E’ un’azione tanto assurda quanto la pretesa dei golpisti thailandesi che affermano che il loro intervento era per salvare la democrazia.
Siamo nel XXI secolo da quasi due decadi ormai, ma la lotta per la democrazia nel Sudestasiatico continua a combattere contro forti venti contrari. Talvolta, come in Thailandia dove i militari hanno preso il potere lo scorso maggio, si è avuto un’inversione completa di rotta. In Indonesia dove un presidente popolare trasferirà il potere a breve ad un altro dopo elezioni libere e quasi del tutto eque, la correzione improvvisa di rotta forzata da un parlamento dominato da forze conservatrici ha messo paura a tutti preoccupati per il futuro.
Un politico saggio e di esperienza della regione una volta disse che la lotta per la libertà era come guidare un’auto in salita, senza poter mai sapere quando togliere il piede dall’acceleratore. Discutibilmente è un saggio avviso a tutti i democratici ovunque, ma è particolarmente istruttivo nel sudestasiatico dove, dalla fine dell’era coloniale, tre generazioni di militanti sono incarcerati, torturati o uccisi perché credono nella libertà per vedere che i loro paesi sbandano dal trionfo del potere popolare al tradimento e alla regressione.
Non è la stessa cosa in altre parti del globo dove si è lottato per la democrazia ed è fiorita dopo un periodo simile. Le transizioni sono reali e sostenute. In Cile ed Argentina le vittime della repressione ricevono almeno un po’ di giustizia. Il presidente keniano accusato si è presentato di recente alla Corte Penale Internazionale.
Qui nel sudestasiatico la parola transizione conferisce più ambiguità. Il potere cambia mani più facilmente, ma resta concentrato nelle mani di pochi. Nessun tentativo di eradicare la corruzione va al di là di una cosa superficiale e la punizione dei pesci piccoli. Prevale impunità mentre si chiede alle vittime della repressione politica di seppellire il passato per evitare di aprire vecchie ferite.
Quindi mentre gli indonesiani celebrano l’elezione di un nuovo genere di politici che provengono dalla base a presidente, un uomo che presumibilmente ha a cuore la sua gente, le atrocità della violenza passata sin dagli anni 60, in cui almeno 2 milioni di indonesiani sarebbero scomparsi, non furono neanche prese in considerazione come importanti da essere presentati nella campagna elettorale.
L’occidente sviluppato applaude a quello che più gli aggrada che di solito è preciso e buono agli affari. L’influenza della Cina ora si erge sempre più grande nella regione mentre strade buone e treni superveloci cominciano a forare le province un tempo remote. Gli investimenti ed il commercio cinesi come pure il sostegno strategico trovano una presa maggiore in luoghi dove la democrazia è in affanno. Di conseguenza gli USA, il cui scopo è di bloccare l’ondata dell’influenza cinese in nome della libertà, è costretta a chiudere un occhio sugli abusi dei diritti umani per rafforzare le vecchie alleanze e costruirne di nuove, come nel caso del Vietnam dove l’amministrazione Obama ha appena annunciato un allentamento del divieto di vendita di armi.
Nel frattempo la società civile lotta continuamente per farsi sentire in tutta la regione. Gli attivisti rumorosi sono o arrestati o semplicemente scompaiono, come era il caso di attivisti dell’ambiente scomparsi di recente in Thailandia e Laos. La denuncia pubblica di ingiustizia o ineguaglianza è considerata spesso non patriottica o sconveniente economicamente. Eppure, in una sfida senza eguali a ciò, un gruppo di cambogiani ha lanciato alla corte penale internazionale una denuncia secondo cui «l’elite al governo ha illegalmente sequestrato e ridistribuito milioni di ettari di terra di valore dai più poveri cambogiani per sfruttamento o speculazione dei propri membri o di investitori internazionali»
Luci puntiformi rompono la nebulosa alba democratica, ma è quasi tutto. Nel frattempo in Thailandia la legge marziale resta funzionante ed è illegale la riunione di più di cinque persone, come pure sono state arrestate persone singole per aver mangiato panini in pubblico. In Birmania dove la transizione democratica si dice vada avanti, i giornalisti sono oggetto di persecuzione e sono condannati al lavoro forzato.
In questo mese una corte malese con tutta probabilità incarcererà il capo dell’opposizione malese Anwar Ibrahim, il cui partito ha vinto il voto popolare nelle ultime elezioni. E i legislatori indonesiani considerano che, dopo un decennio di sindaci e rappresentati locali popolarmente eletti, sia tempo di ritornare all’antico e farli nominare.
Non è la popolazione a chiedere tutto questo cambiamento. Un ex ufficiale Birmano che parlava ad una conferenza della società civile a Bali, davanti al fortemente controllato Forum Della Democrazia la mette così: Quello che la gente vuole è un governo capace, efficiente, accessibile, che si prende cura, responsabile e possibilmente rimpiazzabile.
Comunque per le elite al potere nella regione è proprio l’ultimo punto, una genuina forma di democrazia, che è difficile da ingoiare. Il potere può essere tenuto in modo responsabile, persino in nome del popolo, ma non è facilmente cedibile. Da ex presidente indonesiano, Megawati Sukarnoputri una volta disse ad un collega che tutto quello che è fondamentale è di lasciare entrare un po’ di luce nel sistema.
Michael Vatikiotis, New Mandala