In Thailandia nessuna pace a 4 mesi dall’apertura dei negoziati tra governo thai e separatisti malay
Il Conflitto nelle province del meridione thailandese, a quattro mesi dall’apertura dei negoziati tra il governo thailandese e i separatisti malay, è divenuto se non altro più violento di prima. Mentre Bangkok mette la sua migliore faccia per un cosiddetto accordo per ridurre la violenza nel mese di digiuno del Ramadan, molti osservatori scommettono su attacchi accresciuti per battere l’ultimo chiodo nella bara di un processo di pace che sta fallendo.
Qualunque cosa succeda nelle prossime settimane, sono probabilmente premature le voci di una fine imminente dei colloqui. Il fatto che sono sopravvissuti per quattro mesi ad attacchi duri della guerriglia indica che entrambe le parti, sebbene con differenti angoli, hanno interesse in un processo che non avrebbe mai potuto portare ad un taglio drastico nella violenza. Come ne sono coscienti entrambe le parti il processo stesso ha segnato una svolta significativa nel confitto.
Per Bangkok l’iniziare i colloqui con il BRN ha significato affrontare pubblicamente la realtà dopo anni di diniego. Il governo ha concesso alla fine che la crisi è alla radice politica e mette lo stato thailandese contro un movimento che cerca almeno un nuovo accordo per le province meridionali a maggioranza malay musulmana, se non una separazione diretta dal regno thailandese.
Ora sono scomparse le voci che per anni hanno confuso gli aspetti secondari del conflitto, come il crimine organizzato, gli ufficiali corrotti e le lotte politiche interne locali, con la causa essenziale: il tentativo fallito di Bangkok di assimilare nella società complessiva una regione etnicamente, linguisticamente, culturalmente e religiosamente differente con un forte senso della propria identità, e la nascita di una organizzazione determinata di insorgenti dedicata a sfruttare questo fallimento.
Secondo, Bangkok ha anche fatto dei passi diplomatici senza precedenti ammettendo che la Malesia, che ha interessi significativi di sicurezza ed economici nelle province tormentate dalla violenza, deve giocare un proprio ruolo in qualunque accordo. Se si considera i sospetti di lunga data all’interno della sicurezza thailandese verso il ruolo di Kuala Lumpur e le ambizioni nel conflitto meridionale, coinvolgere la Malesia come facilitatore al tavolo di pace è stato un passo coraggioso e difficile.
Dall’altro lato della barricata, il BRN, un movimento che per due decenni ha avvolto le sue attività nel culto della clandestinità, è finalmente emersa dall’ombra per mostrare la faccia e le richieste. Il profilo esaltato implica anche un bisogno che BRN riconosca ed interagisca con una società civile musulmana sempre più presente in una regione che afferma di rappresentare.
Comunque aldilà di questi passi inconcepibili virtualmente se non fino a poco tempo fa, i colloqui sono stati segnati da tre problemi fondamentali: un pericoloso sbilancio al tavolo dei negoziati, eccessiva pubblicità ed un ricorso conseguente a richieste massimaliste.
Nel primo caso, è stato chiaro sin dall’inizio che Bangkok ha investito ed è vista investire, molto di più del BRN. Come generalmente riconosciuto a febbraio l’inizio del negoziato è stato spinto fondamentalmente dagli interessi politici ed economici convergenti di due capi nazionali, il premier di fatto Thaksin Shinawatra e il primo ministro malese Najib Razak. Sebbene per differenti ragioni, i due politici erano determinati a dare un inizio forte al processo di pace e, se possibile, delineare un accordo per un conflitto sempre più debilitante e triste.
Il BRN, che la sicurezza Thailandese e la loro controparte malese hanno definito come la forza dietro l’insorgenza, fu tirata con la forza nel processo. Considerati i profondi e consolidati sospetti delle intenzioni thailandesi e malesi e discutibilmente come risultato dell’inerzia politica e militare, le figure fondamentali del comitato esecutivo del movimento, DDP, erano chiaramente scettiche se non opposte all’intesa cordiale Thaksin Najib.
Mentre le differenze di politica e di personalità a Bangkok sono ben conosciute, le divisioni nel DPP sono opache. Quello che è chiaro, secondo separatisti anziani e fonti militari thailandesi, è che la delegazione thailandese, guidata dal segretario del NSC generale Paradorn, si era inizialmente attesa che la Branca di Polizia speciale Malese avrebbe prodotto, nel loro ruolo di facilitatori in ombra, due figure centrali del BRN per la procedura di firma di febbraio.
Uno era Sapae-ing Basor, capo spirituale anziano del movimento, l’altro era Masae Useng, un insegnate religioso addestrato in Indonesia del distretto di Chai Airong che entrò in clandestinità nel 2003 per diventare un coordinatore operativo del BRN che legava il livello del DPP al comandanti in campo.
Forse senza sorprese se si considera il sospetto profondo delle autorità malesi, nel giorno precedente della cerimonia di Kuala Lumpur, entrambi i “principali” del BRN erano assenti lasciando un imbarazzato membro della Branca Speciale della Polizia a presentare Hasan Tajib, membro di tanto tempo del DPP conosciuto per la sua vicinanza con le autorità malesi. Immediatamente Hasan, affiancato dal suo vecchio segretario Awang Jabat ed un altro membro secondario, nessuno conosciuto per essere vicini al DPP, si trovò ad essere il volto pubblico del BRN.
Che egli abbia mantenuto per oltre quattro mesi quel ruolo è derivato da dei fattori che vanno oltre la confidenza della polizia speciale nella loro disponibilità. La prima è che le potenti figure nel DPP lo hanno trovato utile nel dare la distanza che essi vogliono mantenere dalle telecamere e dai thailandesi. La seconda è che uomini più giovani e radicali dell’ala giovanile del BRN con legami certi alle operazioni, come Abdul Karim Khalib, sono stati legati al processo per dare una misura di controllo e supervisione. Le obiezioni ripetute spesso per cui Hasan non esercita controllo sul campo è davvero accusato abbastanza ma irrilevante: il suo ruolo è quello di un portavoce adatto, non uno che deve prendere decisioni o di comandante in capo.
La natura controllata della partecipazione del BRN nei colloqui ha comunque iniettato uno sbilancio fondamentale nel processo. Mentre il governo ha investito considerevole capitale politico e diplomatico in una impresa di alto profilo e intrinsecamente rischiosa, il BRN ha molto meno da perdere da un crollo dei negoziati. E i duri del movimento possono essere a ragione sicuri che se il team thailandese dovesse andarsene dai colloqui, per due semplici ragioni avrebbe bisogno di ritornare al tavolo delle trattative.
Da un lato Bangkok è militarmente e politicamente in una brutta posizione. In dieci anni di operazioni militari le forze di sicurezza sono riusciti solo a contenere il conflitto; la soppressione dell’insorgenza non è neanche all’orizzonte. Nel frattempo il BRN accresce il conto dei morti militari mentre beneficia dall’osservare i dibattiti aperti nei forum della società civile sulle virtù relative dell’autonomia e dell’indipendenza, Merdeka. Inimmaginabile fino a soli tre anni fa ed ingigantiti dall’uso dei social media, tali discorsi pubblici trasformano effettivamente lo sfondo politico in lotta militare.
Secondo, l’opzione secondaria di Bangkok emersa di recente di parlare ad “altri gruppi” è di gran luga aria fritta. Significativamente gli altri gruppi non sono stati mai nominati e per una buona ragione: in termini di organizzazioni separatiste con un comando politico più o meno coerente con un ragionevole controllo sul terreno, il BRN è per tutte le sue ambiguità il solo giocatore. Per questo il governo Thai ha cercato un accordo con lui in primo luogo.
Senza sorprese l’imbarazzo di Bangkok ha incoraggiato le richieste massimaliste del BRN, poste la prima volta nelle richieste di cinque punti fatte conoscere via YouTube il 28 aprile prima del secondo giro di negoziati e poi con le condizioni da sette punti per la sospensione delle attività ostili nel Ramadan. Includendo le richieste di una dismissione dei mandati di arresto e il ritiro di grandi numeri di forze di sicurezza dalla regione, è apparso a molti quasi un calcolato siluro all’intero processo.
Ad un livello Youtube ha dato a BRN una piattaforma per presentarsi come movimento di liberazione anticoloniale, sia per la sua zona malay musulmana nelle province meridionali e per la regione. Più importante le richieste stravaganti del BRN sono anche intese ad assicurare le truppe e i sostenitori sul terreno che una svendita politica nel conforto dell’aria condizionata non è nelle carte. Questo parla direttamente tra l’ala del movimento politico e chi lotta sul campo, un elemento fondamentale nell’equazione meridionale.
Per anni questa relazione è stata con persistenza interpretata male come una dinamica in cui la vecchia guardia dei vecchi capi separatisti attivi negli anni 70 e 80 ed ora residente in Malesia ha tentato di reinterpretarsi e ottenere posizione e denaro legandosi alla lotta di “una nuova generazione” di giovani arrabbiati nel meridione thailandese. Questa dicotomia semplicistica è sempre stata falsa per ovvie ragioni.
La lotta delle giovani ragioni, in primo luogo, non è spuntata come un cocomero o dal nulla il gennaio 2004, quanto è emersa da un decennio, e in un passato di nove anni di conflitto è stata sostenuta, di pianificazione e preparazione politica e militare. Tra i primi anni 90 e i primi del 2000 questo processo ha messo un moto una struttura clandestina di comitati politici, rete di reclutamento, gruppi militari e sistemi di addestramento, ed era il lavoro di un’organizzazione che implementava una strategia disegnata quando molti della generazione nuova erano o piccolini o non erano neanche nati.
Come ha compreso bene il servizio segreto thailandese sin dal 2007, quell’organizzazione era il BRN Coordinate, una fazione del BRN che in seguito ad una divisione del 1997 ritornò al lavoro politico attraverso la rete delle scuole islamiche dove il partito aveva le sue radici. La fazione rivale che perseguiva una strategia militare basata sulla giungla si era di gran lunga sfinita a metà degli anni 90, sebbene molti dei suoi si unirono alla campagna in crescita del BRN C in quello che oggi è vista come un movimento riunito.
In secondo luogo, la presunta divisione generazionale tra la vecchia guardia e la nuova generazione ha semplicemente delineato una generazione di mezza età di operativi politici e militari. Importanti in ogni insorgenza tali operazioni coordinate di compagni, organizzano la rete del sostegno logistico e i programmi di addestramento, e fanno da collegamento tra capi politici e comandanti in campo.
Nel contesto thailandese, molti hanno giocato ruoli importanti sia nella fase preparatoria clandestina dell’insorgenza e più recentemente nella lotta di fatto. L’esempio più chiaro di tale militante è forse Masae Useng. Ora avrà cinquantanni e un organizzatore fondamentale di Narathiwat prima dell’inizio della lotta armata, è riconosciuto non essere un membro del DPP ma coordina i vecchi capi politici e i comandi a livello di provincia, molti dei quali dell’età di 40 anni.
In terzo luogo, la dicotomia tra la vecchia guardia in Malesia e la nuova generazione in Thailandia è anche sbagliata. Per ragioni che hanno a che fare con la manipolazione del governo malese sul movimento di Pattani negli anni 80 e 90, il BRN C ha sottolineato l’importanza di radicare la lotta dentro la Thailandia.
Fino alla sua fuga nel 2004 Sapaeing Basor risiedeva in Thailandia e se si devono credere le fonti thailandesi giocò un ruolo guida nel lavoro organizzativo dalla sua posizione come preside della scuola Thamm Wittaya a Yala, un luogo di formazione di una generazione di docenti religiosi legati al BRN, talvolta addestrati in Indonesia. Mentre lui è in Indonesia o Malesia, è probabile che ci siano altri capi che operano in Thailandia e niente affatto in pensione.
Una cattiva concezione collegata che complica l’analisi del conflitto è stata l’idea che l’insorgenza opera come un’agglomerazione non stretta di celle locali quasi indipendenti. Fatti certi smentiscono questa interpretazione dell’insorgenza. Il movimento costante di armi e personale tra distretti e province, operazioni coordinate regolari e rete di sostegno ben sviluppato a cavallo delle frontiere riflettono una capacità di comunicazione a livello regionale e un controllo e comando a livello strategico.
Allo stesso tempo, come in tante altre insorgenze ci sono divisioni senza dubbio sul terreno che sono diffuse geograficamente e costantemente soggette a tradimenti, arresti, morti e capi politici che lavorano nel conforto in Malesia o Thailandia. Data la realtà imposta dalla geografia e dalla funzione, un comando politico che si pregia della sua intransigenza ideologica non può permettersi una percezione a livello di base che è per strada una svendita col denaro di Thaksin e col le blandizie del governo.
Questo è ancora più importante se si considera che l’accordo originario firmato da Hasan e Paradorn il 28 febbraio stipulava che i colloqui sarebbero avvenuti all’interno della costituzione thailandese. La Clausola, su cui Bangkok insiste ma che è un’anatema per il corpo del BRN, ha fatto suscitare paure di una svendita.
Come risultato i colloqui sono stati preceduti in varie occasioni da annunci via Youtube miranti a inviare richieste estreme e a stabilire una misura di trasparenza. La richiesta di osservatori di organizzazioni non governative e dell’OIC sembrano essere state parte di sforzi per rassicurare gli operativi sul terreno che la trasparenza è o almeno dovrebbe essere all’ordine del giorno.
Le richieste su Youtube sono state usate per ritornare indietro da posizioni conciliatorie. Ai più recenti colloqui del 13 giugno, Hasan ha accettato di esplorare la possibilità do una riduzione di violenza nel Ramadan. Spinto dal governo l’accordo è stato subito tradotto in un media locale come una promessa del BRN di ridurre o persino sospendere la violenza nel Ramadan. Giorni dopo Hasan tornava su youtube stendendo le famose posizioni oltranziste per una riduzione nella violenza.
La natura pubblica dei colloqui e l mischia dei media intorno ha posto pressione verso le richieste ugualmente massimaliste del governo. Ora sempre alla luce dei media Paradorn e i suoi colleghi non possono permettersi di sembrare indifferenti alle richieste dei civili della regione che soffrono da così tanto. Infatti hanno tentanto neanche troppo sottilmente di usarli come leva contro il BRN con richieste di una chiara riduzione della violenza insorgente, idealmente dovunque nella regione e istantaneamente. Tali richieste, comunque, puntano direttamente alla verità scomoda che la violenza è sia l’arma che un mezzo di scambio del BRN. Senza violenza oggi non condividerebbe un tavolo con il top della sicurezza della Thailandia e l’identità Patani malay della regione sarebbe stata da tempo seppellita nella frase ufficiale che prende tutto di Musulmani thailandesi. Come ha detto di recente una personalità dell’insorgenza: “Credimi: non appena riduciamo le bombe il governo sarà meno propenso al compromesso”.
Il ferito principale del processo attuale di alto profilo e del massimalismo insistente che ha incoraggiato entrambi i lati è stato il solo meccanismo che la risoluzione del conflitto al mondo ha provato essere il migliore approccio negli stadi iniziali: le misure di costruzione della fiducia (CMB). Il CMB, di solito passo di basso profilo, piccolo seguito da ulteriori passi, non è necessariamente inteso a ridurre se non proprio a porre fine alla violenza. Piuttosto mira a forgiare una fiducia reciproca dopo decenni di ostilità e dovrebbe essere fondamentale per ogni dialogo mirato a svilupparsi in sostanziali negoziati.
Il chiaro fallimento di implementare ogni significativa misura di fiducia parla dei fallimenti di entrambe le parti del processo. Per il BRN che non mantiene un prigioniero che potrebbe rilasciare, una CBM necessariamente richiede il calibrare la violenza, come distinto dall’interromperla. In ogni insorgenza nelle campagne questo è difficile da organizzare data la natura delle linee degli insorti del comando e del controllo, che sono di gran lunga più fluide di quelle delle armate regolari.
Dal versante thailandese, le misure di fiducia richiedono il coraggio politico, come pure il coordinamento tra i corpi civili e militari. Infatti la recente diatriba di chi guida il NSC, seguita dai discorsi pubblici dell’ex ministro alla sicurezza interna Chalerm contro il capo della SBPAC Thawee Sodsong, ha solo sottolineato la natura dolorosamente personalizzata e spesso faziosa della presa di decisione dal lato del governo.
La chiara assenza di un mediatore potrebbe essere un fattore dietro la mancanza di misure di fiducia. Una terza parte imparziale, che goda della fiducia di entrambe le parti, che possa in modo positivo suggerire alle parti in guerra iniziative da prendere in considerazione, un mediatore è una cosa molto differente da un facilitatore. Questo è particolarmente così quando il facilitatore è la Malesia, una parte interessata di cui nessuno dei due interamente si fida.
Nei colloqui tenuti dal 2005 al 2011 che coinvolgevano NSC thailandese e l’esercito da una parte e BRN e PULO dall’altra, quel ruolo fu giocato da una ONG europea, Humanitarian Dialogue Centre. Il processo di basso profilo guidato da HDC fu vittima dell’approccio alla risoluzione del conflitto di Thaksin da passeggiata ma resta ovvio il bisogno di un mediatore imparziale.
Cosa potrebbe comportare la costruzione di misure di fiducia (CBM)? Una possibilità provata con un certo successo nel giugno luglio del 2010 è un cessate il fuoco limitato: una cessazione delle attività offensive condivisa ma non dichiarata confinata in un’area specifica, non meno di tre quattro distretti, e per un periodo di tempo limitato, uno o due mesi. Dal lato dell’insorgenza un accordo coprirebbe operazioni a livello di unità come bombe, imboscate e assalti, ma lascia fuori l’area cattiva degli omicidi con obiettivo, dove sono coinvolti vari attori. Le forze di sicurezza da parte loro sospenderebbero le incursioni mirate che di fatto rappresentano la massima espressione delle operazioni di controinsorgenza.
Ci sono passi dove Bangkok, che ha più da perdere da un collasso dei colloqui e più opzioni a sua disposizione, potrebbe prendere l’iniziativa.
Il rilascio in silenzio di qualcuno del cosiddetto gruppo dei “Quattro del PULO”, capi dell’insorgenza del PULO consegnati alla Thailandia dalle autorità malesi nel 1998 ed ora poco rilevanti a livello operativo. Questa richiesta era stata richiesta dal BRN all’inizio dei colloqui come misura di fiducia.
Una riduzione del numero di distretti soggetti alla controversa legge dell’emergenza che ha mancato di ridurre la violenza e potrebbe comunque essere reimposta nel caso di un deterioramento improvviso della sicurezza nell’area dove è stata sospesa. Dopo tante discussione il decreto dell’emergenza si applica su 32 distretti su 37 affetti dall’insorgenza.
Una zonizzazione della vendita di alcolici e di zone commerciali come bar e tane del karaoke che da sempre sono un affronto per la sensibilità musulmana nella zona.
Senza alcuna misura di fiducia all’orizzonte le prospettive nelle prossime settimane si fanno brutte. Gli appelli totalmente irrealistici di un Ramadan senza violenza da parte Thailandese e le richieste del BRN di un ritiro dei militari nelle caserme dalla regione sembra aver preparato lo spazio per un fallimento.
Questa situazione è stata ulteriormente aggravata della confusione su quale accordo sia stato o meno raggiunto prima del ramadan, quando il generale Paradorn ha proposto un “arrangiamento delle truppe” mirato ad abbassare la visibilità delle operazioni militari mentre si spingono la polizia e i volontari in prima linea. La cancellazione improvvisa della conferenza di Kuala Lumpur prevista per il 9 luglio sembrava puntare alle perenni difficoltà malesi nel tener testa al movimento separatista.
Se, come sembra probabile, il mese di digiuno porterà violenza come solito, ci sarà pressione su Bangkok ad abbandonare i colloqui. Accettare quella pressione segnerebbe un grande sconfitta e una mancanza di attacchi orrendi durante quel mese fa assumere ragionevolmente che il dialogo riprenderà dopo il Ramadan.
Avrebbe senso allora per entrambe le parti, che ora dovrebbero avere un’idea più chiara dei rispettivi obiettivi e limiti, di risettare il processo. Con o senza mediatore, potrebbe includere uno spostamento verso un gruppo di lavoro di basso profilo che discuta di misure di fiducia utili mentre si eliminano le sedute plenarie e i caroselli mediatici che li circondano.
Resta tutto lì una differenza enorme tra la visione del BRN dell’indipendenza e le speranze a Bangkok di accordo raggiungibile senza una riforma reale del modo centralizzato con cui è governato il regno. Raccordare queste differenze richiederà anni con probabili rafforzamenti del conflitto piuttosto che una sua riduzione. Persino contro questa prospettiva i quattro mesi passati hanno mostrato che una conversazione mirata ad esplorare un terreno di mezzo è possibile. L’ostacolo è un processo di alto profilo che incoraggi le aspettative enormi e gonfiate di una pace domani.
Anthony Davis, AsiaTimesOnline