I Bambini della legge marziale
un racconto di Charlson Ong
Avevo dodici anni quando fu dichiarata la legge marziale. Troppo giovane per essere un militante, ma abbastanza grande per seguire gli aggiornamenti radiofonici di Ronnie Nathanielz in diretta da Plaza Miranda, per leggere il reportage pieno di scintille di Pete Lacaba su “La battaglia di Mendiola”, abbastanza grande per restare affascinato dai racconti di mio fratello più grande delle lezioni all’Ateneo e alla Università delle Filippine, abbastanza grande per rimanere intrigato dalla presenza di armi e letteratura maoista nella bodega del nostro vicino, abbastanza grande per essere conquistato dall’eloquente discorso pieno di sdegno su Marcos fatto in televisione da Ninoy (Aquino).
Se fossi stato più grande e se fossi stato studente di college, mi sarei probabilmente immerso nel romanticismo e nella rabbia di quei giorni, sarei fuggito sulle montagne quando fosse venuto il momento di scegliere o, forse, mi sarei adagiato in una vita piena di conforti e dei ricordi del “La prima ondata” o della “Comune di Diliman”.
Dal momento che non è così, devo accontentarmi di ascoltare i ricordi dei “veterani” di quei giorni, un pò infastidito per non aver avuto l’opportunità, per qualche anno, di vivere il periodo più eccitante della storia del dopo nostro guerra e sempre più convinto che alla nostra generazione sarebbe stato negato il suo posto nella storia, se di fatto non fosse diventato il soggetto del più comprensivo, se non cinico, esperimento sociale.
Ricordo ancora Damian Sotto, enorme e dalla pelle scura, maledire gli alti cieli, spargere veleno, intasare le onde radio con diatribe contro tutto. Qualunque suo possibile aggettivo sarebbe probabilmente blippato negli odierni programmi di prima serata così attenti al linguaggio televisivo. Non ci erano chiari né la sua politica né le cause che sosteneva, era semplicemente affascinante ascoltare un adulto usare alla TV un simile linguaggio che ci avrebbe, invece, procurato a noi ragazzi un rimprovero solenne da parte di parenti e docenti.
C’era Soc Rodrigo e il suo Kuro Kuro, sobrio e pensieroso nel suo sublime tagalog. C’era Ninoy, col taglio perfetto dei capelli e grassoccio, che ci faceva vedere scene di una Taiwan in rapida ascesa e sostenere che questa nazione avrebbe potuto prendere il volo una volta che il suo partito liberale avesse assunto il potere. C’era Eddie Ilarde su Student Cantine, Orly Mercato su Radyo Patron, Akong su Kwengtong Kutsero.
C’era mio padre in piedi fino a notte fonda con la speranza di vedere qualche filmato vietato, presumibilmente trasmesso dalla propaganda comunista nel quadro di una campagna di destabilizzazione. C’era Yvonne nelle pagine centrali della rivista Pic di cui, davvero, piangemmo la fine prematura. C’era la denuncia di Quinterno e il massacro di Jabbidah. C’era Rossana Ortiz, Jessica ni Pasing tutti al piccolo teatro lungo la Recto Avenue. C’era Bayside, Wells Fargo, i Flame ed altri punti di incontro lungo la Roxas Boulevard, dove i miei fratelli e gli zii più grandi andavano per una sbronza, la roulette e le macchine da gioco. Il rock era pesante e l’erba non costava nulla. Era crasso, volgare, decadente ed eccitante.
Poi finì. Non tutto d’un colpo, ma abbastanza in fretta da cogliere di sorpresa i migliori. Ricordo la tensione che invase casa nostra, gli adulti che ci avvisavano di non discutere di politica al telefono. Le scuole furono chiuse a tempo indeterminato, le strade vuote. Makati Centro divenne una città fantasma. Il mondo si era fermato mentre dormivamo quella notte del 22 settembre del 1972.
Ricordo che vedemmo alcuni filmati in TV nella tardi mattinata su RPN 9, che sarebbe diventata la stazione più influente del decennio successivo. Nel pomeriggio tardi, l’allora portavoce del presidente, Kit Tatad, annunciò quello che la maggior parte di noi aveva già capito, la proclamazione della legge Marziale. Nel suo discorso trasmesso in televisione, il presidente assicurò subito la gente che rimaneva in potere l’autorità civile. Il nostro mondo, ci fu detto, rimaneva al sicuro e protetto, ma sapevamo, anche allora, nei nostri cuori e nei nostri intestini, che il nostro mondo non sarebbe più stato lo stesso.
Il coprifuoco fu imposto dalla mezzanotte alle 4 di mattina, e voleva dire che mio fratello più grande doveva, alle 11 e 55, venire a casa a tutta velocità sulla sua Mustang ad otto cilindri ed essere sgridato dal mio vecchio. Casini e bordelli furono chiusi, macchine da gioco caricate, distrutte e abbandonate chissà dove, giornali sconci bruciati, criminali ricercati e catturati, ai giovani dai capelli lunghi veniva rifatto il look da uomini della polizia in giro per la città, i pedoni che non rispettavano le regole arrestati, a chi violava il coprifuoco si faceva tagliare l’erba a Camp Crame. Disciplina era la parola d’ordine del giorno. “Per il progresso della nazione, c’è bisogno di disciplina!” divenne il motto ufficiale il cui scherno faceva guadagnare all’ospite televisivo, senza neanche lo sraccio di una prova, varie ore di corsa attorno al perimetro delle caserme militari.
Le prime cose ad essere trasmesse in TV erano materiale propagandistico del regime che metteva insieme filmati di manifestazioni violente, di ritratti di Mao, di bus in fiamme e che prosegivano con immagini di strade ora pacificate e ordinate, di studenti che frequentavano le lezioni e salutavano i docenti nelle maniere dovute, di persone che facevano la fila per prendere il bus, rispettosa della polizia e senza pance denutrite. Una regolare pubblicità commerciale mostrava un giovane in giro per le strade dopo il coprifuoco. “Fa sempre così tardi? un soldato gli chiedeva con grazia prima di dargli un passaggio a casa. Solo un anno dopo avremmo capito quanto fossero idealizzate tutte queste scene.
La marcia Bagong Lipunan riempiva le onde radio sin dagli inizi del ’73 e divenne l’inno ufficiale della nostra gioventù. Fu stampato nelle nostre anime e marciavamo al suo ritmo. Ognuno di noi divenne una targa che portava scritto l’appartenenza al Kabataang Barangay e annunciava la Rivoluzione del giorno di Marcos: Democrazia. Marcos era l’eroe della guerra, un avvocato di fama che si difendeva da solo in tribunale e batteva il giovane criminale, un atleta superbo, un grande amante, uno scrittore di tonnellate di libri di scuola, aveva dei natali magici ed era il salvatore della nazione. Settembre divenne il mese dei mesi e K la lettera riverita. Si diceva che tutto questo aveva a che fare con i poteri mitici che infondevano forza al “Padre” della nazione. Come ce la siamo bevuta completamente.
Anche quando l’accezione “Bambini della legge marziale” divenne più in là una derisione dei giovani nati negli anni settanta, spesso mi chiedo se di fatto erano loro quelli che erano stati maggiormette colpiti dalla legge marziale o noi, pre adolescenti e adolescenti di quel tempo, i minorenni della legge marziale, che portavano il marchio del tentativo del regime di un’ingegneria politico culturale.
Quando i bambini della legge marziale divennero adulti, il regime si era più o meno normalizzato e la macchina propagandistica aveva rallentato. Non avendo visto nessun altro presidente se non Marcos, l’uomo divenne proprio un altro fatto della vita per la maggior parte dei bambini della legge marziale. Non dovevano passare i vari referendum, i plebisciti, le elezioni senza contestazioni che erano la nostra iniziazione nelle politiche elettorali. Dovevano semplicemente accettare la presenza di Marcos, ci veniva chiesto, ci costringevano a credere in lui. E’ sorprendente che la maggior parte di quello che resta dei fedelissimi di Marcos provenga proprio dai Bambini della Legge Marziale.
Nei primi anni ’80 quando i bambini della legge marziale cominciavano ad interessarsi alle questioni sociali, l’ambiente dei media, almeno a Manila, aveva cominciato a rilassarsi. I media alternativi si stavano espandendo e dopo l’assassinio di Ninoy le chiuse scoppiarono. Noi, d’altro canto, eravamo prodotti e vittime della censura rigida. Eravamo completamente soggetti al controllo dei media del regime, e al caffè pungente di Doroy Valencia, durante i nostri impressionanti anni e avevamo accesso alla voce dell’opposizione nei college. Ci era completamente impedito qualunque apprezzamento dell’opposizione
A dodici anni, cominciavamo ad essere influenzati da docenti, giornali, riviste, radio, televisione. Ci era detto che la nostra società sarebbe destinata alla povertà e alla corruzione; che il male come l’imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo burocratico tenevano bloccata la nostra nazione, che la politica era sporca, ed i politici erano i più disprezzabili.
Ci era detto che erano indispensabili cambiamenti drastici, inevitabili. Quando Marcos dichiarò la legge marziale con la promessa di ripulire la società, quando si buttò contro le oligarchie e li incarcerò, noi brindammo come se stessimo vedendo un film in cui i cattivi vengono finalmente arrestati.
Parlava di “rivoluzione dal centro” e cantavamo il suo inno, indossavamo le magliette del Kabataang Barangay, e piantavamo alberi. La nostra epifania sarebbe venuta molto dopo, pian piano e dolorosamente. Eravamo i bambini della Nuova Società che non avevano mai visto l’imperatore senza dei suoi vestiti.
All’università sedevamo al fianco di studenti quarantenni con ricordi da dopoguerra e borse a spalla dall’apparenza sinistra, mentre la polizia si aggirava per i campus e i colleghi di scuola prelevati dopo le lezioni.
Dovunque, uomini di mezza età se ne stavano negli angoli a sussurrare con le radio ricetrasmittenti. La coercizione era lenta e sottile. Non era diretta alla singola persona, finché non parlavi troppo, ma era parte dell’universo della propria esistenza giornaliera, l’intimidazione divenne naturale come insegnanti del terrore e le jeepneys dal fumo intossicante.
I più vecchi e saggi non cullavano forse troppe illusioni sui motivi reali della Legge Marziale, mentre molti all’inizio volevano dare una possibilità a Marcos e vedere se sarebbe stato fedele alla sua retorica.
Quando il regime cominciò a rivelarsi, i più anziani scrollarono semplicemente le spalle. Lo sapevamo fin dall’inizio. Il nostro risveglio fu molto più rude.
Ci vollero anni perché capissimo che eravamo state vittime di una vecchia e terribile menzogna, che il nostro inno giovanile sarebbe diventata il canto di un’epoca disprezzata, che gli alberi che piantavamo non avrebbero mai dato ombra ai nostri figli.
Ed ora la vecchia e la nuova società sembrano essersi mischiate in un film surreale scritto da un poeta pazzo. Una vedova settantenne coperta di gioielli, che vanta tonnellate d’oro, celebra il proprio compleanno per quattro notti di seguito in quattro dei punti più lussuosi di Manila, anche quando il cadavere di suo marito rimane a disposizione del pubblico nel mausoleo a Nord.
George Hamilton ritorna in città, Big J è senatore e Asiong Salonga é presidente. Il furto è rispettabile, il gioco d’azzardo è il vizio favorito e lo shabu l’oppio del poveraccio.
Ci siamo barcamenati attraverso un decennio di restaurazione democratica e all’avvicinarsi alla fine del secondo millennio, potremmo trovare conforto nell’abilità del Filippino a mantenere il senso dell’humor anche nel mezzo delle avversità tra una fortuna oltraggiosa e il pubblico servizio.
Ancora, da alcune parti, li sentiamo ancora dire che la libertà è solo eccesso e licenza di abusare. Ancora ci viene detto che c’è urgentemente bisogno di disciplina e il pericolo è nell’aria.
Si dice, ancora una volta, che i barbari sono dietro le nostre porte e solo un esercito forte può salvarci. Le favole raccontate due volte dovrebbero essere preparate con un pizzico di sale in più e un po’ di vino più vecchio.
Nel complesso il ’99 ha di fronte un mondo che offre sempre più grandi possibilità ma meno certezze. Forse si può pure guardare indietro negli anni, a quei quattro giorni favolosi sulla EDSA dove nonne in maglietta gialla offrivano bastoncini di polli arrosto ai ragazzini della strada, dove bravi monache armate soltanto di rose portarono all’impotenza l’impero del male, e ricordare con orgoglio quel momento fulgido popolare, oppure ancora una volta pensarsi come vittime di un’altra terribile bugia.
Ma se EDSA si rivelerà come una bugia, allora non è altro che la stessa bugia a cui gli amanti soccombono sempre. Se è fantasia, almeno è stata la nostra fantasia.
Parafrasando alcuni versi di Kahlil Gibran sul piacere si può dire: EDSA è un canto di libertà, ma non è la libertà, è la fioritura dei nostri desideri ma non il loro frutto.
Non saprei dire se per la mia gioventù sarebbe stato meglio avere più diatribe di Damial Sotto o Ninoy come presidente, o la sopravvivenza della rivista PIC fino ad un’età più matura, piuttosto che le marce KB, lo spettacolo Kaysayan ng Lahi, la manifestazione di Miss Universo, Thrilla a Manila (quando ebbi uno sguardo fugace della grande “farfalla” che girava attorno a Folk Art Theater e il Manila Internation Film Festival).
Forse se le cose dovessero peggiorare, potrei un giorno trovarmi a rimestare tra i ricordi e scherzare sui buoni tempi andati, quando si piantavano gli alberi al ritmo di una musica militare, quando il Congresso era in sospensione prolungata, le elezioni venivano decise in forte anticipo, un giornale andava bene per una settimana, le teste parlanti non occupavano lo schermo e quando un re saggio e la sua bellissima moglie governavano con benevolenza dal loro palazzo lungo il fiume.
Non trovo che possano invidiare né l’osservazione nella palla di cristallo, né l’indugiare sulle possibilità che si sono perse.
Le mie rimembranze sono ispirate per lo più dalla nostalgia e le mie previsioni da un pensiero fatto di grandi aspettative. Ma siamo un po’ più grandi, se non saggi ora e, se dovessimo trovare, una mattina, i nostri canali TV fuori onda, proprio quella televisione che ha già visto una vecchia animazione di decenni, e i nostri server internet spenti, non avremo il bisogno di attendere troppo e imparare di nuovo il vecchio inno o rileggere le vecchie edizioni di qualche rivista.
Questo saggio era stato commissionato a Charlson Ong in occasione del centenario delle Filippine, pubblicato da Philippines Free Press