Toleb Sape-ing, con le gambe prive di sensibilità e le spalle sanguinanti, aveva due opzioni: far cadere la sua moto pretendendo di essere morto, oppure avrebbe potuto continuare a guidare e finire davvero morto.
Toleb, un ex detenuto per sicurezza, era stato appena sparato tre volte ed una dei proiettili si era conficcato nella sua colonna vertebrale. Mentre la macchina dei suoi esecutori era alle sue spalle, lui sapeva che se non avesse provato a sembrare morto, avrebbero completato loro il lavoro.
Toleb non ebbe alcuna esitazione. Spinse la moto verso il ciglio della strada e si lasciò andare giù pesantemente.
“Dopo che caddi, rimasi completamente immobile. Gli esecutori passarono lentamente con finestrino abbassato per verificare che fossi morto. Non spararono un’altra volta” dice Taleb.
Toleb, che viene dal villaggio Sa-i del distretto Krong Pinang della provincia di Yala, percorreva la strada per andare alla vicina Bannang Sata durante il Ramadan dello scorso anno quando accadde la sparatoria. Dice di essere stato fortunato perché è sopravvissuto sebbene ora sia paralizzato dalla cintola in giù.
Sin dagli inizi del 2013 sono stati sparati ed uccisi sei ex detenuti nelle province meridionali di Yala, Narathiwat e Pattani secondo Il Centro Legale Musulmano (MAC) che dà assistenza legale ai musulmani arrestati dalle forze di sicurezza. Altri tre ex detenuti, tra i quali Toleb, sono stai individuati come obiettivi ma sono sopravvissuti agli attacchi.
Nella maggioranza dei casi ci sono pochissime prove che indicano chi abbia potuto portare avanti l’attacco. Allo stesso modo, chi monitora i diritti dice che i corpi dello stato incaricati di trovare i responsabili non sono riusciti a perseguire le indagini legittime.
Questo a sua volta ha portato ai diffusi sospetti nella comunità musulmana che membri delle forze armate, della polizia locale e di forze paramilitari siano i reali protagonisti degli attacchi. Anche i difensori dei diritti cominciano a notarlo.
“Non abbiamo prove a sufficienza per confermare” i responsabili, dice Sunai Phasuk di HRW ma è chiaro che sono ex detenuti ad essere preda di questi attacchi.
Ismail Pauhmanis, marito di Izahy Wanying, un ex detenuto, era stato liberato da nove mesi quando degli uomini mascherati in nero giunsero a casa sua una mattina presta di giugno dell’anno scorso. Ismail era un Imam e insegnante di una scuola islamica a Pulakasing nella provincia di Pattani. Era stato coinvolto in una campagna contro la droga che avrebbe potuto tirare l’attenzione della mafia locale con dei legami alle forze di sicurezza o all’insorgenza, dice sua moglie.
La mattina in cui venne ucciso due uomini lo chiamarono per nome dall’esterno della casa. “Dopo che Ismail aprì la porta, quegli estranei lo uccisero” dice Izahy che se ne stava a letto in quel frangente. “Un proiettile mi aveva colpito allo stomaco, ma non mene accorsi finché non provai ad alzarmi… Mi incamminai verso la porta e vidi il suo corpo steso sul balcone”
I testimoni dissero che due uomini su due motociclette erano appena scappati dal luogo, ma non è stato arrestato alcun sospettato. Izahy è attenta ad usare soltanto la frase “Estranei in nero” per riferirsi agli assassini di suo marito per paura di una vendetta.
Eppure vuol sottolineare un punto: “Mio marito era un docente non un insorto”.
Insorto o meno, il retroterra delle vittime non dovrebbe essere una scusa per le autorità ed evitare di fare giustizia, secondo HRW. “Indipendentemente da chi siano le vittime ci dovrebbero essere delle indagini serie della polizia” dice Sunai. “Fintanto che le autorità non riescono ad indagare quei casi continuerà a crescere il sospetto nella comunità musulmana che gli ex detenuti siano le vittime di esecuzioni extragiudiziali alimentando così la radicalizzazione.”
“Dopo l’esecuzione dei primi tre detenuti lo scorso anno, il resto di noi detenuti a Yala ci incontrammo per discutere come proteggerci e restare vivi” ha detto Thammarat Alilateh, ex detenuto e membro del gruppo JOP, rete per perseguire la giustizia per la pace, che assiste i musulmani che sono stati in carcere per questioni legate alla sicurezza nel meridione thailandese.
Messosi alla ricerca di un sostegno governativo, Thammarat si rivolse al Centro Amministrativo delle province di confine meridionale, SBPAC, che diede una risposta che lui cercava.
“Dopo il terzo omicidio inviai una lettera al SBPAC per avere aiuto. A causa di quella lettera venni tenuto in carcere per una settimana” dice Thammarat. Il problema secondo lui è che i membri delle forze di sicurezza continuano a “considerare male” e a “restare sospettosi” degli ex detenuti anche dopo che il loro processo li ha assolti.
Abdulqahhar Aweaputeh, un avvocato del MAC, dice che dopo che i musulmani sono rilasciati dal carcere “la polizia ed i soldati interferiscono ancora con le loro vite e li sospettano ancora di essere separatisti.”
“Ogni volta che c’è uno scontro, polizia e soldati vanno sempre per prima alle loro case per chiedere di loro e che cosa facessero al momento degli scontri.” dice l’avvocato.
Sureeman Sulong, un altro detenuto del villaggio Chelong del distretto Kroing Pinang, dice che la gram parte degli ex detenuti vuole tornare alla loro vita normale dopo essere stati rilasciati, ma non possono a causa del continuo tormento. “Talvolta, se gli ufficiali della sicurezza accusano di continuo qualcuno di essere juwae, cioè un insorto musulmano, alla fine lo diventa dopo essere stato in contatto con gli ufficiali della sicurezza. Poiché disturbano le nostre vite immensamente” dice Sureeman.
L’idea prevalente tra chi monitora di diritti e tra la comunità musulmana è che membri impazziti delle forze di sicurezza decidono di fare da sé e conducono gli omicidi extragiudiziali di ex detenuti ogni volta che le prove per condannarli in tribunale non sono sufficienti.
Ekkarin Tuansiri direttore di Patani Forum dice che gli ex detenuti sono stigmatizzati dalle forze di sicurezza e che questi attacchi contro di loro avvengono in risposta ad un soldato o una forza paramilitare uccisa. “Usano questa violenza quando i loro amici sono stati uccisi” dice aggiungendo che invece di seguire il protocollo o di cercare prove, le forze di sicurezza agiscono in base “alle emozioni e alla rabbia” in questi casi.
“Vogliono fermare gli ex detenuti perché credono che quando i detenuti muoiono allora si ferma tutta la violenza e gli omicidi.” aggiungendo che qualunque musulmano che muore in queste operazioni può essere facilmente definito juwae. “Non è solo una questione di abusi dei militari, ma anche della polizia, delle amministrazioni e dei volontari della difesa. Tutti possono operare nella completa impunità mentre i musulmani semplicemente sospettati finiscono per morire o scomparire” dice Sunai. “Questa è la ragione per cui i Musulmani affermano di essere stati trattati e di essere ancora trattati come cittadini di seconda classe”.
La direttrice di Cross Cultural Foundation, Pornpen Khongkachonkiet, dice che i poteri enormi garantiti alle forze di sicurezza secondo la legge marziale sono la causa principale delle violenze correnti e delle restrizioni “alla libertà di movimento”.
“I militari possono arrestare chiunque senza alcun controllo dalle altre agenzie dello stato.” dice. La legge marziale permette loro di “Arrestare una persona senza dare i loro fondamentali diritti umani che garantiamo secondo la legge e la costituzione. Per esempio i diritti ad incontrare un avvocato, un dottore indipendente, le proprie famiglie per un tempo appropriato …. Abbiamo un sacco di rapporti di tortura e trattamenti malvagi di detenuti. Come se avessimo Guantanamo a Yala e Pattani e Narathiwat.”
In un conflitto di bassa intensità lungo una decade nelle province di frontiera del meridione sono state uccise oltre 5500 persone tra separatisti e forze di sicurezza.
Si è continuato ad estendere la legge marziale “senza una revisione o una valutazione se abbia contribuito alla pace o a maggiore violenza” dice Pornpen.
Una cosa è chiara. “I militari si sentono a proprio agio qui nel meridione” dice la direttrice, ma per Toleb essere a proprio agio si è dimostrato difficile da quando è stato sparato.
Ora che è paralizzato passa i giorni e le notti su una piattaforma rialzata presso la casa del fratello. “Non posso fare nulla. Siedo qui tutto il giorno e prego. Leggo il Corano e prendo piccole per il dolore.”
Will Baxter, Rough justice rules over southern Thailand, UCANEWS