Le popolazioni di Papua Occidentale chiedono la autodeterminazione da mezzo secolo, in una lotta per la liberazione dall’occupazione militare indonesiana che ha visto uccisi quasi 500 mila Papuani.
Un recente sviluppo di questa lunga lotta è la morte sospetta di un comandante del Movimento Papua Libera (OPM) Danny Kogoya il 15 dicembre 2013 dovuta, stando al certificato medico, ad un crollo della funzionalità epatica a causa di “sostanze chimiche inusuali” nel suo corpo che pongono i dubbi di un avvelenamento.
Kogoya è morto mentre si trovava nell’ospedale di Vanimo, a Papua Nuova Guinea, mentre gli curavano la sua gamba che gli era stata amputata contro la sua volontà nel 2012 in un ospedale della polizia a Jayapura, Papua Occidentale dopo essere stato sparato dalle forze di sicurezza durante il suo arresto. Secondo la Commissione Asiatica dei Diritti Umani, AHRC, un dottore di Vanimo ha supposto che le sostanze chimiche gli erano state somministrate mentre Kogaya si trovava nell’ospedale di polizia e che sia stato avvelenato lentamente dalle autorità dello stato indonsiano.
Quando la famiglia di Kogoya ha chiesto al Tribunale di Vanimo, con allegato il certificato medico, che il corpo fosse seppellito a Papua Occidentale la Corte ha deciso che si trattasse di omicidio ed ha chiesto un’autopsia. Il rapporto dell’AHRC racconta che quando era prevista l’autopsia si presentarono quattro individui dell’ambasciata indonesiana che si incontrarono con la gestione dell’ospedale e impedirono l’esecuzione dell’autopsia.
Successivamente si tennero una serie di incontri tra famiglia, consolato indonesiano e autorità della Nuova Guinea che portarono ad un accordo sull’autopsia che, stando alle ultime notizie, si deve ancora tenere.
Che si provi o meno qualche gioco sporco nella morte di Kogaya, l’incidente è uno dei tanti nella lunga storia del movimento di liberazione di Papua in cui si sono visti civili con legami al movimento separatista torturati, militanti uccisi e i colpevoli agir nell’impunità.
Geograficamente Nuova Papua Occidentale insieme alla confinante con Papua Nuova Guinea formano l’isola di Nuova Guinea ricca di risorse a circa 300 chilometri dalla costa settentrionale dell’Australia. La provincia di Nuova Papua Occidentale è divisa in due province, Papua occidentale e Papua. La sua popolazione indigena ha radici Melanesiane che li rende culturalmente ed etnicamente ai loro vicini della Papua Nuova Guinea, ma la storia turbolenta dei primi e l’attuale lotta per l’autodeterminazione li mette fortemente separati dai suoi vicini.
Dopo la II guerra mondiale gli Olandesi che colonizzavano la Guinea Occidentale cominciarono a fare i preparativi per la loro liberazione, mentre l’Indonesia continuava a reclamare i territori. Nel 1961 i Papuani innalzarono la loro bandiera, la Stella del Mattino, cantando il loro inno nazionale e dichiararono la loro indipendenza. Ben presto l’Indonesia l’invase, armata e sostenuta dall’URSS. Temendo la diffusione del comunismo e gli interessi minerari a Papua Occidentale, gli USA intervennero e insieme all’ONU stipularono l’accordo di New York dando il controllo ad interim all’Indonesia sotto la supervisione ONU nel 1963, fino a quando un referendum potette aver luogo che garantiva ai Papuani il diritto di un voto per l’integrazione nell’Indonesia o per l’autodeterminazione.
Nei sette anni successivi, prima del voto, furono uccisi almeno 30 mila Papuani dai militari indonesiani che misero al silenzio brutalmente il dissenso e la soppressione degli ideali di liberazione. Nel 1969 il voto “L’atto di libera scelta” fu una frode, il risultato controllato. Fu selezionata per votare solo 1% della popolazione ed intimiditi dalle forze di sicurezza che comportò un voto unanime perché Papua Occidentale fosse governata dall’Indonesia.
In un documentario, un uomo che era parte di quell’uno per cento prescelto descrive in un documentario, col volto oscurato, di aver avuto una pistola alla tempia mentre gli si dava l’ultimatum: vota per l’Indonesia o sei morto.
Da allora le forze di sicurezza hanno condotto atrocità di massa e le violazioni dei diritti continuano tutt’oggi. Papua Occidentale è la regione più militarizzata dell’arcipelago dove risiedono 45 mila soldati oltre quelli che pattugliano la frontiera.
Paul Barber, coordinatore di TAPOL, che lavora per i diritti umani, la pace e la democrazia in Indonesia, dice che i militari hanno commesso orrende violazioni a Papua Occidentale per 50 anni godendo della piena immunità. L’ultimo esempio è accaduto nel 2012 a Wanema, sulle alture centrali, quando le fore di sicurezza sono impazzite ed hanno ucciso e bruciato case e veicoli.
“Le violazioni accadono spesso nelle aree remote, comprese le frontiere, e non sono neanche riportate. Le truppe non sono benaccette e sono sottopagate, ed il loro arrivo implica che ci saranno attività economiche illecite come il diboscamento illegale, oltre alla violenza sessuale sulle donne e le ragazze”.
Barber inoltre denuncia che gli attivisti dei diritti umani sono spesso tacciati di separatismo e traditori che il governo indonesiano continua ad isolare, mettere in silenzio e stigmatizzare” pe negare la natura politica del problema.
Il movimento di liberazione comprende gruppi violenti e non violenti. OPM, dove Kogoya militava, conduce un’insorgenza di basso livello, con attacchi verso la polizia, i militari ed occasionalmente qualche civile. Nel 2002, Amnesty International trovava che le operazioni di contro-insorgenza risultavano in “grossolane violazioni di diritti umani come omicidi extragiudiziali, scomparse forzate, tortura e detenzione arbitraria”
Se si considera il sospetto onnipresente che tutti gli abitanti sono separatisti o sostengono i movimenti separatisti, la risposta delle truppe è stata spesso la stessa sia che i gruppi usassero mezzi pacifici come le manifestazioni o tattiche di guerriglia. Come dire, che gli abitanti di Papua non devono essere armati per essere perseguitati, arrestati, torturati o passati per le armi.
La prevalenza scioccante della tortura è stata messa in luce in uno studio recente in cui si dice che nel passato mezzo secolo è accaduto come media un incidente di tortura ogni sei settimane. Dei 431 casi documentati rivisti solo lo 0,05% di quelli torturati erano membri delle milizie, ma la vasta maggioranza erano civili per lo più contadini e studenti.
In una tesi di laurea si conclude: “Che la tortura è stata impiegata strategicamente dallo stato indonesiano a Papua come un modo per governare nella quasi completa impunità”. Alcuni dei torturati sono stati arrestati senza mandato con 28 casi documentati di arresti politici con tortura, mentre gli altri casi sono avvenuti vicino ai villaggi.
Si consideri il capo dei Yawan Wayeni, capo tribale e già prigioniero politico, il cui omicidio fu filmato e postato su Youtube l’anno dopo. La polizia indonesiana sparò Wayeni alla gamba prima di infilzarlo nella pancia con la baionetta tirandogli fuori gli intestini. All’uomo che mormora “indipendenza” mentre muore nella giungla, un poliziotto risponde: “Voi Papuani siete stupidi, selvaggi”. In un’intervista ad AlJazzera il capo ella polizia Imam Setiawan dice che i suoi uomini non avevano violato alcun diritto di Wayeni e che dovevano fermarlo mentre parlava dell’indipendenza e dirgli: “Non avrai mai la tua indipendenza. Non sognare neanche della tua libertà”.
Questo non fu l’unico caso ad essere apparso fuori. Nell’ottobre 2010 apparvero due video di personale militare che torturava due uomini che secondo i gruppi dei diritti umani erano contadini. Accusati di avere informazioni sulle armi dei ribelli, un uomo è preso a calci in faccia e nel petto, mentre gli bruciavano i genitali con un tizzone acceso, e l’altro è minacciato col coltello con la lama che sale lungo la gola. Kiwo, il primo dei due torturati, racconta in una testimonianza registrata di essere scappato il terzo giorno del sequestro e di averlo soffocato con un sacchetto di plastica, mentre gli stringevano le dita in una pinza e gli coprivano le ferite ed i tagli con il peperoncino.
Nel gennaio 2011 tre soldati coinvolti in un caso di abusi furono condannati da 8 a 10 mesi per “Non aver eseguito gli ordini”. L’Indonesia, benché abbia ratificato la convenzione conto la tortura nel 1999, non riconosce la tortura come un crimine punibile. Il presidente Yudhoyono, alcuni giorni prima della sentenza in un discorso ai militari e alla polizia, considerò il caso come un incidente secondario affermando che durante la sua presidenza dal 2004 nessuna grave violazione era stata commessa.
E’ vero che quando accadde il Massacro di Biak nel 2008 lui non era al potere, quando tanti manifestanti pacifici furono sparati, torturati e mutilati, mentre altri sopravvissuti caricati su una nave e gettati in mare. I loro corpi furono poi portati a riva dalla corrente. Sono crimini contro l’umanità, secondo quanto appurato da un tribunale dei cittadini tenuto lo scorso mese a Sydney, per i quali nessun colpevole è stato mai inquisito.
Ed è corretto che Yuhoyono nel 2003 non era presidente quando Amnesty International riportava la morte di nove civili uccisi, 38 torturati e 15 arrestati arbitrariamente durante una serie di incursioni della polizia a Wamena, allontanando la popolazione di migliaia di villaggi, molti dei quali morirono poi di fame e stanchezza. Ma di certo era al potere nell’ottobre 2011, quando qualcuno filmò le forze di sicurezza mentre aprivano il fuoco in una manifestazione dell’indipendenza uccidendo sei manifestanti.
Lo era nel giugno 2012 quando il capo politico Mako Tabuni fu ucciso di giorno dalla polizia in un omicidio che si disse fatto da Densus 88, unità di antiterrorismo addestrata dall’Australia e degli USA dopo le bombe di Bali. Tabuni era vie presidente del Comitato Nazionale per Papua Occidentale, KNPB, organizzazione non violenta che faceva campagna per un referendum.
Un rapporto d TAPOL nota che 20 persone furono accusate di tradimento nel 2012 per le loro attività che andavano dal possedere documenti del KNPB o del gruppo di guerriglia OPM, per aver organizzato una celebrazione della Giornata dell’ONU delle Popolazioni Indigene el Mondo, per aver issato la loro bandiera e per la partecipazione sospetta nel National Liberation Army (TPN).
Barber del TAPOL dice: “L’approccio della sicurezza è sempre completo. Le proteste devono essere ben accette come un segno di democrazia fiorente benché rumorosa, ma le forze di sicurezza si sentono minacciate e reprimono. Questo approccio intrappola Papua in un ciclo futile di repressione e paura”
Stand alle cifre di Papuan Behind the bars, lo scorso novembre sono saliti del 165% il numero di arresti politici rispetto al 2012, mentr il numero totale degli arresti del 2013 sono 537 e il numero dei prigionieri politici è 71. Uno di loro è Filep Karma che deve scontare 15 anni per aver issato la Bandiera della Stella del Mattino.
Alla fine del 2012 fu nominato capo della polizia di Papua Tito Karnavian, già capo di Densus, una nomina che corrisponde al netto incremento del numero di arresti politici ed una punta di rapporti di abusi e torture tra i detenuti.
Barber dice che attivisti e manifestanti pacifici sono regolarmente soggetti a sorveglianza, minacce, violenze e pestaggi, talvolta uccisi o scompaiono. “E’ estremamente rischioso parlare di ingiustizie a Papua. Se va bene perdi la dignità, al peggio la libertà, o la mente se non la vita”.
Giornalisti e ONG internazionali non hanno il permesso di accedere a Papua. Di recente la Croce rossa internazionale e le Peace Brigates International furono costrette a chiudere i propri uffici quando le restrizioni imposte costrinsero a rendere il lavoro impossibile. A HRW ed AI viene sempre negato il visto. Per fortuna la diffusione dei telefonini rende più difficile che le violazioni dei diritti restino senza denuncia.
Nei cablogrami di WeakyLeaks del 2010 i diplomatici USA accusano il governo indonesiano di condannare Papua al “sottosviluppo cronico” e credono che lo scontento sia alimentato dagli abusi dei diritti umani e dalla corruzione rampante. Eppure i legami militari tra i due paesi sono stati rinnovati. In quei cablogrammi si confermava che la compagnia americana Freeport McMoRan, he possiede la Grasberg, la più grande impresa mineraria di rame ed oro, nella provincia di Papua, ha pagato milioni di dollari alle forze di sicurezza per la protezione delle proprie operazioni.
L’Indonesia garantì le concessioni a questa compagnia nel 1967 due anni prima del voto dubbio sull’indipendenza. Da documenti declassati degli USA, si apprende del sostegno dell’impresa al governo indonesiano che garantiva così agli USA di portare avanti i piani per estrarre le ricche risorse naturali di Papua. L’allora consigliere della sicurezza Kissinger scriveva a Nixon proprio prima el voto che un referendum sull’indipendenza “non aveva alcun senso tra le culture da età della pietra della Nuova Guinea”. Kissinger poi divenne un membro esecutivo della Freeport, ed è descritto in un articolo del 1997 di CorpWatch come “il principale lobbista della compagnia per gli affari con l’Indonesia”.
Freeport è uno dei più grossi pagatori di tasse con 9,3 miliardi di dollari andati a Giacarta tra il 1992 e il 2009. Eppure Papua, dove si trova la miniera di Grasberg, con uno dei tassi più allarmanti di insicurezza e malnutrizione, è la più povera provincia dell’arcipelago. Il 30% della popolazione vive in povertà contro il 13 % di Giava Orientale e la mortalità infantile a Papua Occidentale è almeno due volte la media nazionale.
“La miniera ha causato la devastazione ambientale con lo scarico di reflui direttamente nel fiume locale, da cui la tribù Kamoro dipende per l’acqua da bere, la pesca e per lavarsi, e l’Indonesia impiega soldati per proteggere l’area con il risultato di gravi violazioni dei diritti umani come tortura, stupri e omicidi di Papuani” dice Sophie Grig di Survival International che nota come il tasso di HIV è 20 volte il resto del paese.
Dopo anni di politica indonesiana dell’emigrazione la popolazione di etnia non papuana è il 50%. Con lo sviluppo e le influenze urbane viene un cambiamento al modo di vivere tradizionale. L’influsso di lavoratori e di personale della sicurezza comporta l’emergere di bar Karaoke e della prostituzione. Nel 2011 la commissione di prevenzione dell’AIDS di Papua rivelava che l’area con il più alto numero di casi e tassi di infezione maggiori era Mimika che è anche il luogo dove si trova Grasberg.
L’ultimissimo progetto di “sviluppo”, MIFEE, impresa integrata alimentare ed energetica, già mostra segni di accrescere la povertà della regione. Nell’agosto 2010 Yudhoyono annunciava il lancio del mega progetto MIFEE come “Dà da mangiare all’Indonesia, dà da mangiare al mondo”. Questo progetto individua 1,28 milioni di ettari per raccolti di legname, olio di palma, riso, granturco, soia e canna da zucchero. L’Indonesia produce quasi la metà dell’olio di palma mondiale contribuendo alla rapida deforestazione ed ai conflitti sulle terre. Secondo La Commissione dei diritti umani dell’Asia MIFEE è una parte del fenomeno di “accaparramento della terra” che accomuna nella dubbia catena della collusione attori statali e privati potenti. Secondo la Commissione, MIFEE è caratterizzata da “un accordo di politici, militari ed affaristi e dal clima di intimidazione politica e oppressione presenti a Papua Occidentale”. Nel rapporto si denuncia che gli attori chiave del MIFEE hanno tutti forti legami con la politica, con la sicurezza e interessi di grandi imprese. Per esempio un gruppo Comexindo è di proprietà di Hashim Djojohadikusumo, fratllo di Prawobo Subianto, generale delle forze speciali e genero di Suharto (candidato anche alla futura presidenza).
Gli appezzamenti di terra tradizionali sono cancellati senza il libero consenso precedente ed informato della gente. Il risarcimento per le comunità, che sono frodate nel cedere la propria terra, è oltremodo inadeguato; ingannati da promesse vuote di maggiore prosperità o intimiditi dalla sicurezza delle imprese le popolazioni indigene restano affamate e profondamente pentite. Secondo un gruppo che monitora il progetto, Awas MIFEE, il tasso medio di risarcimento per una comunità è di 30 dollaro per ettaro, cifra irrisoria se si considera che una foresta vergine alimenta tantissime generazioni
MIFEE è presentata come fonte di lavoro per i poveri Papuani ma ci sono numerose testimonianze che lo negano. Gli indigeni papuani non hanno conoscenze ed esperienza per ottenere un impiego significativo in queste piantagioni ricevendo così lavori minori con paghe sotto la soglia di sopravvivenza, mentre le posizioni migliori vanno agli emigranti. Ci si attende un massiccio influsso di lavoratori. Meruake potrebbe vedersi crescere la popolazione di un valore tra 170 mila a 800 mila, secondo quanto riportato da Jakarta Globe, rendendo così i papuani una minoranza etnica nelle proprie terre ancestrali.
I papuani sono tradizionalmente cacciatori, e vivono con l’amido di sagù e selvaggina, con frutta tropicale e coltivando piccoli appezzamenti di patata dolce e altre piante in piccoli giardini. Da quando parti di foresta di Zanegi sono state ripulite per fare posto agli alberi di acacia ed eucalipto, con il legno destinato alle centrali elettriche coreane, gli abitanti cominciano a trovare scarsezza di cibo.
Una infermiera del posto, nel documentario Our land is gone, fa notare la crescita di casi di bambini che soffrono di malnutrizione cronica a partire dal primo anno della distruzione della foresta fino a dodici anni dopo.
Nella prima metà el 2013 cinque bambini sono morti di malnutrizione. L’inquinamento da fertilizzanti e da polveri di legno ha fatto crescere i casi di bronchite e di asma. Un uomo in un documentario lamenta che una compagnia, sussidiaria della Medco Group, ha infranto la promessa di lasciare 1500 metri attorno ai siti sacri ripulendo anche i rovi di sagù e distruggendo l’habitat dell’uccello del paradiso.
Un altro abitante dice: “Pensavamo che erano venuti per sviluppare il nostro villaggio ma in realtà ci stanno distruggendo, per dirla francamente, ci stanno calpestando”.
Due esperti dell’ONU avvisavano che la conversione di 1 o 2 milioni di ettari di foresta tropicale e agricoltura di piccola scala per fare posto a raccolti per alimentare l’esportazione e le piantagioni a Merauke potevano colpire la sicurezza alimentare di 50 mila persone.
Sophie Grig dice: “E’ ironico che un progetto che designato per assicurare la sicurezza alimentare deruba la gente delle tribù autosufficiente della loro terra e dei loro sostentamenti che li hanno sostenuti per generazioni. Lo stesso problema dei diritti umani che hanno colpito le comunità attorno alla miniera Grasberg cominciano ad emergere nell’area del MIFEE. Emerge una crisi umanitaria e ambientale.”
La lotta per l’autodeterminazione di Papua Occidentale va avanti nonostante mezzo secolo di repressione dei sentimenti di indipendenza da parte delle forze di sicurezza. ETAN, un gruppo che difese l’indipendenza di Timor Est dal governo indonesiano, scrisse astutamente che definendo i Papuani come nemici dello stato ogni volta che provano ad esercitare i propri diritti e continuando a commetter grandi violazioni dei diritti, la risoluzione della popolazione papuana ad essere liberi crescerà più forte, facendo diventare così quella paura indonesiana una profezia che si avvera da sola.
Questo mese Free West Papua Campaign (FWPC) ha aperto un ufficio a Port Moresby, a Papua Nuova Guinea, dove il sindaco ha innalzato la bandiera del Mattino in un atto di solidarietà. FWPC ha scritto sui media sociali “L’Indonesia può tracciar quante linee vuole sulle mappe, ma non riuscirà mai a sparare lo spirito delle popolazioni della Nuova Guinea. Siamo un popolo, un’anima, un’isola del Kumul (isola dell’Uccello del paradiso)”.
GEMINA HARVEY, The DIPLOMAT
Gemima Harvey (@Gemima_Harvey) is a freelance journalist and photographer.