Kuya, non farlo, non sono io grida Jayros Brondial, Utah per la famiglia, il ragazzino di 13 anni ucciso a Pasay, quando già ferito prova a scappare al sicario sceso da una motocicletta che gli vuole dare il colpo di grazia.
Le imprecazioni dello zio non servono a salvare il ragazzino, uno dei tanti ucciso a Pasay durante la guerra ai poveri di Rodrigo Duterte.
Siamo a Tramo Street, in un quartiere di Pasay City a Manila, le due del pomeriggio di domenica. Utah era uscito dalla casa dopo aver mangiato qualcosa, nei suoi pantaloncini scuri, a torso nudo.
Dalle telecamere a circuito chiuso si vede una moto che passa per due volte da quella strada prima di fermarsi e sparare ad Utah che è seduto su una sedia di legno.
Kuya, non farlo, non sono io. Così grida Utah dopo che è stato ferito ed il sicario si avvicina ed esplode altri colpi. Kuya è il termine per indicare rispetto verso una persona di età maggiore.
Utah non muore lì ma viene trasportato all’ospedale generale di Pasay pieno di sangue, col respiro doloroso. La madre è lasciata a casa tramortita.
Utah muore nel pomeriggio, senza terminare le scuole dell’obbligo.
Era il settimo figlio di Rosana Brondial che di Utah dice: “Era così innocente”. Sempre presente a scuola e nelle attività sportive perché era di statura alta, adatto per la pallacanestro. Non era il più sveglio ma era diligente.
“Tutti nel quartiere vi diranno che quello ha fatto un errore” dice Rosana del figlio che è nato, ha vissuto ed è morto su Tramo Street, e la sua innocenza era conosciuta da tutti nel quartiere.
La gente del quartiere sostiene che l’obiettivo del sicario era un altro, un certo Gayi Gary Alandra, sulla trentina, riconosciuto spacciatore della strada, in cima alla lista del Barangay, l’unità di governo eletto locale che con Duterte ha anche avuto il compio di redigere la lista degli spacciatori da fare fuori.
Rosana si dice certa che l’obiettivo fosse Gayi perché era seduto qualche minuto prima sulla stessa sedia dove era seduto Utoy, vestito alla stessa maniera.
Gayi deve aver capito di essere lui l’obiettivo perché è sparito dal quartiere e neanche la famiglia sa dove si possa trovare.
La madre di Gayi dice alla madre di Utoy: “Neanche noi volevamo che accadesse questo”
Non si fa neanche a tempo a piangere questo ragazzino che si legge di un’altra esecuzione, in un altro angolo della megalopoli di Manila, a Quezon City, di un altro ragazzino di 16 anni, studente di scuole superiori. Il nome è Aldrin Raman Jore il cui corpo sembra ancora restare sulla strada.
Il palazzo presidenziale di fronte alla critica e alla rabbia parla di vittime collaterali, di casi isolati.
Ma ci sono tanti che hanno gridato Kuya, non farlo, non sono io, e ci sono alcuni che erano così piccoli da non poterlo neanche gridare, come Altea Barbon, di quattro anni, uccisa insieme al padre durante un’operazione di polizia, di quelle che chiamano legittime, a Negros Orientale.
C’è anche Danica May Garcia di cinque anni a Dagupan, colpita da un proiettile vagante, quando dei sicari entrarono nella casa per colpire il nonno, Maximo Garcia.
Francis Manosca di 5 anni di Pasay, San nini Batucan di sette anni di Cebu.
Kristine Joy Sailog di dodici anni, durante una messa del periodo di Natale celebrata prima del canto del gallo.
E’ una lista lunga di casi isolati e vittime collaterali che servono solo a creare il terrore tra la gente delle baraccopoli.