Negli ultimi cinque anni il sudestasiatico, un tempo visto come un potenziale modello di transizione democratica, ha fatto degli enormi passi in dietro.
Dieci anni fa la Cambogia, Malesia, Thailandia, Indonesia e Filippine erano tutte delle giovani democrazie, o per lo meno, dei regimi ibridi che sembravano fare dei progressi verso una democrazia completa.
Agli inizi del 2010 la Birmania si unì alla lista delle possibile storie di successo. I generale birmani lasciarono libera la strada ad un regime civile che, nel 2015, permise delle libere elezioni che portarono allora al potere un governo dominato dal NLD a Naypyidaw.
Gli ultimi anni però si sono dimostrati poco gentili verso le democrazie del sudestasiatico. La Thailandia ha visto un golpe nel maggio 2014 ed ora il paese si trova sotto il governo più duro di una giunta da decenni e la società civile thai è stata sconfitta.
Il governo malese ha incarcerato il capo dell’opposizione Anwar Ibrahim ed altri personaggi importanti dell’opposizione, e sembra che la coalizione di governo dominerà anche le prossime elezioni. Le ultime elezioni malesi si tennero nel mezzo di denunce di massicce modificazioni delle circoscrizioni elettorali e di massicci usi di fondi pubblici in modo politico.
Gli stati più autoritari della regione, come Laos e Vietnam, hanno invertito qualunque timido tentativo di cambiamento politico che avevano fatto negli anni 2000. Entrambi i paesi hanno represso in modo aggressivo il dissenso online ed altre forme di libertà di espressione.
Anche le Filippine stanno regredendo. Nel suo anno di presidenza, che ha visto la sua guerra alla droga, dei dubbi casi di omicidi extragiudiziali di critici e l’arresto di altri oppositori, il presidente Duterte è riuscito a minare il governo della legge. Ha anche messo in pericolo molte istituzioni che hanno fatto delle Filippine una delle democrazie più stabili nella regione.
Ed in Indonesia alcuni osservatori politici temono che persino nel paese definito come la storia migliore del successo della democrazia nella regione si stiano indebolendo le radici democratiche.
Gruppi islamici estremi acquistano potere a livello locale e nazionale ed hanno giocato un ruolo centrale nella sconfitta del governatore Ahok a Giacarta. Si accusa persino il presidente Joko Widodo di accumulare poteri antidemocratici.
New Mandala fa notare che con la sua controversa nuova legge che potrebbe permettere al suo governo di vietare varie ONG ed altre organizzazioni “Jokowi ha posto l’esistenza legale di ogni ONG e di ogni organizzazione civile in Indonesia in balia di una decisione esecutiva unilaterale”.
Potrebbe la transizione democratica nel sudestasiatico, che era parsa sul punto di avere varie democrazie consolidate negli anni 2000, peggiorare ancora di più?
Nelle recenti settimane i capi autoritari hanno dimostrato persino maggiore volontà di reprimere in Cambogia e Thailandia. E la Birmania sta discendendo in una guerra civile che potrebbe facilmente minare la transizione democratica o spingere qualche capo delle forze armate a credere che ci sia bisogno che loro riprendano di nuovo il controllo del paese.
Il premier cambogiano da tanto al potere Hun Sen, probabilmente preoccupato dai passi in avanti dell’opposizione nelle elezioni nazionali del 2013 e nelle elezioni locali del 2017, e forse ringalluzzito dalle elezioni di un governo USA, che demonizza i giornalisti e discredita la promozione dei diritti umani come componente della politica estera americana, è andato all’attacco contro i propri oppositori negli scorsi sei mesi. Hun Sen forse sta cercando di neutralizzare prima delle elezioni nazionali previste per l’anno venturo.
Hun Sen ha portato la repressione ad un livello che non si vedeva da anni.
La scorsa settimana è stato arrestato il capo dell’opposizione Kem Sokha per accuse di tradimento. E’ solo una delle tante persone prese nella repressione di Hun Sen. Nelle ultime settimane il governo ha costretto il National Democratic Institute a mandare a casa il personale straniero e porre fine ai suoi programmi in Cambogia.
Il governo di Hun Sen ha perseguitato una delle fondamenta della stampa indipendente cambogiana, The Cambodia Daily, una voce importante per il giornalismo indipendente nel paese, che ha pubblicato l’ultimo numero il 4 settembre. Hun Sen minaccia anche Voice of America e Radio Free Asia cambogiana tra i tanti media e associazioni della società civile.
Ci sono paure legittime che Hun Sen provi semplicemente a mettere al bando il partito di opposizione CNRP.
In Thailandia la democrazia non se la passa molto meglio, sebbene il principale partito di opposizione, come il partito cambogiano di opposizione CNRP, goda di un significativo sostegno pubblico. L’ex primo ministro Yingluck Shinawatra chiaramente ha lasciato il paese invece di affrontare il verdetto del tribunale il 25 agosto per l’accusa contro il progetto di sostegno del prezzo del riso della sua amministrazione. Il verdetto è stato spostato alla fine di settembre.
Nello stesso giorno in cui Yingluck non apparve in tribunale, il suo ex ministro del commercio ricevette una condanna a 42 anni di carcere per un processo legato a quello di Yingluck. Alcune di queste accuse sono controverse poiché chi è accusato lo è essenzialmente per incompetenza del governo. Anche altri capi del Puea Thai rischiano accuse molto gravi. I militari potrebbero anche non far le elezioni nel 2018 ma in ogni caso hanno provato già a distruggere l’opposizione ed ad assicurarsi che le forze armate abbiano il controllo della politica negli anni a venire.
Poi c’è la Birmania. Sin da quando il governo di Aung San Suu Kyi prese il potere lo scorso anno, si è concentrato sull’economia e sul processo di pace con vari gruppi etnici. Il portavoce di Suu Kyi ha fatto capire bene che diritti e democrazia giungono dopo le questioni economiche e il processo di pace sulla lista del suo partito.
Quindi Suu Kyi ha detto poco mentre le forze di sicurezza hanno fatto lo scorso autunno terra bruciata nello stato Rakhine, e nelle recenti settimane le forze di sicurezza ed un gruppo potente militante dei Rohingya hanno portato di nuovo distruzione nel Rakhine.
Il Washington Post notava che “testimoni dicevano che soldati avevano bruciato villaggi e mandato migliaia di Rohingya al di là del fiume Naf in Bangladesh, e l’ONU riportava che quasi 120 mila Rohingya sono scappati dalla Birmania in solo due settimane, aggiungendosi al numero dei Rohingya come rifugiati o persone dislocate internamente. Sotto Suu Kyi i giornalisti birmani sono stati sempre più minacciati sia attraverso la diffamazione o semplicemente messi sotto pressione dai militari.
Sembrano esserci pochissimi segni di un futuro migliore per i democratici del sudestasiatico, almeno in un tempo vicino. Se i cinque anni passati sono stati cattivi per la democrazia nella regione, i prossimi cinque potrebbero essere persino più incerti.