Dal 15 ottobre scorso, secondo Chris Lewa di Arakan Project, avrebbero lasciato lo stato Rakhine o Arakan almeno 12 mila persone. Altre 4000 persone tra Rohingya e gente del Bangladesh avrebbero lasciato le coste del confinante Bangladesh nello stesso periodo.
La direzione di tutti è la Malesia sebbene la maggior parte passi per la Thailandia, dove trafficanti di schiavi li trattengono in campi nella giungla del meridione thailandese fino a quando i parenti non pagano una cifra di riscatto.
A novembre 460 persone furono trovate e detenute dalle autorità thai, ma altre migliaia sembrano non non aver toccato terra o non hanno contattato i parenti dopo una traversata che in media dovrebbe durate cinque giorni.
In quell’occasione il primo ministro disse che tante barche erano state respinte in mare dopo aver dato loro carburante e alimenti.
Secondo Lewa, sia i militari che le guardie di frontiera dello stato Rakhine sono molto attivi in una campagna «per creare paura e spingerli a lasciare» il paese. Si conoscono almeno 4 uomini Rohingya torturati a morte e fatti scomparire nel fiume. Altri giovani fermati e picchiati dalla polizia di frontiera e dai militari senza ragione. In altri villaggi almeno 140 persone sono state arrestate con accuse pretestuose che andavano dall’immigrazione clandestina ai legami con i militanti islamici.
Attualmente, dopo i disordini etnici del 2012, 140 mila Rohingya furono cacciati dalle proprie case e vivono in campi di concentramento in condizioni squallide, senza accesso al lavoro, alla salute o all’istruzione.
Ultimamente con la visita di Barack Obama in Birmania, il presidente americano ha denunciato le condizioni di discriminazione ed ha invitato i capi birmani a garantire ai Rohingya uguali diritti. Simili dichiarazioni sono state fatte dal segretario generale dell’ONu durante la sua visita in Birmania. La risposta del governo è la creazione di un piano Rakhine Action Plan che prevede la cittadinanza, neanche piena, a chi riesce a dimostrare di aver vissuto sempre lì. Chi non si adegua sarà classificato come Bengalis e soggetto alle leggi della deportazione.
Stando alle dichiarazioni di due ufficiali militari thailandesi alla Reuters, i militari hanno posto in essere condizioni che impediscono alle barche di avvicinarsi alle coste thailandesi. Il portavoce dell’ISOC, comando delle operazioni di sicurezza interna, Banpot Phunpian ha detto che la marina è addestrata ad avvisare la ciurma sulle barche a non gettare l’ancora in Thailandia e di avere i diritto di bloccarle nelle zone pattugliate.
«Se provano a venire nel nostro paese illegalmente non abbiamo il diritto di bloccarli? se sono in mare che pattugliamo possiamo impedire loro di entrare».
Sajeda è una donna che vive a Thae Chaung, un villaggio di pescatori trasformato in un campo pieno di Rohingya senza più casa dal 2012. Ha salutato il 18 ottobre il figlio di 13 anni che è salpato con un peschereccio con altri 62 Rohingya tra i quali vi erano anche donne con bambini piccoli che speravano di riunirsi con i mariti in Malesia.
Il peschereccio era salpato per andare ad una nave più grande ancorata a largo che li avrebbe fatto attraversare Il Golfo del Bengala.
Del figlio Mubarek Sajeda non sa più nulla. «Sto impazzendo per la preoccupazione» dice. La preoccupazione sul destino di tanta gente non ferma l’esodo ma lo rallenta appena.
Giornalisti della Reuters hanno visto gente Rohingya radunarsi a bordo di una barca a Ohn Taw Gyi, un villaggio poco distante da Thae Chung, da cui almeno un’altra barca sarebbe salpata nelle due settimane precedenti.
http://www.reuters.com/article/2014/11/15/us-myanmar-rohingya-idUSKCN0IZ0AH20141115
http://www.huffingtonpost.com/2014/11/17/myanmar-rohingya_n_6171240.html