca l’educazione civica mentre molti governi spesso lavorano contro il pensiero critico e rivolto alla soluzione dei problemi nei loro sistemi educativi. Molte delle forze che attaccano la democrazia vengono dal basso, formate dal contesto istituzionale e di guida politica in cui operano.
MV: Si è raggiunto un punto in cui, nel secondo decennio del XXI secolo, dobbiamo tutti chiederci se vedremo un progresso incrementale. Si può assumere che questi contrattempi lungo la via della democrazia, che abbiamo descritto, continueranno ad essere contrattempi e queste società alla fine raggiungeranno l’obiettivo di diventare paesi più democratici? Ne dubito francamente. Vedo continui cicli di sollevazioni. E’ possibile, per esempio in Indonesia, che quanto visto nelle ultime due settimane, la capacità di estremisti a fare pressione su un presidente eletto potrebbe più che minare la sua legittimazione quanto il suo potere. Saranno sfruttati i limiti della presidenza. Pensano semplicemente tutti ai loro interessi, cosa che potrebbe aprire un ciclo di instabilità.
La Cambogia in modo simile si trova di fronte a nuove elezioni, le elezioni locali ora e quelle generali l’altro anno. E’ chiaro che una generazione giovane di elettori, sempre più maggioranza, vuole il cambiamento. E’ anche chiaro che il partito al potere ed Hun Sen non sono preparati a dare loro quel cambiamento. Vuole che suo figlio subentri come primo ministro quando deciderà di ritirarsi. Vuole ritirarsi non secondo le elezioni.
In Thailandia abbiamo ora i militari ora intrecciati nel potere. Non cederanno il loro potere in tempi ravvicinati. Potrebbero esserci elezioni nel 2018. In Birmania come dici bene tu, la democrazia è fragile.
BW: La democrazia è senza dubbio ferma ma permettermi di dare un’opinione alternativa. Tu forse dubiti del futuro, ma io spero. Credo che neanche questi capi autoritari, i Najib, gli Hun Sen ed altri stiano realizzando le aspetttative. Ci sono seri deficit di buon governo nelle società della regione, specialmente in quelle guidate dagli autocrati. Ecco perché abbiamo visto la recessione democratica nella regione. Combattono per tenersi a galla.
Oggi abbiamo una grande presa: un’economia in contrazione. Abbiamo condizioni economiche globali e regionali molto differenti. Non si è in crescita come negli anni 90 e persino negli 80. Il pendolo democratico può ritornare al suo meglio e sono fiduciosa che lo si avrà. Sono tanti abitanti del sudestasiatico pronti a cogliere il cambiamento con poli sull’altro campo pronti e in attesa di qualcosa per muoversi nella loro direzione.
MV: Ne dubito. Avevamo le stesse condizioni alla fine degli anni 90, e non c’era alcun segno del tempo che c’era un Duterte all’orizzonte o che i militari avrebbero fatto ritorno al potere in Thailandia. Non si possono usare quel tipo di analisi perché le economie si contraggono e crescono di nuovo. I capi non nascono e muoiono su quella base. Non abbiamo visto prove di autocrati che perdono il potere. E’ anzi proprio l’opposto. Si guardi a Duterte, che ha deciso di partecipare alle elezioni solo poche settimane prima. E’ molto popolare, nonostante la morte di migliaia di persone senza un processo. Semplicemente non possiamo predire cosa accadrà di nuovo.
BW: Autocrati populisti sono una possibilità reale nelle democrazie. Accade in tutto il mondo, specialmente nelle democrazie. L’elezione di Trump è un caso appropriato. Il sudestasiatico è differente, perché il ruolo dominante sono più i governi autoritari che non la democrazia. I regimi autoritari più che le democrazie sono gli obiettivi. I fallimenti di roforme economiche sono importanti ed ora più di prima questa mancanza di riforma economica e politica colpisce il sistema. Non siamo negli anni 90. C’è maggiore informazione e riserve per abbracciare il cambiamento. C’è una pressione senza precedenti sugli autocrati in termini di abilità a dare risultati e di serie mancanze. I capi mancano dello stesso livello di legittimazione dei capi precedenti con società più impazienti, diverse e che chiedono molto. Questo apre la possibilità della speranza.
MV: Si apre la porta alla possibilità, ma altre persone come Duterte seguiranno.
BW: Forse sì, forse no.