La distruzione della città islamica di Marawi ha tragicamente scombussolato le aspirazioni del Presidente Duterte, il sindaco di una cittadina diventato presidente, che ha scoperto che le sue ambizioni erano più grandi delle sue capacità.
Con la sua esperienza di sindaco di Davao, dove aveva una relazione amichevole con i musulmani della regione, Duterte nella sua campagna elettorale promise di portare una pace difficile nelle Filippine Meridionali durante la sua presidenza.
La battaglia fatta per tutto il Ramadan, per cacciare i terroristi che promettevano fedeltà allo stato islamico, ha raggiunto proporzioni catastrofiche, mai viste nel recente ciclo di violenze nell’isola di Mindanao. Proprio nell’epicentro della regione di Duterte i militanti islamici dicono di volere stabilire un califfato, mentre i jihadisti giungono sulle spiagge incustodite di Mindanao dallo Yemen, dalla Malesia, Indonesia ed altri paesi.
Il presidente non è stato visto in pubblico, sollevando domande serie sul suo stato salute, per gran parte della crisi, che ha fatto già 400 vittime, che ha dislocato decine di migliaia di musulmani, mentre i militari combattevano in quello che un tempo era una città storica ridotta in rovine, con gli scontri che si protraggono nella loro sesta settimana.
Apparendo d’improvviso al palazzo presidenziale per le celebrazioni di Eid Al Fitr, Duterte ha detto di essere rattristato, arrabbiato ed è ritornato nel suo umore solito maledendo la tragedia delle tribù Maranao a Marawi, delle cui origini spesso si era spesso vantato.
E la tragedia per il presidente è che il suo polso di Mindanao, di cui è un figlio orgoglioso, non è migliore di quello dei suoi predecessori che dovettero affrontare la rudezza di un conflitto decennale. Ha tolto la corazza del duro del vicinato.
La mappa di Mindanao è stata bruciacchiata con troppi omicidi, battaglie, incendi, raggiungendo ogni due anni grandi proporzioni, l’ultima delle quali fu un’operazione di polizia andata a male agli inizi del 2015, preceduta nel 2013 dall’assedio ad una città cristiana, e gli omicidi di orde di giornalisti da una famiglia di signori della guerra alla fine del 2009.
La battaglia per la città islamica di Marawi, la cui popolazione un tempo raggiungeva le 200 mila unità ma ora distrutta, ha sconfitto la logica militare, con i comandanti costretti a mandare carri armati e artiglieria e di inondare di bombe con vari attacchi aerei, chiedendo aiuto agli americani che Duterte aveva dileggiato, per sopportare la sfida brutale dell’arsenale dei terroristi fatto di armi potenti.
Era una battaglia dove i ribelli combattevano per ritirarsi e combattere il giorno successivo. Ma questa è diversa.
Il presidente non l’aveva capito il gruppo Maute che aveva screditato in una spettacolare mostra di forza. Disse che si fosse trattato di una guerra contro la vecchia guardia del MNLF e della sua costola del MILF, avrebbe “sopportato e invocato la pace”
“Quello che mi addolora è l’entrata di un’ideologia spezzata e non sanno neanche loro quello che fanno. Vogliono solo uccidere e distruggere. Se andavano in un’aria forestata, oppure reclamavano una montagna in particolare e avessero combattuto lì, li avrei potuti perdonare.”
Quello era lo spettro di Marawi: la radicalizzazione che sceglie Mindanao per portare il segno nel Sudest Asiatico con ordini che giungono dal Medio Oriente. Quando scoppiarono gli scontri il 23 maggio, i terroristi avrebbero potuto avere il sopravvento, alzare la bandiera nera sulle colline del campo della brigata, stabilire una provincia wilayat, che avrebbe avuto inimmaginabili conseguenze. Furono fermati all’ultimo momento.
Il presidente disse che non avrebbe comunque funzionato perché “siamo una razza malay, non siamo tanto brutali e rispettiamo la vita”. Non aveva saputo che i terroristi che erano giunti per prima alle coste seminando l’estremismo violento nelle menti dei giovani gruppi ribelli erano indonesiani e malesi quindi malay etnici?
Mindanao è un parco aperto per i terroristi che attraversano le acque dai paesi vicini alle sue estremità. Senza un controllo stretto e pattugliamenti di frontiera, che sono l’emblema della sicurezza interna, è una passeggiata nei rifugi dei ribelli.
Le pianure e le montagne attorno ai confini delle province di Lanao del Sur, di cui fa parte Marawi, e Maguindanao sono stati terreno di addestramento sin dagli anni 90 per AlQaeda e Jemmah Islamiya. Fu allora che un indonesiano di nome Ibrahim Ali fu nel primo gruppo dei cosiddetti cadetti.
Fu Ali, secondo un rapporto dell’intelligence, che l’ISIS avrebbe voluto designare come Emiro per la regione, ma Ali fu ucciso in uno scontro, alla fine del 2015, a Sultan Kudarat che voleva catturare il capo di un altro gruppo ribelle. I militari avrebbero capito solo dopo che era Ali il bombarolo tra i morti.
Di conseguenza fu un salto coraggioso quello che fece Isnilon Hapilon, nominato Emiro per il sudestasiatico, dalla sua base di Abu Sayaff sull’isola di Basilan nella frontiera nordoccidentale continentale per unirsi alla forze con la famiglia Maute, arroccata nei soldi e nella guerra tra clan, che sostituì nella città remota di Butig, ad un’ora da Marawi.
Si sapeva che i Maute avevano precedentemente dato rifugio a radicali, uno dei quali un insegnante religioso indonesiano ucciso alla fine del 2012.
Due dei figli di Maute divennero la generazione energetica del blocco del terrore, dedicandosi agli obiettivi dello stato islamico, una chiara deviazione dal negoziato di pace dei grandi gruppi ribelli con governo. Il Gruppo Maute fu responsabile della bomba dello scorso settembre nella città di Duterte, Davao. Fu un colpo a quello che si credeva essere un impenetrabile “sede alternativa di potere”.
Due volte nel mezzo della crisi di Marawi il presidente si è ritirato dalla vista pubblica generando ansie sulla sua salute precaria. Aveva baldanzosamente annunciato che l’assedio sarebbe durato fino al 12 giugno, giornata dell’indipendenza filippina. Ma non è accaduto mentre la battaglia andava avanti per il controllo della città, mentre lui stesso era assente alle attese celebrazioni di un presidente. Il portavoce disse che aveva bisogno di riposo.
Nel frattempo aveva dichiarato la legge marziale per l’intera isola di Mindanao, ricordando ai suoi ospiti, che si erano recati al palazzo per il festival musulmano, seduti attorno ad un tavolo ornato sotto candelieri illuminati, che era stato costretto dalla crisi di Marawi.
Falsa fiducia
“Sapevo tutto” disse. “Sapevo dell’impiego dei cecchini e dove tenevano le armi. Avevo già il quadro completo e sapevo che sarebbe stata una guerra lunga”
Era a Mosca quando gli scontri scoppiarono il pomeriggio del 23 maggio facendo sorgere la domanda di quanto sapesse, quando nel suo viaggio in Russia aveva nel suo entourage circa 50 generali di polizia e militari, con i comandanti anziani e i loro vice che portarono le mogli con loro in quello che divenne famosa come visita ufficiale.
Informazioni varie dalla comunità dell’intelligence avevano dato la sensazione, due settimane prima, che qualcosa era in corso, notando una ingrossamento delle forze nella roccaforte di Maute. Un gruppo dell’intelligence della Marina era sulle tracce di Hapilon da tre anni o più.
Alla fine pezzi di informazione li portarono dalle isole meridionali fino a Marawi, dove unità speciali dell’esercito e della Marina furono chiamate per dare la caccia. Nel giro di mezzora, il crepitio delle armi scoppiò dalla costruzione dove si credeva che si nascondesse Hapilon accendendo una battaglia che ha cambiato le dimensioni del conflitto.
I militari dissero che Hapilon era scappato e credevano che uno dei fraelli Maute era stato ucciso. Settimane dopo il presidente disse al suo pubblico nel palazzo che uno dei morti tra la famiglia Maute era un suo cugino. “Lo sapevate?” disse ponendosi nel modo perplesso di chi è stato preso in giro, rendendolo una vittima tra le migliaia di Maranao che aveva perso tutto ciò che avevano a causa di questa avventura.
Spazi senza governo
Promise ancora di ricostruire Marawi dalle macerie, di riportare prosperità, se con questo voleva dire la sua oscura economia che marcia sulle armi e la droga ed altri commerci illegali. La città forse potrebbe essere l’epilogo delle cose che non possono ritonare ad essere quello che erano prima. E’ stato uno di questi spazi senza governo, indicati dalle forze speciali della marina che ha causato l’inasprirsi della radicalizzazione.
I militari stavano quasi per scongiurarlo, ma non furono abbastanza veloci a spegnere il fuoco dell’estremismo violento.
Dopo essere stata distrutta per salvarla, la città islamica di Marawi deve essere risuscitata con una cancellazione simbolica del passato. Dovrà ripartire da zero perché questa crisi è una sveglia straziante per tutta Mindanao. Il presidente forse dovrà smetterla di rifarsi ad una visione monodimensionale della narrativa musulmana, poiché deve andare avanti i rischiare fallimenti più grandi.
Ha detto di non riuscire a guardare la sofferenza in televisione, preferendo spegnerla o cambiare canale a guardare cartoni animati.
Criselda Yabes, Asia Sentinel