E’ passato un anno dall’ondata di violenze tra le comunità Buddista e Musulmana che hanno sconvolto Meikhtila, nella Birmania Centrale, ma tante ferite devono ancora rimarginarsi. Decine di persone furono uccise, in gran parte musulmani, e tante case furono bruciate in quel fine marzo 2013 dopo che una discussione apparentemente banale in un orefice scatenò un’orgia di brutalità che durò per tre giorni.
Ora le tensioni tra le comunità si sono affievolite ma sono ancora presenti come mostrato dalla profusione in tanti negozi di adesivi del gruppo 969, il movimento ultranazionalista buddista con un messaggio chiaramente islamofobo. Ed 8000 persone su diecimila nel dopo violenza, la maggioranza musulmana, resta in cinque campi per Persone Dislocate Internamente (IDP) mentre in molti cominciano a perdere speranza di poter tornare alle proprie case.
Uno dei campi dove vivono alcuni musulmani dislocati dallo scorso anno è Yin Taw, un campo non ufficiale che occupa il terreno di una scuola islamica a 20 chilometri da Meikhtila. Secondo il responsabile del campo, un commerciante che preferisce restare anonimo, non ce la fanno a soddisfare tutte le necessità di tutti i profughi poiché i finanziamenti dai donatori cominciano a scarseggiare.
Delle 2500 persone che trovarono rifugio nel campo dopo le violenze, quasi 1100 restano lì, un migliaio sono tornati a casa, ed il resto si è spostato in altri posti per trovare un lavoro. E’ il caso questo di Ma Nyein, una donna che ha testimoniato la morte di suo marito in una madrassa dove altri 31 musulmani furono trucidati da una folla di buddisti estremisti. Io stesso intervistai la donna un anno fa nello stesso campo, ma ora lei vive in Qatar dove lavora in una fabbrica tessile. Secondo il capo del campo: “Non riusciva a sopportare la tristezza di vivere qui e dovette andarsene. Ora invia dei soldi a casa per la sua famiglia”.
Ma Nyein non è la sola profuga traumatizzata dalla violenza. Mentre molti si spostano su Meikhtila per andare ogni giorno a lavorare, alcuni di loro non riescono a tornare alla loro vita quotidiana e languono nel campo senza lavorare. Thant Oo, un cinquantenne che lavorava come conducente di bus, ha perso un figlio nel massacro e da allora non lavora. “Vado a Meikhtila solo per fare visita a mia figlia. Sono profondamente triste quando vado lì perché non posso fare a meno di pensare a mio figlio”.
Anche in termini pratici, gran parte dei profughi che restano nel campo, sia musulmani che buddisti, non possono tornare alle loro case poiché non sono state ancora ricostruite. Ma ci sono anche musulmani che non possono tornare alle case anche se le loro case erano state risparmiate dalla distruzione. La ragione è che le autorità locali non danno loro il permesso per tornare nei quartieri a maggioranza buddista dove affermano che la loro presenza potrebbe esacerbare le tensioni tra le comunità.
La casa che appartiene a War War, una madre di 42 anni, si regge ancora nel quartiere Yan Myo Aung a Meikhtila centrale. Suo marito si reca al lavoro ogni giorno, ma lei e la sua famiglia non possono tornare perché il capo quartiere non dà loro il permesso. “Gli abbiamo chiesto da mesi di poter andare a casa, ma lui dice che i buddisti del quartiere non vogliono che torniamo. Dicevano che c’era stato un incidente che coinvolgeva una famiglia musulmana. Ma noi abbiamo fatto visita al nostro vecchio quartiere ed i vicini ci hanno detto che ci vogliono di nuovo lì”.
Il capo del quartiere è un anziano buddista, U Chaw. Ha detto che nell’area di sua competenza dove i buddisti sono la maggioranza, furono distrutte una trentina di case, 23 di proprietà dei musulmani e non ci sono state ricostruzioni finora. “I musulmani non possono ritornare indietro poiché è un quartiere a maggioranza buddista. Ma sarà loro permesso di tornare una volta che sarà ricostruito tutto.” ha detto l’uomo.
U Chaw afferma di seguire gli ordini dall’alto e le richieste della popolazione buddista di questo quartiere quando nega alle famiglie musulmane l’opportunità di tornare a casa. Un’altra ragione che sta sotto, ha detto, era che l’imam del posto era stato scoperto mentre entrava a casa sua con 30 galloni di petrolio ed un coltello. “La gente teme che i musulmani che tornano faranno qualcosa. Ci vorrà molto tempo per ricostruire la fiducia tra le due comunità.”
Un vicino dell’imam in questione, Kyaw Myaing, ha detto: “Non abbiamo mai avuto problemi con quell’uomo prima della violenza. Era rispettato ed ognuno andava d’accordo con lui”.
Come tutti gli altri residenti del quartiere intervistati, Kyaw Myaing dice di non accusare i loro vicini musulmani per le violenze dello scorso anno. Dice che erano le autorità locali che non vogliono vedere il ritorno dei musulmani. Cionondimeno ammette: “Ci potrebbero essere dei guai se i musulmani ritornano al quartiere. Nessuno però dei buddisti residenti aggiunge altro sui possibili guai che intravedono. Si ammette in genere che benché loro non abbaino odio o sfiducia verso i loro ex vicini, la maggioranza dei residenti ha paura delle conseguenze se le famiglie musulmane dovessero tornare.
Nel frattempo, anche alcuni profughi buddisti cominciano a perdere la speranza di tornare alle proprie case. Il solo centro per i rifugiati buddisti è Inn Gone che ospita 457 rifugiati. La popolazione del campo è cresciuta sin da quando aprì un anno fa per la nascita di alcuni bambini.
Il responsabile del campo Poe That, padre di tre figli che gestiva un negozio di prodotti per la casa prima della violenza. “Ero molto depresso dopo i disordini che non riuscivo a lavorare. Sono finito come capo del campo, ma è davvero difficile poiché le persone sono difficili da controllare”.
Phoe That viveva in un quartiere a maggioranza musulmana, e secondo il suo racconto aveva da sempre buone relazioni con i suoi vicini ed ancora va d’accordo con loro quando fa visita al vecchio quartiere. Dice di aver perso la casa il 22 marzo dello scorso anno, quando un gruppo di persone che non aveva mai visto prima accesero le case del quartiere. “Erano molto brutali e credo che avevano preso delle droghe. Ero troppo preoccupato di difendere la casa mia per sapere per certo se fossero musulmani o buddisti, ma credo fossero buddisti. Cominciarono ad incendiare le case dei musulmani e li scongiurai di non bruciare la mia, perché ero troppo povero, ma uno di loro mi disse: non preoccuparti, il governo ricostruirà casa tua. E loro continuarono e la buttarono giù comunque.”
Oltre casa sua e il negozio dove lavorava, Phoe That diceva di possedere quattro case che voleva dare ai propri figli, ma tutte furono distrutte e nessuna è stata ancora ricostruita ancora. “Mi rattrista che non ho più case da offrire ai miei figli. Se le autorità potessero ricostruire tre case, sarebbe abbastanza per me.”
Dopo un anno tante case devono ancora essere ricostruite a Meikhtila. Ma non erano solo case: anche modo per sostenersi. Ad essere distrutto è anche lo spirito di coesistenza pacifica tra le comunità musulmane e buddiste.
Le autorità locali non sembrano comprendere cosa voglia dire lo sforzo di ricostruire qualcosa.
CARLOS SARDINA GALACHE, DVB