La Thailandia non è nuova alla turbolenza politica ma l’attuale crisi sembra destinata a procrastinarsi e diventare amara, con la reale possibilità di una guerra civile.
Sembra essersi già fissato il luogo per un confronto tra le forza antigovernative, sostenuti da potentati economici ben precisi, ed un governo fallace ma eletto democraticamente che gode del sostegno di massa specialmente nelle sue zone rurali. E’ un conflitto che si combatte tra frazioni rivali della elite ma anche tra classi, fronti etnici e regionali. Predire il futuro è futile ma sembrano inevitabili più proteste di massa e sangue per le strade.
Nei due mesi passati migliaia di manifestanti, se non centinaia di migliaia, sono scesi nelle strade della capitale per chiedere meno democrazia e la caduta del governo del primo ministro Yingluck Shinawatra che affermano è illegittimo e guidato dal fratello maggiore Thaksin, rovesciato da un golpe militare nel 2006 ed ora in esilio a Dubai per fuggire alla condanna a due anni di carcere per abuso di potere.
A sostenere i manifestanti vi è il Partito Democratico, senza influenza e col nome errato, che ha abdicato al proprio ruolo di opposizione responsabile annunciando che boicotterà le elezioni anticipate indette per il 2 Febbraio. Sapendo che perderebbe ancora le prossime elezioni ha voltato le spalle alla democrazia. “L’opposizione è stata incapace di competere nel gioco elettorale e quindi ha scelto di giocare la carta della politica delle folle e provocare una violenza nella speranza di abbattere il governo” sostiene il docente dell’Università di Kyoto Pavin Chachavolpongpun che aggiunge come il governo sia descritto dai capi della protesta come “un regime malvagio per legittimare le proprie irragionevoli richieste e comportamenti”.
I manifestanti provengono dalla classe media di Bangkok e della elite ricca, ma anche dalle zone forti dell’opposizione nel meridione del paese, che si riferiscono alla più povera base elettorale del governo come degli ignoranti, male informati e corruttibili capaci di vendere il voto al maggior offerente. Frustrati dall’impossibilità di vincere le elezioni affermano che il paese non è pronto per la democrazia. La loro retorica piena di odio contribuisce a creare un’atmosfera in cui molti Thailandesi si chiedono del valore del suffragio universale e del principio di un una persona un voto.
Il capo della protesta è Suthep Thaugsuban, già primo ministro sotto il governo del partito democratico, accusato di omicidio per il suo ruolo come ministro nella repressione violenta del maggio 2010 delle manifestazioni antigovernative, ed ora si trova dall’altro lato della barricata. Le sue richieste di abbattere il governo, di sospendere la democrazia elettorale e di un governo nominato da un consiglio di gente buona hanno spinto molti commentatori a definire i suoi obiettivi fascisti. Suthep è un politico con un passato ombroso con accuse di corruzione ma è salutato dai sostenitori per la sua promessa di difesa della monarchia, di affrontar la corruzione e di ripulire il governo. Nonostante un mandato di arresto per insurrezione, ogni giorno lancia i suoi strali contro il regime di Thaksin dai palchi della pr4otesta, impegnandosi a sabotare le elezioni e fermarle finché non siano implementate delle riforme legali, politiche e burocratiche finora del tutto vaghe.
I manifestanti si sono scontrati con la polizia quando hanno provato ad invadere lo stadio dove si tenevano i preparativi delle elezioni il 26 dicembre, ed hanno bloccato in sei province meridionali la registrazione dei candidati. Un manifestante e due poliziotti sono morti alla fine di dicembre a causa di gente non identificata che entrambe le parti affermano facciano parte di una “terza mano” o agenti provocatori.
Nelle regioni che sostengono il governo, nord e nordest, milioni di elettori del governo sono pieni di rabbia per quello che definiscono come un altro tentativo della elite di Bangkok di abbattere il governo per cui loro hanno votato ed eletto.
Le proteste attuali scoppiarono a novembre quando il governo maldestramente ha provato a far approvare una legge di amnistia che avrebbe assolto migliaia di persone accusate di crimini legati alla politica dal 2003 e il 2011. Questo avrebbe aperto la strada al ritorno di Thaksin, figura fortemente polarizzante, odiato dagli oppositori e amato dai suoi sostenitori.
Human Rights Watch descriveva Thaksin come “un violatore della peggior specie dei diritti umani” ed è stato accusato di corruzione e nepotismo, eppure attrae in tante parti del paese una forte lealtà per aver fatto politiche di cui hanno beneficiato i poveri delle campagne.
Thaksin era un poliziotto diventato poi industriale delle telecomunicazioni che giunse al potere nel 2001dinostrando di essere un politico astuto. Si è avvantaggiato di vasti cambiamenti sociali facendo appello agli elettori delle province sempre più ricchi e più istruiti in regioni che fino ad allora esrano state negate dai governi di Bangkok. Il suo governo introdusse politiche ben accolte che sostenevano la il sistema sanitario, i finanziamenti dei villaggi e il micro-credito, misure che l’opposizione ha definito populiste atte a comprarsi l’elettorato.
Ma le sue maniere cattive e la volontà a cambiare lo status quo gli hanno creato vari nemici nella elite di Bangkok che ha forti legami col palazzo, con i settori degli affari e varie personalità dell’esercito. Era visto come una minaccia alla monarchia e alle basi tradizionali di potere e privilegi. In seguito a manifestazioni di massa simili alle attuali nel 2006 le forze armatelanciarono un golpe contro di lui, ben accetto da tanti nella capitale.
Nonostante gli sforzi migliori della elite, dei militari, della magistratura politicizzata e il meridione del paese, la popolazione thailandese continua ad eleggere al governo i partiti sostenuti da Thaksin che in vari modi hanno vinto le lezioni precedenti grazie al sostegno nelle zone popolose del nord e nordest.
I duri realisti, i democratici nazionalisti continuano ad andare bene a Bangkok e nel meridione, ma non vincono un’elezione dal 1992 benché abbiano guidato una coalizione tra il 2008 e il 2011 in seguito ad una controversa decisione della corte costituzionale che sciolse il partito di Thaksin. Sembra abbiano gettato la spugna.
Sullo sfondo c’è qualcosa di cui non si parla ed è la prossima successione al trono. L’attuale re Bhumibol, riverito e considerato un semidio, il capo di stato più longevo al potere, ha 86 anni e si trova in precarie condizioni di salute. Il suo erede designato, Principe Vajiralongkorn ha di fronte un compito molto arduo per “guadagnarsi l’autorità morale ed il potere sacro di cui gode il padre” come dice Pavin. La grande maggioranza dei Thai non ha avuto altro regno che quello di Bhumibol, e nell’avvicinarsi dell’inevitabile parte della società specie di quella che gode della vicinanza al palazzo è afferrata da un forte senso di ansia da fine del regno.
Se si combina questa ansia con la paura ed il pregiudizio atavico contro la massa rurale “ignorante, priva di istruzione”, si produce una forte retorica antigovernativa, molto spesso fortemente offensiva che appare sui palchi della protesta. “Di fronte al trauma della successione prossima, tanti della élite e della classe media si rifugiano nella superstizione e nel culto di una monarchia idealizzata” sostiene Andrew MacGregor Marshall, giornalista britannico “Sono diventati pericolosamente fanatici. La paura li ha portati nella pazzia e nell’odio”. Lo stesso Marshall vive all’estero per evitare l’accusa di Lesa Maestà che impedisce ogni critica alla famiglia reale creando un effetto raggelante sulla libertà di espressione nella Terra dei Sorrisi. Ogni critica alla monarchia è tabù ed i giornalisti di stanza in Thailandia devono praticare l’autocensura per evitare la minaccia moto reale di andare in prigione.
Pravit Rojanaphruk, uno dei pochi giornalisti thailandesi che hanno osato parlare su questa questione dice: “La lesa maestà impedisce ai giornalisti thailandesi di prendere in considerazione in modo critico il ruolo fondamentale della monarchia nella società thailandese. Le nostre analisi sono costrette e diminuite”
Questa legge è stata usata sia dai democratici che da Partito Puea Thai come uno strumento di attacco all’opponente, e tanti siti web che criticano la monarchia sono stati bloccati. Lo scorso mese un uomo è stato incarcerato sulla base di varie accuse, tra le quali c’è una cosa che non ha precedenti: l’uomo provava a commettere il crimine di lesa maestà dopo che sul suo computer era stato identificato del materiale che sembrava insultare la famiglia reale.
L’attuale turbolenza politica per le strade di Bangkok deve essere letto contro questo quadro di paura e di odio, mentre le fazioni lottano per il potere.
Le attuali proteste mettono in luce una atavica sfiducia reciproca tra la capitale ricca e le regioni, specie quelle popolose del nordest, l’Isaan, dove ci sono 20 milioni di persone. Moltissime sono di etnia lao e parlano un dialetto Lao, con legami sempre più deboli con il vicino Laos.
L’Isaan fornisce tanti lavoratori delle costruzioni, tassisti, cameriere e altri del settore dei servizi, ma sono considerati cittadini di seconda classe, più poveri e più ignoranti, dal resto degli abitanti di Bangkok. “Hanno una mentalità molto bassa, non capiscono le cose” dice un uomo di affari di 63 anni che preferirebbe una sospensione delle elezioni “finché la gente non raggiunga i suoi standard”.
Queste visioni paternalistiche si riflettono anche nei media dove “alla gente dell’Isaan è affidata la sfera della commedia, della farsa e la sfera tradizionale dei servi” dice Benedict Anderson.
L’Isaa ha visto una crescita economica impressionante, mentre hanno cominciato a salire i livelli di istruzione, mentre vari studi hanno rifiutato le accuse di compravendita dei voti di solito usati per giustificare la presunta illegittimità dei governi. Un analista americano, Chris Baker, dice: “L’elettorato del settentrione è più ricco, meglio istruito e più esperto alle elezioni di prima. In verità il problema non è che gli elettori del nord non sanno usare il proprio diritto di voto, e che il risultato elettorale è macchiato dalla compravendita dei voti e dal patronato. Il problema è che hanno imparato ad usar il proprio voto troppo bene. Oltre cinque elezioni hanno scelto in modo consistente e in modo molto razionale”.
Le settimane prossime sono cruciali nel determinare il futuro del paese. Suthep ha promesso di “prendere Bangkok” con un invito ai suoi sostenitori di chiudere la città il 13 gennaio prossimo.
“Attendete il nostro segnale e portatevi vestiti e alimenti perché lotteremo per mesi fino alla vittoria. Per i fratelli e sorelle a Bangkok, non lasceremo un angolo della capitale perché il regime di Thaksin rimanga e avvantaggiarsi della sua popolazione.” Alle varie televisioni ha chiesto la trasmissione dei suoi messaggi con la minaccia di tagli dell’elettricità e dell’acqua agli uffici governativi e alle case dei ministri.
I capi della protesta sembrano dare il benvenuto al rischio di più violenza e instabilità perché credono che fornirà il pretesto ai militari di intervenire con un golpe che il capo dell’esercito Prayuth ha rifiutato di escludere come possibilità. Negli scorsi due anni il governo Yingluck ha corteggiato assiduamente le forze armate, che rovesciarono suo fratello, ma sembra aver perso la loro fiducia. I militari sono sempre intermediari di potere nel paese che ha visto 18 golpe sin dalla fine della monarchia assoluta nel 1932. Ora sono anche divisi, con tanta truppa con la testa come l’anguria, verde fa fuori e rossa dentro. Secondo alcuni analisti alcuni comandanti sarebbero dalla parte del governo nell’eventualità di un golpe.
Un’altra possibilità è che la Commissione Elettorale che deve gestire le elezioni del 2 febbraio si dimetta e che il sistema giudiziario abbatti il governo dando origine ad un golpe giudiziario. La commissione contro la corruzione deciderà presto sul destino delle accuse contro i deputati del Puea Thai che proposero l’emendamento costituzionale. Mentre sono ancora in corso blocchi contro la registrazione dei candidati nelle province meridionali, è incerto che si possa formare un governo anche se si dovessero tenere le elezioni.
Finora il governo ed i suoi sostenitori hanno agito con moltissima cautela permettendo ai manifestanti di occupare ministeri chiave per evitare il confronto. “Controlliamo il paese” dice il consigliere della sicurezza Sean Boonpracong il 29 dicembre. “Il governo funziona finché non ci sarà un nuovo governo, e abbiamo il compito di mantenere la sicurezza”.
Nelle comunità delle magliette rosse la rabbia cresce ogni giorno. Ricordano bene gli eventi del maggio 2010 quando l’allora premier Abhisit e il suo vice Suthep presumibilmente autorizzarono le truppe all’uso delle munizioni per ripulire le strade di Bangkok centrale dalle proteste. Più di 80 civili morirono ed altri 2000 restarono feriti nella violenza che ne seguì. Sono in tanti a mettere a confronto il comportamento dell’esercito allora con l’approccio conciliatorio verso l’attuale folla di manifestanti elle classe medie.
“Sono molto arrabbiati” dice Jaran Ditapichai, maglietta rossa e candidato per il parlamento per il Puea Thai, che fa notare che si parla apertamente della possibilità di una secessione delle province settentrionali e nordorientali da Bangkok, mossa a suo dire impossibile. Jaran sottolinea la sua speranza di una soluzione pacifica, mentre le magliette rosse nelle province fanno campagna elettorale con lo slogan “Sì alle elezioni, no alla guerra civile”. Ma di fronte ad un golpe le magliette rosse “si alzerebbero a combattere” per difendere il governo. Altre magliette rosse hanno promesso di mobilitarsi per tenere Bangkok aperta” durante l’assedio promesso da Suthep.
Il buio politico thailandese, indipendentemente da quello che succederà, è destinato a durare perché le elite che hanno detenuto il potere così a lungo non si arrenderanno senza lottare.
“Quello che testimoniamo è una battaglia disperata da ultima spiaggia da parte della elite feudale thailandese per provare ad aggrapparsi al vecchio potere e privilegi e impedire che il paese avanzi nel XXI secolo. E’ una battaglia impossibile, visionaria, e perdono, di qui la loro disperazione che li rende pericolosi. Il paese matura e le lotte che vediamo sono il dolore della crescita di una democrazia che emerge” dice Andrew MacGregor Marshall.
MARK FENN, wagingnonviolence.org/
Foto di Vincenzo Floramo