Sono in tanti tra giornalisti e analisti della sicurezza ad aver sottolineato la maggiore forza crescente, la volontà e la capacità di far crescere il malcontento, ma le statistiche mostrano che l’insorgenza resta bloccata in uno stallo militare. Il numero di morti e feriti e incidenti violenti continua a fluttuare di mese in mese senza mostrare chiare indicazioni di una tendenza a crescere o a decrescere. A marzo ed aprile ci sono stati 56 e 28 morti nella regione, secondo i dati di Deep South Watch, cifre che si adattano bene al campo statistico delle morti nella regione sin da metà 2007. Ma più a lungo si protrae lo stallo militare, sempre di più le richieste di un accordo negoziato acquisteranno di credibilità.
Il governo del Puea Thai di Yingluck Shinawatra apparentemente ha dato più attenzione a quelle richieste dei precedenti governi thai. Il leader di fatto del partito, nonché fratello del premier ed ex premier in esilio, Thaksin si sa che ha lavorato dietro le quinte per incontrare le personalità separatiste durante una sua visita personale in Malesia. Thaksin pubblicamente ha detto durante una sua recente visita in Cambogia che il conflitto dovrebbe terminare al tavolo dei negoziati.
Il suo uomo di fiducia nel lontano meridione, Tawee Sodsong, segretario generale del SBPAC del governo ha iniziato i colloqui con le personalità separatiste, ha sottolineato l’importanza delle riforme politiche di decentralizzazione e ha conquistato le lodi da parte dei capi musulmani locali per i suoi sforzi per placare le vaste lamentele sociali.
Nonostante gli sforzi di Thaksin e del Puea Thai ci sono state diffuse speculazioni secondo cui le autobombe, che hanno colpito il complesso commerciale di Hat Yai uccidendo 5 civili, riflettevano le obiezioni tra i duri del movimento ad ogni trattativa di pace con un governo allineato con Thaksin, durante il cui periodo scoppiò la violenza regionale nel gennaio 2004 e al cui governo e alla cui mano pesante molti analisti e studiosi hanno fatto risalire la scalata del conflitto.
Eppure il ruolo di Thaksin nell’aggravare lo scontento regionale forse ha poche conseguenze sui futuri negoziati. Di gran lunga più significativo, secondo varie fonti, è la limitata abilità del governo ad iniziare un processo di pace. In questa fase Yingluck, Thaksin e Tawee non hanno il peso per spingere in avanti un accordo di pace.
Il comandante delle forze armate generale Prayuth Chan-ocha, un fedelissimo della monarchia e avversario riconosciuto di Thaksin, ha denunciato la spinta del Puea Thai in favore del modello di governo democratico regionale chiamato “Pattani Mahanakorn”, forgiato dalla società civile, che secondo alcuni potrebbe essere introdotto come una legge del parlamento del paese. Lo stesso Prayuth ha anche criticato Thaksin e Tawee perché non hanno parlato con le figure separatiste che hanno autorità sulla guerriglia nella regione che si crede frammentata in vari gruppi dei quali solo alcuni sono stati contattati da Thaksin.
Sin dai colloqui di pace segreti ed informali iniziati nel 2006 sotto il governo nominato dopo il golpe del 2006 del generale Chulanont, il gruppo più rappresentativo militarmente Barisan Revolusi Nasional Coordinate, BRN-C, ma altamente diviso, si è rifiutato di partecipare ai colloqui. Le personalità militari sottolineano che il rifiuto a partecipare ai colloqui si origini dalle aspirazioni più estreme per una completa indipendenza piuttosto che da un’autonomia. Tuttavia altre fonti che sanno dei colloqui affermano che fintanto che Yingluck sarà incapace di dimostrare sincerità sui negoziati e garantire nel contempo di aver autorità civile sui potenti militari, il movimento non verrà mai avanti coerentemente al tavolo dei negoziati.
Nonostante i proclami di Prayuth che le forze armate operano secondo gli ordini di Yingluck, quella autorità è in dubbio. Mentre il suo governo è forse troppo debole per attrarre le figure separatiste di autorità sul tavolo dei negoziati, la posizione apparente di Thaksin è precisamente quella che la società civile e la comunità internazionale hanno da tempo sperato: un governo che intende porre fine al conflitto prolungato mediante negoziati e con l’introduzione di qualche forma du governo regionale speciale democratico per la regione della minoranza.
Anche se si afferma a Bangkok un impegno unitario ad un accordo negoziato, la letteratura comparata sulla terminazione dei conflitti interni indica che è fortemente dubitabile che un qualunque accordo è destinato a restare. Sin dalla fine della guerra fredda, c’è stata una costante crescita di conflitti interni che finivano con accordi piuttosto che vittorie sul campo. Allo stesso tempo, gli esperti accademici hanno trovato che i conflitti che terminavano con accordi negoziati tendevano ad essere più violenti e più duraturi di quelli terminati mediante azioni militari decisive.
Human Security Brief, centro di ricerca che tiene d’occhio le tendenze globali nei conflitti armati, notano che i conflitti interni finiti con accordi negoziati tendevano a durare tre volte di più di quelli decisi sul piano militare.
Secondo Monica Duffy Toft, esperta di fine di guerre e professore alla Harvard, ha trovato che gli accordi negoziati sono più facili a interrompersi col ritorno alle ostilità delle vittorie militari decisive, notando che nella vittoria il vincitore elimina l’altro oppure gli causa danni al punto tale di rinunciare ai propri obiettivi politici. Queste analisi e la tendenza generale verso gli accordi forse aiuta a spiegare i contrasti tra l’attuale insorgenza nel meridione thailandese e l’insorgenza più debole degli anni tra fine anni 60 e 80. Col sostegno forte da parte degli USA, le forze armate thailandesi ebbero il vantaggio decisivo sui separatisti musulmani malay della prima ora.
Una volta che le forze armate mettevano ai margini i gruppi separatisti mediante misure repressive, il governo offriva amnistie limitate e concessioni politiche. Il governo applicava serie riforme della sicurezza che destabilizzavano i circoli del movimento separatista e ne seguiva una fase di calma relativa, senza però affrontare, se non marginalmente, le iniziali lagnanze che alimentavano la resistenza musulmana malay.
Rispetto a quel contesto dell’insorgenza degli inizi, c’è una pressione più forte a livello internazionale sul governo thai per andare incontro alle lamentele dei Musulmani malay con un qualche accordo, di offrire riforme sostanziali e tenere alti i diritti umani. Inoltre alle forze thai manca lo stesso sostegno USA degli anni della guerra fredda per poter sconfiggere le minacce domestiche. Allo stesso tempo fornendo aiuto a molti gruppi della società civile molti governi e donatori esteri, USA compresi, stanno aiutando un movimento nazionale che preme il governo thailandese affinché introduca riforme sostanziali e negoziati con gli insorti.
Queste dinamiche internazionali hanno giocato un ruolo nello sbilanciare verso l’insorgenza il bilancio dei poteri contribuendo ad un protratto stallo militare. Nel passato decennio, gli esperti di fine delle guerre hanno notato che il cambiamento nelle norme internazionali verso i conflitti interni, compreso la crescita degli sforzi per concludere i conflitti mediante una mediazione esterna, hanno portato alla tendenza generale in cui i conflitti interni non finivano più con vincitori e sconfitti certi.
Per superare lo stallo militare e portare le parti in guerra al tavolo del negoziato, si è tutti d’accordo tra studiosi, giornalisti e attivisti che il nazionalismo duro deve essere stemperato. Dalla parte dello stato, le figure potenti che vedono l’autonomia come un movimento verso la dissoluzione dello stato unitario thailandese hanno bisogno di accettare ideali universali che accettano il pluralismo etnico e il governo speciale regionale. Di contro le aspirazioni pure separatiste per una pura indipendenza devono essere anche mitigate.
Questi nazionalismi in conflitto hanno senza ombra di dubbio impedito i colloqui di pace, ma potrebbero non essere più i punti impossibili che impediscono di portare le parti ad un tavolo dei negoziati. I capi delle forze armate possono continuare a remare contro i negoziati e sono ritenuti essere contro ogni possibile decentralizzazione dell’autorità politica sulla regione. Queste resistenze alle concessioni possono pure avere origine da paure sulla sicurezza piuttosto che dal nazionalismo. Più specificatamente, molti ufficiali delle forze di sicurezza credono necessaria una completa amnistia, mentre la decentralizzazione è inevitabile. Alla luce dello stallo protratto, ci sono certe indicazioni che con riluttanza cominciano ad accettare gli inviti dalla società civile e dalla comunità internazionale. Ma mentre la società civile resta attenta ai vantaggi in positivo di un accordo negoziato, quali il soddisfacimento delle lamentele della minoranza musulmana malay ed una cessazione della violenza, i militari e i corpi della conservazione sono legati agli aspetti in negativo di un simile accordo.
Secondo alcuni ufficiali intervistati, l’amnistia e la decentralizzazione regionale non serviranno da deterrente alla riorganizzazione e al ritorno degli attacchi nel futuro. Dal momento che molti insorti e nazionalisti duri mirano come fine ultimo alla indipendenza e non alla decentralizzazione, ricominceranno le lotte. Inoltre data la natura frazionata dell’insorgenza e la pervasività dei gruppi criminali che hanno interesse a rendere la regione instabile e ingovernabile, ogni accordo alla fine sarebbe compromesso, credono le personalità intervistate.
I protagonisti della società civile e gli analisti pensano in genere che queste paure siano eccessive e che se si garantiscono riforme decentralizzanti sostanziali, la maggioranza della popolazione musulmana malay della regione cambierebbe il proprio sostegno o acquiescenza dall’insorgenza allo stato, tagliando le radici al potenziale ricrescita della violenza legata all’insorgenza.
Gli esperti di conflitti interni comunque fanno notare che i gruppi ribelli o loro frazioni tendono a raggrupparsi di nuovo, riarmarsi e riprendere a combattere anche dopo periodi di smobilitazione comandata dall’accordo, specialmente se si tratta di movimenti armati con grandi divisioni e gruppi coinvolti in conflitti su territorio ed identità piuttosto che quelli che lottano per il controllo del governo centrale, due punti che non vanno bene per la possibilità di pace nel lontano meridione.
Un altro punto che si ritrova nella letteratura dei conflitti interni è che le parti in guerra spesso rifiutano di portare avanti negoziati sinceri, senza la paura che la fazione avversa non onori la propria parte dell’accordo. Mentre gli stati tendono a a fare accodi per le preoccupazioni di una ripresa della mobilitazione dei ribelli e la violenza, i ribelli specie i più deboli sono riluttanti ad accettare un accordo poiché non hanno nessun modo per farne applicare i termini.
Questa è precisamente la ragione per cui gli esperti pongono l’accento sul bisogno di avere una terza parte che abbia il ruolo di mediatore. Nel caso del meridione thailandese il ruolo potenziale per terze parti è limitato poiché i mediatori esterni tendono a giocare un ruolo ristretto in paesi con grandi armate che hanno esperienza nella prevenzione delle minacce interne ed esterne. La Thailandia ha dalla sua uno dei più grandi eserciti della regione con un passato di vittorie contro minacce nazionali, dai vecchi militanti separatisti musulmani all’insorgenza comunista sostenuta dalla Cina, oltre ad essere l’unica nazione ad essere sfuggita alla colonizzazione delle potenze europee.
Gli studiosi hanno generalmente attribuito l’indipendenza del regno alla sua posizione fortunata di stato cuscinetto tra la Birmania controllata dagli inglesi e l’Indocina francese. Ma per molte personalità thai dell’esercito l’aver preservato l’indipendenza nazionale come anche la sconfitta di minacce nazionali allo stato è risultato in larga parte da una capacità intrinseca percepita tra i capi thailandesi ad accettare il compromesso e a negoziare le minacce in nome della sovranità dello stato nazione.
Fino ad un certo punto questo credo nazionalistico aiuta a spiegare le ragioni per cui i capi e del governo e dell’esercito abbiano rifiutato le mediazioni offerte dalla Malesia, Indonesia e Organizzazione della Conferenza Islamica. Alcune organizzazioni internazionali hanno avuto il permesso di lavorare nel lontano meridione ma il loro ruolo di mediatore è stato di fatto limitato.
Tuttavia persino nelle nazioni dove i mediatori di terze parti hanno l’opportunità di giocare un ruolo chiave nel portare al tavolo dei negoziati le parti in guerra e a stabilire i termini di un accordo, devono essere anche capaci di applicare l’accordo, oppure gli accordi tendono a fallire come notato da vari esperti.
Poiché non capita spesso che le terze parti abbiano questa autorità, qualche esperto suggerisce che la riforma del settore della sicurezza, specie la polizia e le forze armate, è vitale dopo un accordo per prevenire il ritorno alle nuove ostilità. Mettere i militari sotto un controllo governativo civile, professionalizzazione delle forze armate e della polizia demilitarizzare e reintegrare forze armate dello stato sono gli elementi chiave di tali riforme che avrebbero bisogno di essere affrontate dopo un possibile accordo nell’inquieto meridione thailandese.
Per precisare tali riforme sono state trascurate dalla società civile che si è dimostrata attenta molto ai diritti umani, alle proteste legate all’identità e ai vantaggi di un governo decentralizzato. Nè la società civile ha richiamato l’attenzione ai modi in cui il governo potrebbe smobilitare ed integrare gli insorgenti. Alla fine, l’acuto conflitto della Thailandia meridionale può giungere al tavolo del negoziato. Richiederà un approccio negoziato da Bangkok che affronti le proteste di lungo tempo che sono state esacerbate negli scorsi otto anni. Ma se non si dà maggiore considerazione alle misure di sicurezza tra tutti quelli che lavorano dietro le scene alla risoluzione del conflitto, una pace duratura è incerta.
Jason Johnson, Asiatimesonline