Nonostante il tentativo spaccone e grottesco di portare pace e felicità attraverso il silenzio e la repressione, quasi tutti, per tutto lo spettro politico del paese, sono d’accordo che la crisi senza fine è un epifenomeno di una frattura profonda nella società Thailandese. La mia tesi qui è che questa frattura è stata aperta da un’oscillazione che continua tra due strutture sociali, intese come “un insieme di idee sulla distribuzione di potere” (Leach 1954, 4) e sulle tecniche concrete di mobilitazione della popolazione e di governo della nazione. Da un lato c’è una struttura sociale che concettualizza il potere come originato dal Barami, un carisma che proviene dalla condotta morale e risiede nelle “persone morali” (Khon dī). Dall’altro c’è una struttura che concepisce il potere che risiede nella capacità di mobilitare masse, sia attraverso l’influenza ed il patronato o attraverso elezioni democratiche. La prima struttura è quella che sta al di là della retorica e delle pratiche delle Magliette Gialle e le elite tradizionali, della loro richiesta di capi morali e la loro sfiducia nella democrazia elettorale e l’odio del “Sistema di Thaksin” (rabop Thaksin, in riferimento all’ex premier Thaksin Shinawatra). L’ultima anima le richieste delle “Magliette Rosse” di rispettare i risultati elettorali e di metter in discussione le ineguaglianze economiche, politiche e legali.
Queste due strutture sociali, comunque, non esistono come realtà distinte ma come “modelli ideali” che orientano la pratica politica. In altre parole Barami e sostegno popolare sono coesistite e continueranno a coesistere nella società thailandese, ma il loro bilancio è sempre in movimento. La crisi attuale è una lotta a cosa questo bilancio possa assomigliare nel presente e nel prevedibile futuro.
Fino ai primi anni 2000, l’equilibrio tra questi due modi di organizzare e legittimare il potere girava attorno alla figura del Re Bhumibol Adulyadej come centro e fonte ultima del Barami, come pure detentore di un sostegno popolare ineguagliato, descritto come “super mandato dalla popolazione .. che supera i mandati elettorali dei capi politici” (McCargo 2005, 505). Questa posizione è stata chiara nel terremoto politico che scosse le istituzioni thai negli anni 70 e negli anni 90. In entrambi i casi Bhumibol poté sistemarsi come ultimo arbitro e mediatore, sovrintendendo al modo in cui la struttura sociale sarebbe oscillata, o verso la politica democratica dopo la crisi del 1992, o verso la dittatura della “persone morali” dopo gli anni 70.
Comunque a causa della salute sempre più precaria del re, della crescita della coscienza politica tra la popolazione thailandese e della chiara ed insolita presa di posizione del palazzo sin dal 2005, questo ruolo è stato messo in discussione.
Come conseguenza, disancorata dal primato di Bhumibol, la struttura sociale del paese ha cominciato ad oscillare più verso un’idea di potere legittimato con l’abilità di mobilitare persone piuttosto che dal Barami. La crescita delle accuse di lesa maestà sin dal 2006 per mettere in silenzio i critici, e la crescente domanda sul ruolo del palazzo nella politica, sono reazioni alle difficoltà crescenti della monarchia di operare come uno stabilizzatore. La repulsione delle Magliette Gialle verso il sistema Thaksin, che vedono come un voler sostituire la “autorità morale” con l’abilità corrotta populista di mobilitare il sostegno, è solo un’altra reazione a questa oscillazione.
Simultaneamente, l’idea che il potere dovrebbe originarsi dal sostegno popolare piuttosto che da un carattere morale innato, ha guadagnato forza attorno alla figura di Thaksin. Un imprenditore delle comunicazioni e figlio di una ricca famiglia politica proveniente dalla Thailandia Settentrionale, Thaksin è diventato il primo premier della storia della Thailandia a completare un intero mandato. Nella sua seconda elezione del 2006, ottenne una vittoria da partito unico senza precedenti, e attraverso capi delegati ha vinto ogni singola elezione che si è tenuta da allora. Sebbene molti dei suoi sostenitori riconoscano che possano essere accurate le affermazioni delle Magliette Gialle, secondo cui Thaksin sia coinvolto nella corruzione durante il suo governo, sostengono che la sua vittoria elettorale deve essere rispettata e che queste accuse devono essere provate attraverso procedimenti legali equi e non attraverso colpi di stato militari o giudiziari.
Mentre le analisi attuali riconoscono questo spostamento nei modi in cui si organizza il potere nella Thailandia contemporanea, esse spesso si soffermano su attori specifici, gruppi sociali e strati sociali, che siano elite, burocrati e masse sociali, piuttosto che sullo spostamento nelle strutture sociali stesse. Nel fare così confondono gli alberi per la foresta. Soffermandoci sul ambio strutturale invece riconosciamo non solo la posizione degli individui nel sistema sociale ma anche, come sostiene Leach, “i cambiamenti nello stesso sistema ideale: cambiamenti cioè nella struttura di potere” (Leach 1954,10). Tali cambiamenti, suggerisco io, sono il motore che fa girare la ruota della crisi thailandese, un motore che si muove in modo oscillante, non in una progressione lineare.
Una visione lineare del cambiamento di struttura è stata l’altra mancanza delle analisi attuali. Persino studiosi che riconoscono la lotta emergente tra “la concezione tradizionale di uno stato autoritario paternalistico stratificato dove il potere si emana dal re” e “le richieste di sovranità popolare come base della legittimità” (Dressel 2010, 446, 447) nei fatti assumono una progressione teologica da una all’altra. I bambini della teoria della democratizzazione non riescono a riconoscere che le trasformazioni politiche in Thailandia sin dalla fine della monarchia assoluta sono accadute come “ondeggiamenti graduali del pendolo, con conservatorismo dittatoriale generalmente sostenuto dalle forze armate che si alternano a un governo più democratico” (Stent 2012,22).
Quello a cui ora siamo testimoni è una tale oscillazione, tanto violenta quanto quella che accadde con la fine della monarchia assoluta nel 1932 e con la sanguinosa lotta degli anni 70 e tanto egualmente incerta ed impermanente. Come dimostra il ciclo senza fine di elezioni, protesta, colpi di stato militari, colpi di stato giudiziari ed ancora colpi di stato militari, l’esito ultimo è in palio. Mentre entrambi gli schieramenti provano a far oscillare il pendolo dalla propria parte, comunque, resta il rischio che un equilibrio instabile, che governò lo stato thai sin dalla sua trasformazione in monarchia costituzionale, sarà distrutto in modo irreparabile.
Claudio Sopranzetti, La legittimità politica in Thailandia, della serie Il Ciclo della Crisi in Thailandia.
Riferimenti
Dressel, Björn. 2010. “When Notions of Legitimacy Conflict: The Case of Thailand.” Politics and Policy 38, no. 3: 445–69.
Leach, Edmund. 1954. Political Systems of Highland Burma. London: George Bell & Sons.
McCargo, Duncan. 2005. “Network Monarchy and Legitimacy Crises in Thailand.” Pacific Review 18, no. 4: 499–519.
Stent, James, 2012. “Thoughts on Thailand’s Turmoil, 11 June 2010.” In Bangkok May 2010: Perspectives on a Divided Thailand, edited by Michael J. Montesano, Pavin Chachavalpongpun, and Aekapol Chongvilaivan, 15–41. Singapore: Institute of Southeast Asian Studies.