“Picchiarono mio marito di fronte a me ed ai miei sette figli, mentre piangevamo supplicandoli, ma non ci ascoltarono. Continuarono a picchiarlo ed io persi conoscenza. Quando mi riebbi non era più lì” racconta la donna, provando a trattenere le lacrime, mentre ci troviamo nel porticato della casa.
Suo marito Tayoub Ali fu tirato con la forza vicino al cimitero a cento metri dalla casa ed ucciso dalle forze della sicurezza con un colpo al capo. Suo fratello era stato anche lui tirato a forza dalla casa, ma era stato picchiato così forte da non poter neanche camminare e fu ucciso a metà strada. Fatima una donna ventenne vide gli omicidi da casa sua.
“C’erano tantissimi soldati e poliziotti di frontiera. Non riuscivo a distinguerli perché vestivano tutti un impermeabile verde scuro.” dice la ragazza. “Lo trascinavano ma non riusciva a camminare, e lo uccisero proprio lì, di fronte a me. Lo lasciarono lì”.
Il pomeriggio precedente, Ali aveva detto alla famiglia che dovevano lasciare la casa, se non il villaggio, perché prevedeva dei guai. Alle prime ore del 9 ottobre degli insorgenti avevano attaccato tre posti di frontiera tra i quali il quartier generale della forza a Muangdaw, a 4 chilometri da Myo Thu Gyi. Gli attaccanti uccisero 9 poliziotti prima di scappare con armi e munizioni. La vedova racconta che il marito Ali, contadino di 50 anni, ritornò immediatamente alla casa dopo aver saputo dell’attacco per avvisare la famiglia.
Il gruppo insorgente che eseguì l’attacco si chiamava Harakah al-Yaqin, Movimento della Fede, che secondo le ultime notizie, si chiama ora Esercito della Salvezza dei Rohingya dell’Arakan, ARSA.
Stando ad un rapporto di ICG di dicembre, è comandato da un comitato di esuli in Arabia Saudita, mentre sul terreno li guida un uomo di nome Ara Ullah, Rohingya nato in Pakistan e cresciuto in Arabia Saudita, ed una ventina di esuli Rohingya che hanno organizzato ed addestrato giovani nel Rakhine settentrionale, sin dalle ondate di violenze tra i Rohingya e la maggioranza etnica Buddista Rakhine del 2012.
La stragrande maggioranza della popolazione del Nord Rakhine, con le cittadine di Maugdaw, Buthidaung e Rathedaung, sono Rohingya, un gruppo etnico musulmano nella Birmania a maggioranza buddista, oppresso da decenni dai vari governi birmani. Le autorità li considerano Bengalesi, dicendo così che sono immigrati clandestini dal Bangladesh, e li privarono negli anni 80 e 90 di gran parte dei loro della cittadinanza che avevano mantenuto sin dall’indipendenza della Birmania.
I Rohingya sono stati oggetto di restrizioni nella libertà di movimento, nell’accesso all’istruzione avanzata e alla salute, ed hanno vissuto gravi violazioni di diritti umani, molto documentate negli anni da tante ONG internazionali.
La loro situazione peggiorò drasticamente nel 2012, solo dopo un anno dall’inizio del processo di transizione, denominato dai militari “democrazia che fiorisce nella disciplina”. Le violenze del giugno e di ottobre di quell’anno lasciarono almeno 200 morti, Rohingya in maggioranza, e oltre 140 mila Rohingya dislocati in campi dove, a cinque anni di distanza, restano ancora confinati.
La democrazia fortemente imperfetta ora vigente in Birmania ha significato ulteriori restrizioni e perdita di diritti per i Rohingya. Nelle elezioni del 2015, fu loro impedito, per la prima volta nella storia, di votare. Le prime elezioni credibili dopo decenni diedero la vittoria esaltante alla nemesi storica dei dittatori militari, Aung San Suu Kyi e NLD.
I Rohingya sono quasi universalmente rigettati in Birmania, e non hanno trovato difensori nel nuovo governo, i cui passi per la soluzione della situazione nello stato Arakan si sono limitati alla nomina di una commissione di inchiesta guidata dall’ex segretario dell’ONU, Kofi Annan.
In questa situazione di disperazione e di mancanza di speranze che ha preso forma la prima insorgenza Rohingya dopo decenni. Centinaia di uomini armati di coltelli, machete e armi fatte in casa presero parte all’attacco del 9 ottobre, ma è difficile capire fino a che punto l’insorgenza goda di sostegno popolare nello stato Rakhine settentrionale.
A Myo Thu Gyi tutti gli abitanti esprimono più la proprpria preoccupazione per la possibile risposta delle forze di sicurezza che il sostegno all’insorgenza. “Sono guai per noi, ne pagheremo noi le conseguenze” dice un abitante.
Dopo quell’attacco i militari lanciarono una “operazione di pulizia” nello stato settentrionale Rakhine. Sono stati arrestati almeno 600 Rohingya, dei quali sei sono morti in prigione, secondo il governo; vari villaggi sono rasi al suolo e fino a mille Rohingya potrebbero essere stati uccisi, secondo l’ONU. Oltre 70 mila si sono rifugiati in Bangladesh.
La prima cosa che la sicurezza fece, comunque, furono le rappresaglie su Myo Thu Gyi.
Hussein Muhammad, un vecchio Rohingya che non conosce la propria età come la maggioranza di loro, fu svegliato alle 6 di mattina del 10 ottobre da tanti soldati e poliziotti di frontiera che circondarono la casa. Quando uscì fuori dal suo recinto, fatto di due capanne di bambù, due latrine ed un lavabo col l’acqua per lavare le robe della sua famiglia estesa di 16 persone, era stato invaso da uomini armati.
“Ci chiesero se ci fossero terroristi in casa nostra” racconta Muhammad che siede nel suo recinto. “Poi tirarono fuori due miei nipoti e mi dissero che li portavano dai loro superiori. Provai a fermarli e dare loro la lista della mia famiglia per dire che erano miei nipoti, ma ma mi spinsero minacciandomi con le armi”.
I nipoti Ali Muhammed and Ali Ayaz, avevano 20 e 13 anni ciascuno. Furono portati in una piccola foresta, Giardino del Betel, al confine del villaggio e uccisi insieme ad un altro uomo.
“Quattro poliziotti di frontiera li fecero sedere a terra con le mani sotto le gambe” dice Ahmed Mahmood, contadino di vent’anni che si nascondeva in una capanna vicina e che vide gli omicidi. “Uno li uccise mentre gli altri guardavano intorno. Prima li colpì a calci alle spalle e poi un proiettile in testa, uno ad uno. Sparò due volte al più giovane, uno alle spalle ed uno al capo.”
“I miei nipoti non erano dell’insorgenza” afferma Muhammad. “Erano in casa quando ci fu l’attacco contro la polizia di frontiera. Vendevano noci di Betel, lavoravano e provavano a studiare. Non si sono mai cacciati nei guai”.
Fino ad ora, l’area è chiusa ai giornalisti stranieri se non per qualche giro supervisionato dalle autorità, ma ci è stata garantito un permesso per vedere Maungdaw per la prima volta dalle violenze di ottobre 2016.
Secondo molti rapporti, la gente intervistata in questi giri sponsorizzati dalle autorità è stata perseguiti dalle autorità locali dopo aver denunciato le autorità commesse dalle forze di sicurezza, mentre altri potrebbero essere stati uccisi dalla militanza dopo aver negato le atrocità o dopo essere stati accusati di collaborazione col governo.
Noi abbiamo condotto le interviste nel villaggio senza alcun ufficiale presente, ma abbiamo cambiato i nomi a tutti i Rohingya che abbiamo intervistato per proteggerli.
Il villaggio di Myo Thu Gyi ospita un migliaio di cittadini ed è diviso in due sezioni separate per 500 metri da una risaia. Sette uomini furono passati per le armi nel villaggio secondo varie interviste. A queste rappresaglie parteciparono qualche centinaio di soldati e della polizia di frontiera. Ritornarono poco dopo l’assalto per portare via i quattro corpi compresi i nipoti di Muhamad. Parenti e vicini riuscirono a nascondere gli altri tre corpi e dare loro un funerale musulmano appropriato il giorno dopo.
Chris Lewa di Arakan Project, che ha documentato le violazioni di diritti umani nello stato Rakhine da anni, ha confermato quanto scoperto da noi per telefono. Membri della sua organizzazione indagarono sui fatti parlando con testimoni dell’attacco a Myo Thu Gyi.
“Furono solo esecuzioni sommarie casuali” dice Lewa. “Sembra che i due ragazzi furono portati fuori dalla casa solo perché spiavano attraverso il muro del loro recinto. Come fa un ragazzino di 13 anni a partecipare ad un’insorgenza?”
Laura Haigh di Amnesty International ha anche indagato sui fatti e ha intervistato persone fuggite in Bangladesh.
“Quello accaduto in Myo Thu Gyi è un chiaro esempio di come le forze di sicurezza prendano di mira gli abitanti a caso, senza prova o risaputi legami con l’insorgenza.” dice Haigh in una email.
“In questo caso presero gente ed anche un bambino dalle loro case e le uccisero. In altri posti polizia e militari entrarono nei villaggi ed aprirono il fuoco uccidendo le persone che scappavano per paura. La mancanza di accesso all’area, le intimidazioni e minacce contro quelli che parlavano significa semplicemente che non sappiamo quanti sono stati uccisi in questa tremenda offensiva.”
Le forze di sicurezza comparvero di nuovo nel villaggio cinque settimane dopo. Chiesero a tutte le famiglie di rimuovere le pareti attorno alle loro proprietà, per non dare possibilità di nascondiglio agli insorti. La maggioranza dei muri che c’erano a febbraio sono scomparsi e con loro la privacy degli abitanti.
Agli inizi di febbraio il governo annunciò che le operazioni di liberazione dei militari erano finite, ma tutta l’area a nord di Muangdaw resta vietata agli aiuti e ai giornalisti. Ed aleggia un quasi tangibile senso di angoscia e paura sui villaggi come Myo Thu Gyi che contrasta con le dichiarazioni ufficiali.
“La situazione è stabile ora” dice U Tin Maung Swe, segretario esecutivo di stato, in una stanza oscura nel palazzo del governo a Sittwe. “Ecco perché ora tornano le persone dal Bangladesh. I militari sono tornati nelle baracche e le operazioni le fa solo la polizia di frontiera nella parte settentrionale dello stato Rakhine.”
U Tin Maung Swe nega le accuse di violazioni di diritti umani fatte dalle forze di sicurezza. “Sono solo menzogne e dicerie che la gente ripete. I media hanno espresso queste accuse e molti pensano siano vere. Anche mia moglie credeva a queste dicerie e mi arrabbiai molto, Allora mandai lei a Muangdaw per tre giorni perché vedesse con i propri occhi che andava tutto bene lì”.
A Maungdaw, una polverosa città decadente lungo il fiume Naf, che segna il confine col Bangladesh, vige un’apparente normalità durante il giorno. Gran parte degli abitanti sono Rohingya ma esiste una certa popolazione Rakhine. Le due comunità vivono in quartieri separati spesso attraverso la stessa strada, l’un dall’altra. La città ha un altro aspetto la notte durante il coprifuoco.
In un segno di apertura rara nelle forze di sicurezza del paese, ci è stato permesso di accompagnare una pattuglia di polizia durante il coprifuoco. Stiamo in un camion con dieci poliziotti, dietro un pickup che porta il comandante un altro ufficiale, due traduttori, uno Rakhine ed uno Rohingya, e due poliziotti. Segue un altro pickup.
Il contrasto tra i quartieri Rohingya e Rakhine è stringente specialmente durante le prime ore del coprifuoco. Nei quartieri Rakhine le luci sono accese e si possono vedere le persone guardare la TV con le finestre aperte o a parlare nei loro giardini. Le case Rohingya sono per lo più stranamente deserte: finestre chiuse, oscure e senza alcuna presenza umana visibile.
Non c’è stato alcun attacco dell’insorgenza nel Rakhine settentrionale da metà novembre e sono state arrestate almeno 600 persone, ma la sicurezza prova ancora a capire chi sono i capi.
“Si devono nascondere da qualche parte” dice Kyaw Ay Hlaing, il capitano di polizia, in una fermata in cui i poliziotti si fumano una sigaretta. “Conosciamo le facce ed i nomi, ma per noi sono tutti uguali questi bengalesi. Difficile riconoscerli. Il governo ha offerto loro carte di identità nazionali ma molti si rifiutarono di accettarle. Questo rende molto difficile riconoscerli. Credo le abbiano rifiutate così possono più facilmente partecipare all’insorgenza” dice il capitano che però non dice che esse non sono una prova di cittadinanza e non danno beneficio a chi le riceve.
Un rapporto di Medici Per i Diritti Umani di ottobre denunciò che molti posti di controllo che ostruiscono le strade nel Rakhine settentrionale sono “posti di estorsione ed umiliazione, dove si ricorda ai Rohingya il loro stato di persone ai margini”. Per poter andare da un villaggio all’altro è chiesto loro di pagare cifre esorbitanti.
Sapendo da Kyaw Aye Hlaing della paga dei poliziotti si comincia a capire parte delle motivazioni dietro la corruzione.“Un capitano come me guadagna meno di 400 mila kyat (270 euro) al mese, un ufficiale inferiore 300 mila kyat (200 euro) e un poliziotto poco meno di 130 euro.”
Ma c’è puro disprezzo per i Rohingya. “I bengali non appartengono qui, sono immigrati clandestini e non si possono integrare perché non hanno istruzione e per esemio non rispettano i diritti delle donne” dice Kyaw Aye Hlaing.
Per descrivere meglio quello che pensa, chiama il traduttore Rohingya. L’uomo si avvicina trepidante. “Permetti a tua moglie di uscire fuori di casa?” chiede il capitano. Chiaramente intimidito e dopo qualche secondo di esitazione, il traduttore risponde con un tiepido no. Rivolgendosi a noi Kyaw Aye Hlaing dice. “Vedete? Non rispettano i diritti delle donne”
Poi con un gesto brusco lo fa allontanare.
Assumendo che sia vero il traduttore può avere qualche buona ragione per impedire alla moglie di lasciare la casa. A febbraio l’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU rilasciò un rapporto sugli abusi nel Rakhine durante i mesi precedenti, ricavati da centinaia di interviste con i profughi in Bangladesh. 52 donne su 101 intervistate accusarono di essere state stuprate o aver subito violenza sessuale per mano delle forze di sicurezza.
Alla fine del giro con la polizia di Maungdaw, ci fermiamo ad un ponte che segna il limite della loro giurisdizione. A due chilometri, nell’oscurità e sotto la responsabilità della polizia di frontiera, sta Myo Thu Gyi. Il capitano dà la sua ragione degli attacchi sul villaggio il giorno dopo il 9 ottobre 2016.
“Sappiamo da anni che il villaggio è pieno di estremisti. Fu un villaggio che dava problemi durante le violenze nel 2012”.
E così che fu segnato il destino di Myo Thu Gyi.
CALRLOS SARDINA GALACHE, SCMP MAGAZINE