Il 17 di aprile tutto questo doveva trovare la sua fine.
In quel giorno è entrato in vigore un divieto sulla vendita di strada in alcune delle destinazioni culinarie più famose della città, perseguito dal governatore della città Aswin Kwanmuang e dall’uomo che lo ha posto al comando, generale Prayuth Chanochoa, il quale prese il controllo del paese dopo aver lanciato il golpe di maggio 2014.
A marzo la polizia cittadina consegnò gli avvisi di lasciare libero i marciapiedi con l’obiettivo dichiarato di ripulire la città e impedire ogni ostacolo ai pedoni.
Il divieto ha trovato le proteste popolari. Chi ha criticato il divieto ha detto che si sacrifica la vita di migliaia di ambulanti e la sopravvivenza di tantissimi poveri delle città in una città che si fa sempre più costosa, sull’altare dei sogni della classe media di pulizia e rispettabilità.
Persino i thailandesi che favoriscono una Bangkok più patinata hanno denunciato l’assurdità di applicare questa politica appena un mese dopo che la CNN dichiarò la cucina di strada della capitale thailandese una delle migliori al mondo condannando i prevedibili effetti nefasti sul turismo, la sola industria che ha tenuto a galla l’economia Thailandese dal golpe.
Queste sono obiezioni essenziali e Bangkok ne soffre molto nel perdere una delle sue caratteristiche più distintive.
Eppure l’attacco contro gli ambulanti di Bangkok lancia un segnale su qualche cosa di più vasto e sinistro del semplice anteporre l’estetica alle preoccupazioni culinarie, economiche e sociali. Si tratta di imporre un ordine autoritario su Bangkok e schiacciare chiunque osi sfidarlo.
In altri paesi asiatici, come Singapore o il Giappone, il vendere per strada è governato da un sistema formalizzato di licenze, orari e indagini. Nella capitale Thailandese è guidata dall’ingenuità degli ambulanti, dal costante apparire e scomparire, ed un uso flessibile dello spazio: una stazione di carburante può diventare un bar mobile la sera tardi, un posteggio privato di banca può essere coperto da gazebo portatili per essere trasformato in un ristorante che serve prelibatezze dell’Isaan. Questo sfoggio di creatività, di sprezzo delle regole di pianificazione e sfida ai confini certi fa infuriare il regime militare thailandese.
James C. Scott ha detto che gli stati sono “sempre apparsi come i nemici della gente che si sposta”. Per i regimi autoritari questa guerra contro i girovaghi diventa un’ossessione. Il colonialismo britannico era tormentato dai nomadi ribelli e la controparte francese dalle stradine contorte delle Kasbah arabe e dalle impenetrabili donne velate. La Cina di Mao si era fissata sugli erranti monaci tibetani, e l’autoritarismo contemporaneo cinese con gli immigrati clandestini e i loro movimenti incontrollati. Quello che univa tutti i loro nemici era la sfida ai confini fisici e mentali, un’attitudine che è stata la fonte perenne di frustrazione per i governi autoritari.
Questi regimi, sebbene con differente veemenza, hanno sviluppato tutti i loro mezzi disponibili per registrare, organizzare e bloccare i sudditi ribelli. Talvolta innalzano mura nel deserto, altre volte costruiscono nuove città e sostano con la forza le persone. Nei casi estremi, creano campi per contenerli e sterminarli.
Mentre il divieto del governo thailandese sugli ambulanti di Bangkok potrebbe apparire meno violento, il risultato è lo stesso: un attacco al modo di vivere che non si adatta alla rigida griglia della mentalità militare.
Sin dal suo arrivo al potere, il dittatore thai ha seguito le orme dei sui egregi predecessori.
Per prima cosa, ha attaccato gli immigrati clandestini rifiutando di dare un porto sicuro ai gruppi musulmani che scappavano le persecuzioni etniche nella vicina Birmania, deportando i lavoratori cambogiani, nove dei quali sarebbero rimasti uccisi, ed imponendo più ferrei controlli sui visti di lavoro.
Poi ha diretto la sua attenzione ad dibattito pubblico aperto, in relazione al territorio pesantemente custodito della monarchia con la tanto usata legge di lesa maestà.
Prima del golpe del 2014 solo cinque persone erano in carcere per questo reato ed altri cinque erano in attesa. Sin dall’instaurarsi del comando personale di Prayuth, sono state accusate 68 persone.
Ora questa guerra contro le persone che sfidano i confini si è spostata sui girovaghi di Bangkok: i suoi ambulanti.
Le promesse di dare un ordine agli ambulanti di Bangkok non sono nuove. Sono quasi un rituale dell’incoronazione dei governatori che cercano di accontentare la classe media della città.
Comunque sono messe da parte una volta che cittadini, gruppi di interesse e gente del posto viene a bussare alla loro porta. Tuttavia, senza il bisogno di vincere il voto popolare, il regime ha sfoggiato una violenza senza precedenti e il disprezzo per le pratiche di ascolto, negoziazione o per gli effetti delle loro politiche sui cittadini di Bangkok.
Sotto il governo militare non esistono momenti di negoziato o di resistenza ed una qualunque organizzazione contro gli ordini della giunta può andare incontro a lunghi periodi di carcere per accusa di sedizione oppure ad omicidi di strada sospetti, come lo ha già appreso sulla propria pelle la gente che pone in dubbio i confini del loro controllo.
I nomadi, come scrisse una volta lo scrittore di viaggi Bruce Chatwin, vedono le frontiere come una forma di insanità. Per i soldati sono la ragion d’essere, qualcosa a cui sono abituati a custodire con la forza bruta. Chi non le osserva ridicolizza l’ossessione militare per l’ordine, la disciplina e la categorizzazione, mettendo in luce la risibile pretesa del controllo assoluto.
Come Dorothy del Mago di Oz, gli ambulanti che si muovono fluidamente attraverso le frontiere materiali e mentali mettono in mostra la frivolezza e fragilità dell’autoritarismo.
Tra pasti squisiti, ci ricordano che l’ordine è sempre stato aperto alle sfide e che i grandi piaceri risiedono nelle sue incrinature, una lezione che fa paura ai regimi autoritari più di ogni altra cosa e che Prayuth è ora determinato a far tacere.
CLAUDIO SOPRANZETTI, New Mandala