non ti ho conosciuto di persona, ma ricordo la prima volta che ti ho visto. Alcuni mesi dopo il golpe del 2014, tu ed i tuoi amici interrompeste il discorso del primo ministro Prayuth Chanochoa a Khon Kaen, prendendo di sorpresa la sua sicurezza e facendo il saluto delle tre dita. La foto girò tutto il mondo ed è il simbolo dei nostri tempi: un generale imbarazzato che guarda dall’alto del suo palco, mentre le sue guardie incredule circondano gli studenti, appena nervosi ma decisi nel loro atto di ribellione.
E’ diventato anche un atto che ti ha segnato, Jatupat Boonpattararaksa, qualcosa di un nemico dello stato, o per lo meno un fastidio supremo, da inseguire e perseguitare, da mettere alla forca nella pubblica piazza a mo’ di avvertimento.
La tua temerarietà è definita come criminale. La tua famiglia presto sarà in allerta per recarsi spesso alla stazione di polizia, in aule di tribunale e nel carcere, entrando con tante speranze ed uscendone in lacrime. Perché lo stato ti sorveglierà in ogni passo che fai, in ogni protesta che lanci, in ogni sorriso vero. No, verranno a cercarti.
E così sei in carcere ora, la libertà provvisoria negata ripetutamente, il carcere esteso per altri dodici giorni, tutto a causa del reato di lesa maestà di condividere un articolo online condiviso, pare, anche da altre duemila persone.
Sembra che la tua testa sia più bella se posta su un piatto d’argento. Probabilmente dovrai fare i tuoi esami di università in carcere… il soggetto è l’informatica, ironia del caso, il semplice fare click sul pulsante “condividi” che ti ha portato in carcere. Avresti superato l’esame con il massimo dei voti. Sei uno studente di legge. Significa che hai fiducia nella legge, in chi la pratica, nelle sue implicazioni sociali. Ma ultimamente qualcuno si domanda se la sola fiducia sia abbastanza. Nel soffrire, nell’oscurità, nel buio di gennaio dove lo stato ha deciso che è meglio tenerti dietro le sbarre.
Il tribunale dice che non sei riuscito a cancellare il post incitando ulteriormente la gente (con cosa?). Ascoltiamo i giudici e l’accusa. Contempliamo il mistero che una sola persona sia stata scelta dalle poche migliaia che hanno condiviso il post. Protestiamo in silenzio, ma non così in silenzio perché quattromila persone hanno firmato una petizione per il tuo rilascio. L’Ufficio dell’Alto Commissariato dell’ONU per i Diritti Umani ha anche invitato il tribunale a darti la libertà provvisoria. Ma naturalmente l’ONU non è nostro padre. Infatti tutto quello che conta è chi è tuo padre: se tuo padre fosse un miliardario non solo avresti la libertà condizionata, non saresti in primo luogo andato in carcere anche se avessi commesso un grave delitto, come abbattere un poliziotto con la tua Ferrari.
In un luogo dove l’omicidio è perdonabile ma un post di Facebook non lo è, dove gli assassini hanno la libertà condizionata e chi protesta no, la questione non è più una di legalità o del sistema giudiziario. La questione è di umanità. Possiamo ancora aver fiducia almeno in essa?
Quello che mi colpisce di te è di come sia naturale il tuo atto di sfida, a ricordarci che è qualcosa che tutti dovremmo fare, indipendentemente dalla natura del governo. Non è una questione di coraggio, benché sia importante, ma di come ci si pensa cittadino responsabile in una società aperta.
Solo gli stolti credono che tu sia un novellino del malcontento pagato da chi ha come lavoro dare fastidio al governo militare, incuranti delle tue proteste negli anni degli Shinawatra.
I ribelli senza una ragione sono mitici. I ribelli con una ragione, come te, sono una specie estinta, rara, un tipo avventuroso estirpato dal DNA della società negli anni della ricchezza e della sottomissione conformista.
Quello che mi colpisce ancora di più è il livello di apatia che la società ha accordato al tuo caso. Le notizie sul tuo arresto e le ripetute negazioni della libertà provvisoria appaiono come un lampo di estrema brevità sullo schermo televisivo, come se fosse qualcosa troppo imbarazzante da esaminare con più tempo, come una nota a piè pagina di poco significato nel nostro tempo della riconciliazione. Non c’è stato alcuna rabbia e non troppa simpatia, Si pensi solo a quanto oltraggioso sarebbe stato se fosse accaduto durante l’amministrazione di Yingluck Shinawatra.
Credo che un bel po’ di persone pensino che te la sei meritata. Il decennio dei movimenti studenteschi è qualcosa che la gran parte di noi ha solo letto, una storia di avventura degli anni 70, qualcosa da non ripetere di nuovo nella vita reale perché interrompe la pace, l’economia e l’armonia, eccezion fatta per la protesta “differente” di tre anni fa per le strade di Bangkok.
Resta lì, caro Pai Dao Din, mentre lavoriamo, mangiamo, leggiamo e facciamo finta che tutto vada bene. Non credo negli eroi ma credo nella grazia. Quella ti salverà e alla fine speriamo anche noi.
Kong Rithdee, Bangkokpost