La scorsa settimana la stampa estera ha potuto accedere, in modo limitato, a qualche spicchio isolato dello stato Rakhine per la prima volta da quando le forze di sicurezza lanciarono la lunga operazione per sradicare l’organizzazione militante che attaccò le forze di frontiera birmane.
L’ONU vuole accertare se quella campagna sia stata una pulizia etnica dopo le denunce di stupri di massa, di omicidi e incendi emerse dai Rohingya che fuggirono nel confinante Bangladesh.
Per chi rimase nei villaggi di frontiera con le case fatte con pareti in rattan, la violenza e l’insicurezza sono continue, dice la gente del posto ai giornalisti, sotto l’occhio vigile delle forze di frontiera birmane che guidavano la visita.
“I nostri mariti sono in fuga. Ci hanno lasciato perché hanno paura delle guardi di frontiera” ha detto una donna Rohingya all’agenzia AFP in condizione di anonimato. “Ci bruciarono le case. Non abbiamo casa e nulla da mangiare. I nostri uomini si nascondono da qualche parte”.
L’operazione militare di vasta scala si è quasi fermata, ma l’area resta chiusa con sporadici omicidi da parte della polizia di frontiera ancora intenta a sradicare “il terrorismo”.
L’ONU crede che siano morti in centinaia in quello che potrebbe essere il capitolo più sanguinoso della persecuzione di tanti anni da parte della maggioranza buddista verso i Rohingya musulmani.
La minoranza è generalmente accusata di essere degli emigrati clandestini del Bangladesh, sebbene molte famiglie Rohingya dicano che i loro antenati siano vissuti per generazioni nell’area.
E’ emerso ora un nuovo pericolo: tanti uomini del posto sono rapiti e assassinati da bande di uomini armati di pugnale, vestiti di nero e con maschere sul volto.
Le autorità affermano che gli assassini prendano di mira i capi della minoranza musulmana e chiunque sia visto come collaboratore dello stato, gettando la colpa degli omicidi sui militanti Rohingya.
L’analista Richard Horsey di International Crisis Group, dice che una sessantina di persone sono state prese di mira in una campagna sistematica “per portare via musulmani che in qualche modo sono connessi, o percepiti come tali, alle autorità”
Omicidi misteriosi
In un’area dove fioriscono la sfiducia e le dicerie, non è chiaro chi ci sia dietro a questi attacchi, e la paura si intensifica di fronte alle notizie quotidiane di omicidi.
All’inizio di luglio uomini non identificati trascinarono con la forza un padre di sei figli Atthu Suwan dal letto mentre era con la moglie nel villaggio Maung Hnama. Hanno colpito l’uomo che occasionalmente ha fatto da traduttore per i rappresentati locali, portando il corpo nell’oscurità, come hanno raccontato gli amici e parenti ai giornalisti che partecipavano alla carovana della stampa governativa.
“Non sono riuscita a mangiare da quando hanno preso mio figlio” dice la madre anziana Moeyeyan Khatu, col volto segnato dal dolore.
Un lunedì i media di stato hanno detto di aver ritrovato il corpo abbandonato in un ruscello lì vicino. “Abbiamo paura che accadranno di nuovo questi omicidi” dice il vicino anziano Hanumyar.
Il governo accusa degli attacchi all’esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan, ARSA, un nuovo gruppo di militanti di nuova formazione.
Ma il gruppo nega il coinvolgimento accusando invece i militari attraverso un media sociale da verificare. Il Gruppo ARSA comunque afferma di essere l’autore degli attacchi al posto di polizia di frontiera dello scorso ottobre.
Da questi attacchi poi nacque l’operazione di polizia che ha fatto scappare in Bangladesh oltre 70 mila persone.
I progughi Rohingya hanno condiviso i loro racconti raccapriccianti di bambini uccisi da soldati, di persone bruciate vive e di sturpi di gruppo delle donne, denunce che secondo gli esperti dell’ONU potrebbero essere considerati dei crimini contro l’umanità.
L’esercito nega queste accuse dicendo che la risposta era proporzionata a quanto fatto dai terroristi.
Ma la repressione ha acceso una condanna forte globale e l’ONU ha comandato una missione di accertamento per verificare la violenza.
Tra l’incudine ed il martello
La Birmania si è rifiutata di cooperare negando anche il visto agli esperti ONU.
Gli abitanti Rohingya, che non possono muoversi per le restrizioni agli spostamenti e l’abietta povertà, dicono di sentirsi in una trappola tra lo stato oppressore e i vendicativi militanti.
Oltre al clima di paura, sarebbero circolate sui media sociali, stando ad alcuni analisti e fonti Rohingya, le minacce di morte e le fatwa mirati a chiunque osi opporsi ai militanti.
Sulla visita dei media i rappresentanti locali hanno cercato di minimizzare la campagna dei militari e gli omicidi.
Il generale San Lwin, capo della polizia dello stato Rakhine, ha detto che alcuni degli omicidi potrebbero essere legati a questioni personali e non alla militanza. Ma la gente dice che ora hanno paura di assumere posizioni ufficiali per non diventare anche loro degli obiettivi.
Un uomo musulmano di 35 anni nominato di recente come capo famiglia nel villaggio di Tinmay ha detto che il suo predecessore fu ucciso ad aprile dopo aver parlato con giornalisti birmani.
“Non dormo a casa” aggiunge in forma anonoma, “Dormo con la sicurezza in un posto di polizia”.
Hla Hla Htay, Yahoo.com