Una pozza di urina sta sotto un letto dove è steso un emaciato uomo birmano, vestito solo di una maglietta e di un pannolino.
Mentre cerca di sedersi e di restare fermo, si mette le mani nei suoi folti capelli neri in agitazione. Non riesce a camminare e non ricorda pesino il nome suo o della sua famiglia. Parla in un indonesiano smozzicato privo di senso, una lingua che imparò mentre lavorava come uno schiavo su un peschereccio thailandese.
Quasi sul punto di morire per mancanza di alimenti appropriati, fu salvato da un’isoletta indonesiana due mesi fa. E’ solo una delle vittime innumerevoli dell’ industria della pesca in Thailandia, il terzo paese esportatore al mondo per frutti di mare.
Secondo un rapporto di EJF, la pesca estrema e l’uso di pescherecci senza documenti ed illegali hanno saccheggiato l’ecosistema marino della Thailandia impoverendolo delle riserve di pesce. Si pesca ora 85% di meno di quanto si pescava 50 anni fa “divenendo così una delle zone di pesca più abusate della regione”.
La diminuzione del pescato nel Golfo della Thailandia e nel Mare delle Andamane a sua volta ha spinto i pescherecci thai ad allontanarsi sempre più dalle proprie coste. Si stima che fino a metà di tutto il pescato su cui campeggia il marchio “Prodotto in Thailandia” è pescato fuori delle frontiere thai, per lo più in Asia ma anche in posti lontani come l’Africa.
Il rapporto, compilato secondo una ricerca del gruppo e del lavori di altri, spiega come la vasta industria della pesca è quasi interamente dipendente dalla forza lavoro a buon mercato dell’emigrazione. Poiché sono pochi i thai che vogliono quel lavoro pericoloso e di basso livello che li possono portare lontano da casa, è emerso una rete sofisticata di mediatori e agenti che regolarmente reclutano, con inganni e sequestri, lavoratori dai paesi vicini come Birmania e Cambogia.
Uomini, e spesso ragazzi anche di 13 anni, sono venduti alle barche dove lavorano generalmente fino a 20 ore al giorno mangiando poco e con acqua salmastra da bere, che sottostanno alle percosse talvolta fino a morirne per mano dei capitani. Sono pagati pochissimo e talvolta nulla. Restano intrappolati in mare per mesi e talvolta per anni; si usano navi di appoggio per prendere il pescato e portare rifornimenti.
La preoccupazione di abusi del lavoro, specie in mare, hanno spinto il dipartimento di stato USA lo scorso anno a declassare la Thailandia al più basso livello nel suo rapporto annuale sulla schiavitù al pari di Corea del Nord, Siria ed Iran. Ha messo in luce gli abusi sulle navi e negli impianti di trattamento mettendo in luce il coinvolgimento di autorità corrotte.
La Thailandia ha risposto lanciando una campagna di pubbliche relazioni in cui il governo ha steso una propria valutazione per mettere in luce i passi fatti per ripulire l’industria da quando i militari hanno preso il potere in Thailandia. Il rapporto thai non pubblicato, ottenuto dalla Associated Press, include la creazione di un nuovo registro nazionale di lavoratori emigrati clandestini e piani per regolamenti del lavoro più netti sulle navi e nell’industria della pesca.
Comunque solo un mese dopo l’entrata in azione del nuovo governo, la Thailandia è stato il solo paese al mondo a votare contro un trattato internazionale dell’ONU che mira a fermare il lavoro forzato.
“Se si approfondisce e si guarda alla sostanza dell’applicazione ed implementazione delle attuali leggi e regolamenti, c’è pochissimo” dice Steve Trent, direttore esecutivo di EJF. “Quello che il governo thai sembra fare in modo riepetuto, ogni volta di fronte a queste accuse, è di condurre campagne di esercizio di pubbliche relazioni di alto livello piuttosto che cercare di affrontare il problema”.
La Thailandia ha esportato, nel 2013, 7 miliardi di dollari di prodotti della pesca ed è uno dei più grandi fornitori del mercato americano. Ma uno studio pubblicato lo scorso anno nel giornale Marine Policy stimava che dal 25% al 40% del tonno thailandese esportato in America proviene da fonte illegali o non chiare, il tasso maggiore per specie e paese esaminato, ed è frequentemente legato agli abusi del lavoro in mare.
Le ONG di diritti umani affermano che si sono notati dei miglioramenti nelle acque thailandesi, ma queste politiche hanno pochissimo impatto quando le navi si spostano in acque di altri paesi. Il viaggio verso destinazioni più lontane fa crescere i costi operativi e cresce la pressione sulle compagnie della pesca a risparmiare denaro e si affidadano al lavoro forzato e alla schiavitù.
“Sulle navi di lungo raggio, non è cambiato nulla nelle brutali condizioni di lavoro e di abuso fisico procurato dai capitani contro le loro ciurme.” dice Phil Robertson di HRW “La realtà è che la retorica di belle parole del governo thailandese di fermar il traffico umano e di ripulire la flotta peschereccia si ferma per lo più al limite del mare”.
L’uomo salvato dall’isola indonesiana a dicembre ora ricorda il proprio nome, Min Min, e un pezzo della sua vita in Birmania. Ma la sua mente è tutt’altro che limpida. Sa che ha lavorato tre anni su una nave in Indonesia dove talvolta aveva le sue caviglie legate con una fune. Ricorda di essere caduto a terra sul ponte della barca durante una tempesta e di essere rimasto senza conoscenza per tre ore, prima che un capitano thai lo costringesse ad alzarsi e a riprendere le reti.
Alla fine divenne troppo infermo e debole per lavorare e fu abbandonato su un’isola remota due anni fa.
Min Min stava quasi morendo di fame quando fu salvato e portato a Samut Sakhon alla ONG Labor Rights Protection Network,una città portuale vicino Bangkok. Ora mangia bene e prende vitamine per provare a riprendersi, e può stare in piedi e muoversi lentamente.
Ma non sta ancora bene. E’ ancora confuso su cose importanti come la sua età che talvolta è 36 talvolta 47. Se si cita la sua famiglia in Birmania, si spazientisce come se sia una cosa troppo pesante da sopportare.
“Lavorare sulle navi non è bello. La gente ama approfittarsi di te. Se supero la mia malattia, non tornerò mai più in vita mia su una nave, mai più. Ho troppa paura”