Invece Villarosa si era sistemata su una sedia di plastica istituzionale a 38 chilometri a meridione di Iligan, dentro un ufficio del governo di Marawi. Fuori, si udiva lo scoppiettare dei fucili dei cecchini sulla collina cosparsa di moschee ad est e i jet militari che risuonavano sulla testa. Matrimonio o no, quel dolce di riso era buono e Villarosa era felice: “Dio è buono. Siamo sopravvissuti oggi”
Noel Celis—AFP/Getty ImagesSopravvivere è diventata la battaglia giornaliera a Marawi, la capitale della provincia di Lanao del sud la cui popolazione a maggioranza musulmana ne fanno la più grande comunità delle Filippine, paese a maggioranza cattolica. Villarosa consegnava gli inviti quando i combattenti vestiti di nero del Gruppo ISIS, come li chiamano qui, invasero le strade.
Lei corse a nascondersi in un rifugio in una casa vicina con altre 38 persone. Fuori, come venne a sapere, il suo luogo di lavoro, Dansalan College, bruciava ed si uccidevano cristiani.
“Ci siamo salvati da soli, senza i militari” dice Villarosa. “Dovemmo scappare, camminare, strisciare”. Sette dei suoi colleghi compreso il preside della scuola sono dispersi, ma con poco da mangiare e da bere e sapendo che i militari avrebbero bombardato l’area, Vllarosa decise di andare al rifugio della sala del comune. “Sembrava di essere in un film, come a The Walking Dead” dice Villarosa.
Jes Aznar—Getty ImagesLa battaglia di Marawi iniziò il 23 maggio, quando i militari filippini provarono a catturare Isnilon Hapilon, il capo della milizia meridionale che aveva promesso fedeltà all’ISIS. Ma l’esercito incontrò una resistenza più dura di quanto si attendessero. Alleatosi con un altro gruppo proISIS, Gruppo Maute, i combattenti di Hapilon presero in ostaggio un prete ed i suoi fedeli, liberarono i prigionieri dalla prigione del posto e presero il sopravvento nella città.
Ad oltre tre settimane la guerra continua, centinaia sono morti e altre centinaia di civili restano intrappolati nella città. Molti non hanno elettricità o acqua corrente. Gli alimenti finiscono in fretta. Poiché i residenti cercano rifugi sicuri, gran parte di Marawi è diventata una città fantasma.
Uno dei tanti obitori nell’area di Marawi dove vive la minoranza cristiana, Capin Funeral Homes di Iligan, è il posto dove sono portati molti cadaveri del conflitto. Un fascio di carte scritte a mano segnala i nuovi arrivati. Tra parentesi dopo il nome di due cadaveri arrivati un sabato, la nota dice “decomposti”. Quella domenica furono segnati altri sei corpi decomposti tra le quali due donne ed una ragazza. Il lunedì si registrarono altri otto corpi. Un sopravvissuto di Marawi disse dopo al giornalista filippino Jeff Canoy che erano i suoi colleghi di un mulino. Si erano rannicchiati nel mulino un centinaio di loro, diceva il sopravvissuto, ed i musulmani insegnavano ai loro colleghi cristiani le preghiere islamiche per confondere i combattenti. Dopo quattro giorni i lavoratori decisero di uscire fuori. Gran parte raggiunse i militari nella città, ma alcuni non ci riuscirono.
I loro resti sono stati ritrovati in un burrone con un cartello appeso al collo dove era scritto munafik o traditore, in arabo e nella lingua locale. Mentre si era all’obitorio giungeva un altro cadavere da Marawi, col capo che mancava.
Da quando Duterte è giunto al potere un anno fa, la sua ossessione è stata una brutale guerra ai tossicomani e agli spacciatori. Ora si trova di fronte ad una battaglia differente. Quando scoppiarono le ostilità a Marawi, Duterte dichiarò la legge marziale per 60 giorni a Mindanao.
“Il sogno del gruppo Maute, che ha promesso fedeltà all’ISIS e alla sua bandiera, è di trasformare Mindanao in uno stato islamico” disse Jose Calida, avvocato di stato filippino. La situazione è diventata così seria che gli USA sono coinvolti. Non hanno più proprie basi nelle Filippine. Ma un trattato di mutua alleanza permette ai due governi di venire in aiuto l’un dell’altro, e altri recenti accordi hanno visto personale militare americano fare da consiglieri, particolarmente a Mindanao e nell’arcipelago vicino di Sulu, culle dell’insorgenza.
Il 9 giugno a sorvolare i cieli cupi di Marawi c’era un P3 Orion per dare sostegno di sorveglianza alle truppe filippine a terra. Qualche giorno dopo un portavoce militare confermò “l’assistenza non militare” statunitense.
Marawi è l’ultimo fronte in quello che è stata una risalita degli attacchi chiaramente legati all’ISIS al di là della carneficina in Ira e Siria. Tra questi: l’assalto sanguinoso di fine maggio ai pellegrini copti in Egitto, la bomba suicida ad Ariana Grande a Manchester, l’attacco al London Bridge; due bombe suicide che hanno ucciso tre poliziotti a Giacarta e due attacchi a Teheran.
Marawi oscura tutte questo per morti e durata. Ma forse il significato più fondamentale è la crescita potenziale e la diffusione nel sudestasiatico da parte dell’ISIS e dei gruppi affiliati, in parti che vedono popolazioni musulmane maggioritarie o almeno forti.
Ad una recente conferenza della sicurezza a Singapore, il ministro della difesa Ng Eng Hen ha detto: “Se si permette un radicamento o una crescita della situazione a Marawi, porrebbe decenni di problemi… una terra di attrazione per i possibili jihadisti.”
Riferendosi ad un video del 2016, in cui i combattenti nelle lingue locali invitavano i connazionali ad andare nelle Filippine, Calida aveva detto a Manila: “Quello che accade a Mindanao non è più una ribellione di cittadini filippini, si è trasformata in una invasione di terroristi stranieri.” Le autorità dicono che otto combattenti stranieri sono stati uccisi a Marawi. Il ministro indonesiano della difesa ha detto: “L’area del gruppo di operazioni è diventata globale.
L’ISIS hanno indicato Singapore come un obiettivo delle pubblicazioni e video jihadisti e di due possibili attacchi, secondo un rapporto governativo del 2017.
Il secondo di questi piani di attacco contro alla città stato prevedeva un lancio di un missile contro il grande resort di Marina Bay Sands, ma fu sventato in Indonesia dove risiedevano i jihadisti che avrebbero dovuto attaccarla. La Malesia ha visto il suo primo attacco lo scorso giugno, dopo averne sventati altri 7 nel 2016, con una granata che esplose ferendo otto persone in un locale notturno della capitale.
L’Indonesia, il paese musulmano maggiore al mondo, è preoccupato che l’ISIS possa usare le Filippine come porta di entrata per stabilirsi nella regione. I due paesi sono separati da un tratto di mare pochissimo controllato, attraverso cui gli estremisti possono muoversi. “E’ facile fare un salto da Marawi in Indonesia” diceva il capo dei militari indonesiani il giugno.
L’Indonesia conosce cosa significa vivere nel terrore. Agli inizi degli anni 2000 Jemaah Islamiyah (JI), gruppo locale legato ad Al Qaeda e con cellule nei paesi vicini, si rese responsabile di una serie di attacchi come le bombe a Bali del 2002, quando morirono 202 persone. Anche l’obiettivo di JI era di creare uno stato islamico nel sudestasiatico. Con una controffensiva antiterrorismo, sostenuta dagli USA, alla fine Giacarta alla fine fermò JI.
Ora il pericolo è ISIS o gli estremisti locali che ad esso si ispirano. A gennaio 2016, l’ISIS si assunse la responsabilità di uno scontro a fuoco a Giacarta che fece due morti e 20 feriti. “In quasi ogni provincia ci sono già cellule ISIS” ha detto il generale Nurmantyo. “Sono cellule dormienti”
Sebbene le stime siano diverse, si pensa che ci siano 600 indonesiani che combattono in medio oriente, cifra che fa dell’Indonesia la più rappresentata con 2 ogni milione di persone, quando ci sono 27 per la Danimarca e 40 per il Belgio. Ci sono ancor meno filippini nel jihad all’estero.
Rappler denunciava che è stato confermato un solo filippino in Siria. L’Indonesia, comunque, democrazia secolare, vede una crescita di politici e militanti islamici di destra. Nel 2015, un’indagine diceva che il 4% della popolazione aveva una considerazione positiva dell’ISIS. Sono dieci milioni.Dice Sidney Jones di IPAC a Giacarta:
“L’errore nelle Filippine è stato di vedere il pericolo nei militanti stranieri che ritornano dall’Iraq e la Siria. Il problema è quello dei combattenti stranieri malesi o indonesiani, molto vicini, che non hanno mai messo piede in Siria ma sono attratti dalla lotta”
Per ora quella lotta si aggira per Marawi e Mindanao. Quasi 200 famiglie erano costrette a stare in un centro di evacuazione di Iligan ridisegnato al momento. Alcuni occupavano quadrati di pavimento diviso con barre di legno insieme a bagagli e contenitori di latte in polvere. Altri finivano in un vicino campo sportivo o infornati nelle tende cerate dell’ONU.
Qualche settimana prima, questo luogo era una sala di riunioni studentesche, dice la direttrice Eva Dela Cruz. Non si sa dove andranno queste famiglie quando riprenderà la scuola.
Mentre i combattenti di Marawi hanno preso di mira i cristiani, come altrove nel mondo, la maggioranza delle vittime sono musulmani che rigettano la violenza. Decine di migliaia di abitanti sono stati costretti a scappare dall’inizio della battaglia di Marawi. Molti sono finiti nei centri di evacuazione come Buru-un. Tra chi si trova nel limbo c’è Naima Abdullah che ha lasciato la città con cinque figli, tra cui un piccolo di cinque mesi, la nonna centenaria che si è portata sulle spalle, ed una gallina.
“Abbiamo camminato per cinque ore perché non c’erano trasporti e non abbiamo soldi. I più giovani ragazzi dell’ISIS avevano 12 o 13 anni. Con le armi. Avevano magliette nere dell’ISIS. C’erano così tanti uomini armati. Abbiamo avuto paura di morire”
Mentre il futuro di Abdullah e la sua famiglia fuori Marawi non è certo, è ancora peggio in città. Il numero dei combattenti dell’ISIS come stabilito dai militari, è cambiato da 150 a 1000. Per due volte sono passate le date indicate per la liberazione della città. E mentre per i militari il conto ufficiale dei morti era 290 il 14 giugno, tra cui 26 civili, sia evacuati che militari hanno detto, senza farsi identificare, che si pensa siano morte oltre 1000 persone.
“Ci sarà un’epidemia a causa dei tanti corpi in decomposizione per le strade” ha detto Norodin Lucman, un capo di un clan del posto.
Le informazioni dell’Ufficio del Presidente sono altrettanto confuse. Si sono dimostrate false le notizie di una decapitazione del capo della polizia della città, come detto nella dichiarazione di legge marziale a Duterte, quando il capo della polizia si presentò vivo qualche giorno dopo. Fu negato dai militari anche il rapporto di un attacco ad un ospedale con sequestro del personale, che è stato dettagliato nella dichiarazione presidenziale di legge marziale. Ci sono rapporti contraddittori sui militari filippini morti in un caso di fuoco amico con l’aviazione. Ora si pensano siano dieci. Resta non confermato il rapporto di un altro attacco andato a male contro una cittadina a 22 chilometri da Marawi.
Un errore fondamentale sembra essere un fallimento di riconoscere sufficientemente o di agire sulla minaccia posta dall’ISIS. “Sapevamo che arrivava” dice il generale Galvez, capo del Comando occidentale di Mindanao, che sembra voler dire che Manila sottovalutò a minaccia.
“Il problema è che l’economia scoppia. Quando dici che l’ISIS è qui l’investimento cambierà. Non vogliamo che questo ci colpisca” disse Richard Heydarian alcune settimane prima dell’assedio di Marawi. “Le Filippine attirano già tanta pubblicità negativa per la guerra alla droga e il senso di mancanza del governo della legge. Il governo filippino non vuole aggiungere altra preoccupazione ai settori già agitati del turismo e degli investimenti”.
Un video della AP mostra Hapilon ed i fratelli Maute mentre discutono i piani per catturare la città davanti ad una mappa di Marawi. Nonostante i rapporti che parlavano di Hapilon ferito se non ucciso in un bombardamento aereo a febbraio 2016, Hapilon sembra vivo e vegeto. Nel frattempo il Gruppo Maute attaccava sulla cittadina di Butig di Lanao, che pare essere in retrospettiva una prova per Marawi.
La battaglia di Marawi ha le radici nella complessa storia sanguinosa di Mindanao, dove quattro decenni di lotta armata hanno fatto oltre 150 mila morti. Secondo le cifre ufficiali, un po’ oltre il 5% della popolazione filippina è Moro. La gran parte vive a Mindanao, dove il tasso di povertà è maggiore e l’istruzione è più bassa che nel resto del paese. Le Filippine meridionali hanno una tradizione di lotte tra clan, chiamate rido. Una ragione per cui i combattenti riescono a tenere così a lungo, dice un militare, è che le costruzioni di Marawi sono piene di nascondigli, nicchie per cecchini e fondazioni fatte per gli scontri tra clan.
La sofferenza dei Moro risale al colonialismo spagnolo e americano che incoraggiarono la popolazione cattolica a migrare nelle terre spopolate dei Moro, migrazione che poi continuò sotto la dittatura di Marcos i cui soldati massacrarono migliaia di Moro sotto la legge marziale. Dal 1972, il MILF prima e poi la costola del MILF hanno lottato per l’indipendenza o una maggiore autonomia dal governo centrale di Manila.
Molti musulmani di Mindanao avevano sperato che Duterte, che viene dall’isola e afferma di avere sangue Moro, avrebbe accelerato un processo di pace incerto. Ma non è andata così.
Negli anni molti gruppi sono usciti dal MNLF e dal MILF. Quattro di questi hanno promesso fedeltà all’ISIS secondo IPAC. Il più grande è il gruppo di Abu Sayaff che con le decapitazioni di alcuni rapiti, ha acceso paure di una presenza dell’ISIS a Mindanao. Ad aprile Abu Sayaff fece un tentativo sfrontato di attaccare l’isola turistica di Bohol a centinaia di chilometri dalla giungla di Jolo e Basilan nell’arcipelago di Sulu.
Gli esperti dicono che gruppi come quello di Abu Sayaff sono più motivati dalla povertà e dalla libertà politica che dalla jihad militante. Nei primi mesi del 2016 il gruppo ha raccolto 7,3 milioni di dollari in riscatti secondo un rapporto del governo filippino. Non si sentono attacchi suicidi nelle Filippine.
“La dipendenza da atti criminali è sintomatico della mancanza di impegno ideologico da parte del gruppo Abu Sayaff e sono le motivazioni per lo più economiche che accresce la militanza” dice Joseph Franco della Nanyang Technological University di Singapore. Franco ha detto che l’ISIS ha risposto alla promessa di alleanza di Hapilon del 2014 facendone un emiro o comandante, senza però nominarlo governatore della sua provincia, wilaya, dell’ISIS. “Essere un wilaya non è sufficiente per andarsene in giro con una bandiera o tagliare teste” secondo Granco. “Devi avere una sembianza di governo”.
Altri notano che Hapilon, che guida la fazione di Abu Sayaff di Basilan, distinta dal capitolo più marittimo di Sulu, non è stato coinvolto in casi di alto profilo di rapimenti e decapitazioni. Questo dovrebbe aver messo in guardia le autorità filippine che il gruppo riceveva soldi da fonti straniere.
Secondo il generale Galvez, i tausug della fazione di Sulu di Abu Sayaff, come anche i militanti di gruppi più piccoli, si sono adunati a Marawi. La cosa suggerisce che, nell’allontanarsi dalla sua Basilan e alleandosi con il gruppo Maute, Hapilon ha avuto qualche successo nel superare la divisione etnica e di clan per unificare le milizie proISIS.
Il gruppo Maute è più nuovo e meno compreso sebbene, secondo Franco, le radici giacciano nell’estorsione e criminalità. Lo scorso novembre un ex comandante del MNLF Omar Ali, Solitario, andò ai piedi delle montagne di Butig per incontrare i fratelli Omarkayam e Abdullah Maute. Quello stesso anno i due fratelli Maute avevano attaccato la città di Butig che è un decimo di Marawi, resistendo per giorni alle forze di sicurezza. In un altro attacco assaltarono la prigione di Marawi liberando i prigionieri lì rinchiusi. Solitario che ha 60 anni, aveva fatto il viaggio per persuadere i Maute a deporre le armi.
Solitario, col viso pieno di rughe sotto un cappello da preghiera, ha la sembianza di un combattente ma la parlata lenta, attenta di un diplomatico. Quell’incontro di Novembre fu il primo incontro con i fratelli Maute anche se conosceva bene la famiglia, perché era andato a scuola col padre anni prima, e un suo fratello era sposato ad un parente del clan. Conosceva bene le autorità filippine: da comandante del MNLF Solitario ha passato anni a combatterle. Era stato a Tripoli in Libia, e poi a Giacarta per firmare gli accordi di pace, ed è stato un sindaco di Marawi.
“Proposi ai Maute di fermare temporaneamente la guerra al governo finché il programma di cambiare struttura e sistema non fosse iniziato” dice Solitario riferendosi al piano di Duterte di fare il federalismo nelle Filippine, che avrebbe dato autonomia a Mindanao. Se il presidente non avesse portato avanti la sua promessa, Solitario disse ai Maute che potevano riprendere le armi.
Ma i Maute secondo Solitario non erano interessati in un compromesso o in una maggiore autonomia per i Maranao. Erano contrari all’interferenza dei non musulmani nei loro affari. Erano contrari anche agli sciiti e agli ostruzionisti musulmani sunniti. Ed erano pronti ad ucciderli.
Dice Solitario: “Mi dissero che avevano un piano di ripulitura. Non vogliono che i musulmani siano neutrali. Unirsi a noi oppure opporsi. O sei con noi o contro di noi”.
Solitario non sa se i Maute si siano ideologizzati nella loro istruzione in Giordania ed Egitto, o per le connessioni familiari in Indonesia e JI. Comunque sia “al loro ritorno dall’estero, portavano con loro quel virus.”
Oltre Solitario, la maggioranza dei cittadini Musulmani e Cristiani, stanchi del conflitto, vogliono sconfiggere quel virus. Tra loro c’è il clan di Lucman. Quando scoppiò la battaglia di Marawi il 23 maggio, quasi 70 persone in gran parte cristiani si rifugiarono nella sua grande casa a Marawi. Dopo averli accolti per dieci giorni ed averli condotti oltre i punti di controllo del gruppo Maute, Lucman raccontò la sua storia.
In due occasioni, racconta Lucman, giunsero al suo cancello uomini armati che chiesero di entrare. La prima vota non riconobbe gli uomini dell’ISIS. Non erano Maranao del posto e gli dissero dei versetti del Corano. Lucman che aveva studiato giurisprudenza islamica a Jedda, li mandò via. “Non viene nulla del loro indottrinamento: uccidere civili innocenti, distorcere l’insegnamento dell’Islam e distruggere le loro comunità”.
La seconda volta l’ISIS mandò un Maranao. Lucman riconobbe il giovane di 28 anni nell’uniforme nera come un parente lontano. “Gli dissi cosa fai con un’arma? Questa è jihad, rispose lui. Gi dissi che non c’era modo che potesse vincere, togliti quei vestiti, ti nasconderò. Ti porterò al governo per farti arrendere. Lui disse No, voglio morire”
JOSEPH HINCKS, Time.com