Sin dalla sua ascesa alla presidenza, il presidente Duterte ha cercato con tutte le sue forze di dare un segnale che la subordinazione antica di Manila verso Washington è finita.
Appena prima della sua inaugurazione, il presidente dalla lingua tagliente promise che non sarebbe dipeso dagli USA. Quando Obama attaccò la sua storia di diritti umani, il capo filippino disse agli americani di andare al diavolo, minacciando di abrogare il trattato di difesa USA Filippine del 1951. In varie occasioni Duterte ha ingiuriato vari personaggi americani, Obama compreso.
Anche mentre bisticciato con gli USA, Duterte ha lavorato alla normalizzazione delle relazioni con la Cina, ridotte al lumicino con il suo predecessore Aquino. Ha perseguito la cooperazione di difesa con la Russia esaltando Putin come il suo eroe favorito.
Nella visita a Pechino di alto profilo dell’ottobre scorso, Duterte che ha affermato una dubbia discendenza cinese, annunciava la sua separazione dagli USA mentre dichiarava l’intenzione di entrare “nella linea ideologica” di Pechino formando un’alleanza con Cina e Russia contro il mondo.
Infatti Duterte ha fatto una serie di concessioni significative per migliorare le relazioni con la Cina. Ha ridotto le esercitazioni congiunte con gli USA, vietato alle navi USA di usare le basi filippine per le Operazioni di Libertà di Navigazione nel Mare Cinese Meridionale, ed ha minimizzato la vittoria filippina all’arbitrato sul Mare Cinese Meridionale contro la Cina non portandolo a livello internazionale.
Un tale comportamento e tale retorica sembrerebbero suggerire una riconfigurazione radicale del pensiero strategico filippino. Duterte è spesso percepito dall’esterno come un uomo forte carismatico alla stregua di Putin o di Erdogan, un mezzo dittatore abbastanza potente da trasformare le relazioni del suo paese con l’occidente. Allo stesso tempo, però, le affermazioni pubbliche sulla politica estera sono state imprevedibili.
Nonostante il voler evitare conflitti in mare, i diplomatici filippini spesso pongoo la questione nelle organizzazioni regionali come l’ASEAN, ed i militari filippini mantengono l’intero spettro della cooperazione di sicurezza con Washington. L’incostante Duterte si aggiunge alla confusione oscillando tra le sue bravate patriottiche per solleticare la sua base nazionale alla retorica accomodante verso la Cina.
Quello che è chiaro ad un’attenta analisi è che Duterte non riesce a dettare in modo unilaterale la direzione della politica estera.
Sebbene fortemente popolare, incontra dura resistenza dal forte potere miliare del paese, una cabala di generali conservatori, diplomatici, uomini di stato e opinionisti che pone grande fiducia nell’alleanza con gli USA e che resta profondamente sospettosa della Cina. Questi vogliono preservare, diversamente da Duterte, le relazioni con Washington e sono preoccupati che un avvicinamento a Pechino potrebbero minare gli interessi territoriali nel caldissimo Mare Cinese Meridionale. Si genera una impasse, un tira e molla tra Duterte e i generali più conservatori, che spiega per lo più la fusione di affermazioni contraddittorie e confuse che escono da Manila.
Un’Asia Post-americana?
Il pensiero di Duterte per la direzione della politica estera filippina si basa sull’idea che le Filippine entrano in un mondo post americano in cui la Cina sarà la forza dominante. Sebbene riconosca l’importanza del Mare Cinese Meridionale, dove Pechino e Manila si scontrano sulle loro affermazioni territoriali in sovrapposizione, egli preferisce non spingere troppo il problema. Secondo lui, le Filippine non hanno né la forza strategica né il requisito sostegno americano per contrastare le ambizioni marittime cinesi. Ha quindi cercato di minimizzare, spesso in modo controverso, le dispute con la Cina
Duterte è stato attento invece ad approfondire le relazioni di commercio e di investimento con la Cina i cui capi hanno cercato di rimpinzare le Filippine con miliardi di dollari in progetti infrastrutturali. Dopo aver visto una volta la Cina, si attende che Duterte ritorni in maggio per il summit di La nuova via della seta, dove parlerà con il premier Xi Jinping sugli investimenti cinesi.
Allo stesso tempo, Duterte rispetta molto i militari che hanno rimosso due presidenti filippini e che sono più vicini a Washington che a Pechino.
Ad un certo momento Duterte confessò la paura che i militari potessero cacciarlo se avesse ignorato del tutto i loro desideri su questioni sensibili. Perciò ha provato a conquistare gli uomini nelle baracche. Nei prinmi giorni da presidente ha fatto visita a 14 campi militari in meno di un mese, ed ha accresciuto i benefici verso i militari, ha aumentato i loro salari, migliorato le loro armi ed ha usato il suo approccio caratteristico personale per avere il loro affetto, abbracciando e baciando i soldati feriti e promettendo cura per le famiglie.
Sembra che la visione di Duterte di un ordine post americano sia solo parzialmente condiviso dall’apparato della sicurezza nazionale. Molti di loro sono stati addestrati nelle accademie militari occidentali, hanno passato decenni di addestramento con soldati americani e si affidano molto all’intelligence USA, al sostegno logistico e alle armi. Il potere della difesa è profondamente preoccupato sulla rete che si diffonde di aeroporti e basi militari nel mare cinese meridionale. Avrebbero preferito rispondere alla presenza militare cinese espandendo la cooperazione militare con gli USA e, se necessario, usare il caso dell’arbitrato internazionale come leva in un approccio diplomatico più duro verso la Cina.
Una casa divisa
Negli ultimi mesi era chiara la tensione interna, quando Duterte si scontrava con gli anziani dela difesa e con i diplomatici per la direzione della politica estera con la Cina.
Un esempio è la discussione pubblica sull’attività recente cinese a Benham Rise, un crinale sottomarino nel Pacifico Occidentale che fa parte della piattaforma continentale Filippina, Parte della sua strategia regionale, Pechino inviò due rappresentanti anziani a Manila a Marzo, per discutere degli investimenti nelle Filippine. In riosposta Duterte ringraziò la Cina quasi in modo sentimentale, per “voler bene alle Filippine ed aiutarla a sopravvivere ai rigori della vita”.
Nel giro di qualche giorno, il ministro della difesa Delfin Lorenzana, ex generale ed ex inviato diplomatico a Washington, suonò pubblicamente la campana di allarme sulle attività sospette della Cina a Benham Rise, accusando apertamente la Cina di condurre ricerche oceanografiche illegali dentro le acque filippine e ponendo il dubbio che le navi stessero cercando luoghi dove porre sottomarini cinesi.
Il fulmine a ciel sereno di Lorenzana provocò una rabbia popolare spingendo importanti magistrati, legislatori diplomatici e media a chiedere a Duterte una posizione forte sulla Cina. Duterte rispondeva che aveva dato il permesso alla Cina di condurre ricerche marittime scientifiche nella zona. L’affermazione fu poi apertamente smentita da Lorenzana e Manalo, il facente funzione ministro degli esteri. Un legislatore di opposizione ha persino lanciato una protesta chiedendo la messa sotto accusa del presidente sulla base che Duterte non aveva difeso la sovranità del paese.
Giorni dopo Duterte subì un simile schiaffo quando dichiarò che “non posso impedire alla Cina” dal costruire strutture sulla Scarborough Shoal, una caratteristica di terra contesa a 100 miglia dalla costa filippina. Le parole di Duterte si trovarono in forte contrasto col commento fatto da Lorenzana a febbraio, quando disse che un’attività di costruzione su quella secca sarebbe “molto molto fastidiosa” ed inaccettabile. Importante personalità misero in guardia il presidente chiedendogli di evitare di fare dichiarazioni che minerebbero le rivendicazioni del paese sulla secca.
Sotto pressione Duterte ha tentato di rafforzare le sue credenziali nazionali. Ha affermato di aver avuto rassicurazioni da Pechino che non ci sarebbero state attività di costruzione sulla secca. Ha promesso di piantare personalmente la bandiera filippina sull’isola di Thitu, un’isola contesa dove vive una grande comunità filippina con il suo sindaco. Ha inoltre indicato ai militari filippini di occupare e fortificare le proprie posizioni nella catena delle isole delle Spratly dove la sovranità è contesa con la Cina. E proprio la scorsa settimana Duterte ha inviato i suoi generali, insieme a Lorenzana, nel Mare Cinese Meridionale per affermare i reclami territoriali filippini lì. Ha anche allocato 35 milioni di dollari per migliorare le strutture civili e militari.
Data la sua precedente retorica sulla Cina, le recenti azioni di Duterte sono state mosse calcolate per aggiustare le sue credenziali patriottiche, piacere ai filippini e mantenere lontana la critica. In parte ha funzionato allentando le paure generali per la sua relazione da vicino con la Cina.
Oggi, dopo dieci mesi di presidenza, le Filippine hanno cominciato a cambiare la propria politica estera, ma non nel modo radicale che suggeriva la retorica del presidente. Il paese invece adotta una strategia di evitare i rischi con la Cina, una miscela dinamica che combina impegno diplomatico e deterrenza militare, Nonostante la sua retorica Duterte sembra aver capito i pericoli di avvicinarsi troppo alla Cina, di cui la gente e la difesa non si fidano. L’uomo forte poi non è così forte come appare.
Richard Javad Heydarian, Foreignaffairs.com