Molto della ricchezza regionale è legata a quello che accadrà ai negoziati di commercio multilaterale benché non siano una cosa che fa pulsare il sangue nelle vene.
Si consideri il TPP, Trans Pacific Partnership, con dodici nazioni differenti che si incontrano in Brunei dal 23 al 30 agosto per la diciannovesima volta e la sola notizia nuova, dopo sforzi durati una settimana, è che hanno ancora una volta rimandato tutto.
Non ci sarà un patto tra i capi di stato da firmare ad ottobre. Non è un cattivo segno se si è un commerciante? Ed un buon segno se si è protezionisti o uno do quelli che crede che la globalizzazione è un parola sporca? O è solo la prova che i governi che presiedono al 40% della ricchezza del pianeta si prenderanno tutto il tempo che ci vuole per comprendere bene quello che Washington intende per il primo accordo di commercio mondiale del 21° secolo?
Queste dodici nazioni sono un muchio strano e asimmetrico di paesi. Chile, Perù e Messico da un parte; Usa e Canada; poi Singapore, Malesia, Brunei e Vietnam. Poi Nuova Zelanda e Australia. Ed ora anche il Giappone ma non Corea o Cina. I dodici si sono impegnati, si dice, perché il solo modo per convincere Washington in particolare ad aprire del tutto i suoi mercati ai beni che loro producono è di accomodare le richieste delle imprese americane ad alta intensità di conoscenza, come il sistema bancario, le assicurazioni, finanza, telecomunicazioni, farmaceutica, intrattenimento, di avere accesso uguale ai mercati esteri e rispettare la proprietà intellettuale.
Queste sono cose complicate e davvero arcane che non ha impedito agli analisti di politica di provare a spiegarlo.
Un altro modo di comprendere le possibilità inerenti al TPP è di esaminare i negoziati da una prospettiva nazionale, come quella del Vietnam. Perché una nazione che non è del tutto fuori della povertà aspirare a correre con i grandi?
Per alcuni analisti per il Vietnam è tutta una questione di prodotti tessili e scarpe. Da quando il Vietnam a buttato il socialismo alle ortiche 25 anni fa, si è ricavata una nicchia agguerrita come fornitore di tessuti, scarpe di atletica e roba simile per il mercato americano.
Sono imprese ad alta intensità di lavoro che corrispondono al 20% delle esportazioni vietnamite totali. Cominciarono negli anni 90 poiché sotto le quote USA e europee allora in opera le esportazioni di articoli simili cinesi erano impedite. Alcune operazioni di assemblaggio furono spostate in Vietnam per trarre vantaggio di questa quota. Queste furono i primi impianti industriali dell’industrializzazione vietnamita dedicata alle esportazioni. Si fecero così efficienti da sopravvivere al regime delle quote guadagnandosi fette di mercato.
Alcuni anni fa il Vietnam fu apostrofato come “la prossima Cina”. La manifattura degli indumenti e scarpe a Guangdong si spostavano in massa in Vietnam, si diceva, attirata dal costo del lavoro che era il 30% di quello cinese. Non accadde. Per tagliare e cucire si scoprì che la Cambogia ed il Bangladesh ed ora la Birmania erano ancora più economici. Per tutto i lresto la Cina divenne più efficiente.
La manifattura a contratto vietnamita si trova sotto forti pressioni per tenere basso le paghe. I lavoratori domandano paghe migliori, mentre poche industrie si possono permettere di investire i macchinari efficienti. Per loro il TPP sembra una zattera di salvataggio. Hanoi vede un’opportunità straordinaria di espandere la sua quota del mercato illimitato americano per robe sportive a spese della Cina, cioè se Washington coopera.
I negoziatori americani vorrebbero poter essere di aiuto. K-Mart e Wal-Mart, Nike e Levi Strauss ed altre marche che si creano la loro merce all’estero vogliono che li aiutino. Le compagnie che invece ancora lavorano il cotone in USA no e pongono enormi pressioni su Washington per preservare un sistema definito “fila in avanti” e mantengono la protezione delle tariffe per l’industria dell’abbigliamento americana che ora si basa sul 17% di beni vietnamiti. Su un percorso parallelo le ultime fabbriche di scarpe americane premono per la continuazione delle tariffe di importazione che vanno da 11 al 70%.
La dottrina del “fila in avanti” richiede che ogni passo nella manifattura abbia sede in USA o con un partner di commercio favorito che se TPP va avanti potrebbe essere il Vietnam o un altro membro. Persino la più piccola quantità che non sia di questo tipo renderebbe impossibile al prodotto essere esonerato dalle tariffe. Questa richiesta distruggerebbe le catene di valore che forniscono gli impianti di assemblaggio sul Delta del Fiume rosso e attorno a Ho Chi Minh City che lavorano con prodotti cinesi. I negoziatori vietnamiti hanno protestato dicendo che la dottrina del Fila in avanti impedisce gli accordi. Sembra che abbiano convinto Washington ad una promessa di un periodo di aggiustamento di tre anni. E che se il Vietnam è agile, è tutto quello che serve per mangiarsi Guandong.
In questo scenario ironicamente non saranno i filatori americani a guadagnarsi quanto piuttosto gli industriali di Taiwan, Coreani e cinesi che correrebbero a ricollocare quei filati, tessuti bottoni nel Vietnam, col benestare dei clienti americani. Questo sarebbe un immenso aumento nei guadagni delle esportazioni del Vietnam. Nel 2025 prevede Peterson Institute, il Vietnam sarebbe più ricco del 14% rispetto allo starne fuori del TPP. Se anche la Cina non dovesse entrare nel TPP, cosa di prospettiva non vicina ma neanche impensabile. Basti dire che gli analisti di commercio sono d’accordo nel dir che tra i dodici paesi ora al negoziato, il Vietnam sarebbe quello a guadagnarci di più dalla formazione del TPP.
Gli analisti ammettono che il Vietnam è ben accetto proprio perché non è la Cina. La Cina non accetterebbe i regolamenti integrali al patto del XXI secolo: un campo di gioco unico per le entità straniere e domestiche, applicazione rigorosa dei diritti di proprietà intellettuale, sindacati autonomi, il diritto dell’investitore estero di forzare un arbitrato obbligatorio da parte di un gruppo internazionale su Pechino se crede che si propri diritti non sono stati rispettati.
Alcuni pensano che il TPP come il resto della strategia americana miri a contenere la nuova superpotenza boriosamente in ascesa. Una spiegazione più sottile è possibile anche: che col Vietnam come amico docile Washington miri a mostrare a Pechino cosa sarebbe possibile se scegliesse la cooperazione piuttosto che il confronto.
Comunque sia ci sono ragioni per domandarsi se il Vietnam non dovesse calpestare quelle regole, se è davvero politicamente o burocraticamente capace di creare un unico livello per gli investitori esteri.
Il sistema di impresa vietnamita è libero a metà e ci sono frizioni. Per due decenni riformatori economici e politici sono stati in opposizione. Insieme ad un settore privato dinamico ed orientato all’esportazione, un’impresa statale domina ancora l’economia interna del paese. Impegna il 60% delle energie del paese ma produce solo il 40% delle ricchezze. Con l’appoggio della Banca Mondiale e della ADB, i riformatori aspirano a rompere e privatizzare il settore statale ma sono stati regolarmente repressi da un’alleanza stretta tra pubblici ufficiali e i loro amici nel settore dell’impresa di stato.
Alcuni pensano che il Primo ministro Nguyen Tan Dung e il suo governo vogliano portare il paese nel TPP poiché offre un modo di aggirare la fazione dello status quo del Partito Comunista e costringere un cambiamento sulle istituzioni reistenti al cambiamento. Potrebbe essere, e non sarà facile. Insieme al prezzo di ammissione al TPP ci sono impegni che sarebbero molto duri da dare. Eccone alcuni.
Un terreno di gioco adatto agli investitori stranieri. Hanoi dovrebbe smettere di dare alle imprese statali accesso preferito al capitale delle banche, un finanziamento al di sotto del tasso di mercato, trattamento favorevole sulle tasse, iniezione di capitali, ed altri vantaggi che mettono le imprese estere in svantaggio nella competizione.
Tagliare le tariffe che ora si aggirano dal 10% a zero per i beni dei partner del TPP. Vigorosa applicazione dei diritti intellettuali. Le imprese vietnamite copiano allegramente rivendendo quello che loro aggrada, mentre le leggi sulla protezione dei diritti e delle patenti restano lettera morta, danneggiando musica, TV, software e prodotti farmaceutici.
Autonomia per i sindacati. I sindacati vietnamiti e altre associazioni civili sono strumento del controllo statale. Diritto a contratto collettivo e allo sciopero sono circoscritti. TPP comunque richiede che i membri adottino gli standard liberali del Sindacato Mondiale.
Protezione dell’Ambiente che richiede la fine del traffico di specie in via di estinzione.
Dispute tra impresa e stato. La bozza del TPP permetterebbe alle imprese estere che credono che le azioni del governo, persino con standard di salute o ambientali migliorati, abbiano danneggiato la loro posizione competitiva di chiedere l’arbitrato internazionale. L’Australia è ferma contro questa possibilità e quindi potrebbe non esserci nell’accordo finale.
Rispetto dei diritti umani. Oltre alla libertà di organizzazione e di sciopero il TPP non affronterà le pratiche dei diritti umani. Cionondimeno un gruppo crescente negli USA hanno cominciato a veder male come Hanoi tratta i dissidenti ed è probabile che ponga limiti sulla libertà di parola per opporsi alla ratifica del TPP o per escludere il Vietnam.
Sei anni fa, l’ammissione del Vietnam al WTO fu preso come un passaggio che avrebbe assicurato il successo competitivo del Vietnam nell’economia globale. Non andò proprio così. L’atteso tsunami di investimenti esteri si materializzò ma troppo dell’influsso di denaro era guidato su avventure speculative.
Diopo due scoppi brutti inflattivi ed un vano tentativo di mantenere i tassi di crescita sotto la recessione globale, nuovi investimenti esteri si sono asciugati e l’economia del paese era a terra. Il governo alla fine nel 2011 ha ristretto il credito evitando altri fallimenti ma mettendo alla fame il settore privato dei fondi necessari per approfittare della ripresa mondiale. Ora i capitalisti nazionali senza capitali ancora lottano mentre ironicamente il settore degli investimenti stranieri scoppia di salute.
Quindi oltre ad aver a che fare con le resistenze degli elementi da status quo dentro il regime il governo di Dung deve anche combattere lo scetticismo che il TPP richiederà la fatturazione. La maggior parte degli economisti vietnamiti sarebbero felici di vedere le riforme che il patto costringerà ma dubitano sulla loro materializzazione. Allo stesso tempo ben consci delle barriere messe su dagli americani per limitare le importazioni di pescato vietnamita, si domandano se Washington in particolare onorerà il proprio impegno all’apertura del mercato.
Indipendentemente dai dubbi, sembra come se Hanoi sia impegnata ad andar avanti. I commenti nei media di regime riconoscono la sfida ma esprimono ottimismo. “L’accordo del TPP è un buon campo di gioco per economie come la nostra per innalzare lo sviluppo nei settori chiave come manifattura, scarpe e prodotti agricoli.” dice Voice Of Vietnam “Dopo che entriamo nell’accordo ci sarà un forte influsso di beni esteri e investimenti diretti in Vietnam dando alla nazione quell’impeto fresco ad una crescita più forte.” Ed in tanti sperano anche nelle riforme.
David Brown, http://kerrycollison.blogspot.it/