La paura che il gruppo islamico radicale IS possa diffondersi nel Sud-est Asiatico è vasta, e ultimamente si sa che i militanti malesi e indonesiani aderenti all’IS hanno dato vita ad una unità militare di lingua malay denominata Unità dell’arcipelago Malay per lo Stato Islamico. Questa unità si sarebbe formata il mese scorso e sarebbe formata di 22 persone. Su facebook sarebbe stata pubblicata una foto di due militanti indonesiani.
Ad unirli sarebbe stata la necessità di comunicazione degli indonesiani che hanno in genere poca conoscenza dell’arabo o dell’inglese.
Il gruppo si sarebbe dato lo scopo di reclutare e favorire la partenza di militanti verso la Siria a difendere il califfato islamico. Ci sarebbero secondo queste fonti un centinaio di persone tra indonesiani e malesi che lottano in Siria.
Il responsabile della sicurezza indonesiana non ha fatto commenti ma ha comunque affermato che la preoccupazione grande è di ciò che faranno una volta a casa questi militanti. E’ una minaccia molto simile ai militanti della Jemmah Islamiah quando tornarono in patria dalla guerra in Afghanistan negli anni 90.
Secondo vari esperti, diversamente dalla JI degli anni 90 i militanti dell’IS hanno esperienza diretta di combattimento e i legami tra regioni potrebbero essere molto più forti di quelli di un tempo col rischio che queste avanguardie presenti in Iraq e Siria potrebbero trasformarsi in una forza di combattimento che raggiungerebbe la Malesia, l’Indonesia e Filippine.
Al momento però non si hanno prove che ci siano filippini nell’unità anche se il gruppo di Abu Sayaff ed il gruppo BIFF hanno promesso l’alleanza con l’IS. Il gruppo di Abu Sayaff, più noto per le sue azioni di rapimento ed estorsione che per la militanza, hanno minacciato di decapitare i loro ostaggi tedeschi se la Germania non smetterà di sostenere gli attacchi contro l’IS insieme agli USA.
Qui di seguito presentiamo un articolo dello storico Farish Noor apparso su New Straits Times
“La normalità prima della moderazione“
Ora che è in corso la campagna internazionale contro il gruppo islamico radicale IS, o Califfato Islamico, c’è un gran parlare della strategia militare e dei metodi che si possono pensare ed usare contro il gruppo per contenere la sua avanzata nel mondo arabo. Mentre molti governi nella regione e al di là sono giunti a percepire la IS come una minaccia esistenziale ai loro stati e governi, sembra esserci meno consenso sul cosa c’è da fare e che tipo di pressione militare deve essere posta su di esso.
Si è parlato di missioni aeree, dei droni, di arme ad alto contenuto tecnologico e simili per prevenire che il movimento si solidifichi in qualcosa che somigli ad una forza armata, ma questo approccio considera l’IS, per prima cosa, una forza militare.
Il problema di questo approccio è che non tiene conto dell’economia politica dei movimenti radicali e di come spesso si sviluppano e crescono in stati di crisi e di violenza in primo luogo. Qui è il momento di ricordare i fatti fondamentali: il fenomeno IS è complesso che ha molte sfaccettature; da un lato c’è il fenomeno strano di persone giovani istruite dei paesi sviluppati che viaggiano in Siria ed Iraq per coinvolgersi nelle battaglie lì. Ma si deve ricordare che il movimento ha una faccia organica che è emersa dal caos e dall’instabilità in parti del mondo arabo stesso. Abbiamo bisogno di ricordare che per molti sostenitori arabi e membri dell’IS la transizione di unirsi ad un gruppo radicale militante non è in primo luogo una differenza fenomenale.
Non è il primo gruppo militante radicale a comparire in quella parte del mondo e, anche se è sconfitto militarmente, potrebbe non essere l’ultimo.
Fino a quando non ci sarà un apparato dello stato che è capace di dare dei servizi che ci si attende da uno stato, come servizi sanitari, istruzione e sicurezza pubblica, le condizioni resteranno sempre favorevoli all’emergere del radicalismo.
Qui abbiamo bisogno di apprezzare gli effetti prolungati della violenza normalizzata e della rottura dello stato: per migliaia di iracheni, la violenza è diventata cosa comune e parte della routine della loro realtà giornaliera da più di un decennio. Dobbiamo capire che un bambino iracheno nato nel 2000 avrebbe sperimentato la violenza in modo regolare per oltre un decennio. Ci sono bambini che hanno vissuto in zone di guerra e per i quali lo spettacolo delle sparatorie, delle bombe, degli attacchi suicidi e di violenza indiscriminata è diventato una cosa normale, un’occorrenza di ogni giorno, e per i quali la violenza è la nuova norma. Sotto queste circostanze non è difficile capire come e perché tanta gente giovane che vive in quelle parti del mondo vede la militanza come un’alternativa comune alle loro vite che sono già private di speranze e di prospettive per il futuro.
Non ci possiamo seriamente attendere che giovani in luoghi del genere non si rivolgano alla violenza, fintanto che la regola della violenza resta la sola norma ad operare nella società. Una volta che l’ordine è stato distrutto e lo stato è incapace di proteggere la propria gente, la regola della violenza diventa il metodo più veloce per stabilire una parvenza di ordine in zone di conflitto. Questo non si applica solo a luoghi come l’Iraq e la Siria, ma anche in altre parti dell’Africa.
Nel mio lavoro sulla violenza politica, ho vissuto, fatto ricerche e lavorato in tali luoghi, dove i bambini non sanno più cosa assomiglia una vita normale. In alcuni casi ho visitato zone di conflitto dove qualcosa di comune come andare a scuola è considerato un privilegio straordinario al di là della comprensione dei molti.
La consideriamo una cosa scontata che i nostri bambini possano andare a scuola, studiare e tornare a casa salvi ogni giorno. Eppure comprendiamo che per migliaia di persone al mondo il semplice atto di andare a scuola, apprendere una lezione e tornare vivi a casa è un gioco d’azzardo che devono far ogni giorno? In tali circostanze non possiamo cullar la speranza che i gruppi radicali come IS svaniscano semplicemente se sono bombardati fino a sottomettersi, perché proprio l’atto di bombardarli, in primo luogo, solo riproduce e perpetua il ciclo della violenza di routine che era una delle cause radicali del radicalismo.
Quindi mentre c’è ora una campagna per restaurare la “moderazione” nella condotta e la prassi della politica e del governo nel mondo arabo, abbiamo bisogno di cominciare a stendere le fondamenta di una vita normale per milioni di persone che sono state cacciate dalle loro case, traumatizzate e derubate della loro istruzione per anni.
Per la maggioranza di noi che viviamo in paesi che sono stati risparmiati dalla rovina della guerra, i resoconti giornalieri che riceviamo di attacchi con bombe, di uccisioni e di violenze di massa in altre parti del mondo sono abbastanza inquietanti, ma provate ad immaginare, se volete, le vite di quelli che non hanno conosciuto che guerre sin dalla loro fanciullezza, e per i quali andare a scuola, avere un libro da leggere e un insegnante che ti insegna sono un lusso al di là della loro immaginazione.
Per questa ragione la campagna di salvaguardare e normalizzare la vita in Siria ed Iraq deve essere una comprensiva che tiene conto dell’economia politica della situazione e dei bisogni della società delle persone lì: Quello di cui questi paesi hanno bisogno non è solo pace, ma in termini reali di insegnanti, lavoratori sociali, dottori ed altre risorse umane composite per restaurare in loro un senso di normalità che è negato loro da tanto.
Il non riuscire ad affrontare queste paure ci può solo portare ad un’altra campagna militare che può aver successo nei campi di battaglia, ma non si radica nei cuori e nelle menti delle persone stesse.
FARISH NOOR