Un viaggio nel Rakhine in un periodo di tempo sull’ abisso del genocidio dei Rohingya
Guidando per Sittwe, la capitale provinciale piena di polvere dello stato Rakhine in Birmania, si può notare un piccolo manifesto affisso su quasi ogni negozio e casa.
Si legge in inglese “Carta bianca” e avvisano tutti i passanti che gli occupanti del palazzo stanno dalla parte del governo con gli sforzi ultimi per impedire alla minoranza Rohingya, il più bistrattato e minacciato gruppo etnico religioso della Birmania, di partecipare alle elezioni prossime nazionali. Infatti la maggioranza dei Rohingya sono apolidi, e “carta bianca” si riferisce ai documenti di identità speciali emessi dal governo al posto di quelli normali dei cittadini birmani.
Alcuni mesi fa le autorità decisero che i detentori della carta bianca non avrebbero potuto partecipare alle elezioni nazionali previste, escludendo di fatto la grande maggioranza dei Rohingya.
Mentre si continua a guidare, la cacofonia dei mercati e dei tricicli a motore lasciano spazio alla quiete delle strade sterrate e, alla fine, ad un blocco stradale improvvisato con filo spinato che separa i 150 mila Rohingya dal mondo esterno.
L’autista buddista, appartenente alla maggioranza etnica dello stato Rakhine, si rifiuta di andare oltre la linea di demarcazione in uno dei più grandi assembramenti di campi di internamento, un riconoscimento implicito che non si sente al sicuro a procedere nella comunità Rohingya.
In modo simile la guida Rohingya rifiuta di lasciarmi troppo impaurito delle conseguenze della possibilità d’essere scoperto fuori dei campi. “Vogliono che ce ne andiamo tutti via” è la spiegazione migliore che uno degli abitanti dei campi da per i suoi tre anni di internamento.
I Rohingya incontrati dentro il campo lo chiamano “la prigione all’aperto”. Sono stati internati qui dentro sin da una serie di incidenti interetnici nel 2012 che videro decine di Rohingya uccisi e la distruzione di case e proprietà di oltre 140 mila persone. Molte persone descrivono come i loro vicini Rakhine hanno perpetrato le violenze, mentre altri raccontano del coinvolgimento della polizia e di altri agenti del governo. Una donna ricorda una brigata di pompieri che si avvicinò quando le case dei Rohingya furono date alle fiamme. Invece di spegnerle gettarono benzina diffondendo le fiamme.
Non c’è da meravigliarsi che tanti Rohingya scappano per disperazione su imbarcazioni precarie che diventano trappole mortali. La loro storia grigia si erge in grande contrasto col racconto ufficiale che emerge dalla Birmania. Dopo decenni di dittatura militare e di sanzioni internazionali, la Birmania, dal 2010, va a scatti verso un governo civile e si incontra con la comunità internazionale. Questa lenta liberalizzazione comincia ad essere vista come un successo, e da Washington, Londra e Brussel lo sembra proprio: tantissime figure di capi di opposizione sono stati rilasciati dalle prigioni e si preparano a partecipare alle prossime elezioni nazionali. Alcune sanzioni sono state eliminate e comincia a entrare l’investimento estero. Si espande lo spazio per i gruppi della società civile.
Ma un militante locale mette in guardia contro questa “Euforia del cambiamento” sottolineando che una transizione reale e duratura non può avvenire se non avviene per tutti, indipendentemente dalla etnia o dalla religione.
I Rohingya, una comunità di poco più di un milione di musulmani al fondo del sistema di caste etnico del paese, non percepiscono questa euforia. Sono infatti sempre più a rischio di essere completamente eliminati dalla vita economica, sociale e politica del paese. Mentre solo il 10% della popolazione Rohingya è internata in campi soffrendo della mancanza cronica di alimenti e di cure sanitarie, l’intera popolazione è a rischio di eliminazione.
Il primo passo verso la distruzione dei Rohingya è la sempre più aggressiva applicazione di una legge della cittadinanza del 1982 che richiede loro di accettare l’etichetta “bengali”, un riferimento al vicino Bangladesh e un’affermazione che non sono veri Birmani, oppure essere revocati della cittadinanza e dei diritti e libertà fondamentali.
In entrambi gli scenari è chiara l’intenzione: negare loro il posto legale nella società Birmana. “Negandoci la cittadinanza” ha detto un avvocato Rihingya, “negano la nostra intera esistenza, la nostra lotta e la nostra sopravvivenza”. La cosa ha fatto dei Rohingya la popolazione apolide maggiore al mondo e serve come giustificazione per ogni genere di cose indegne e trasgressione inflitta sulla loro comunità: il negare loro la libertà di movimento e l’abilità di avere un lavoro al diritto fondamentale all’istruzione, al ricevere servizi del governo, o al possesso di una proprietà.
Questa natura mirata di attacchi contro i Rohingya ha attirato sempre più riferimenti alla Convenzione del Genocidio del 1948 dell’ONU, che definisce genocidio “il tentativo di distruggere per intero o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, ed ha inviato avvertimenti che i Rohingya potrebbero diventare le prossime vittime di questo sommo crimine.
Soggetti a discorsi d’odio sponsorizzati sia da figure dello stato che religiose, ad attacchi mirati, ad internamenti costretti e detenzione arbitrarie, I Rohingya sono ora obiettivo della legislazione nazionale che ricorda le leggi Nuremberg dell’era nazista che strapparono agli Ebrei tedeschi dei diritti di cittadinanza basati sulla loro presunta origine etnica. In modo simile le ultime leggi birmane vogliono limitare il tasso di nascita dei Rohingya e la loro capacità di sposarsi. Un capo Rohingya ha descritto questo sistema di apartheid di fatto come “un tentativo di allontanare la popolazione Rohingya” attraverso una “eliminazione soffice”. Questo è quello che abbastanza letteralmente si propongono le leggi proposte del governo che risuonano come “Legge del Controllo della popolazione”.
Forse persino più allarmante è vedere come la discriminazione ufficiale ha dato spazio all’odio popolare dei Rohingya da parte della maggioranza etnica birmana e delle altre etnie. Persino personaggi del calibro di Aung San Suu Kyi, democratica sostenuta dall’occidente, è restata silenziosa sulla persecuzione dei loro compatrioti, come se accorrere il loro difesa avrebbe osteggiato la volontà popolare.
Messi assieme, questo potente clima di razzismo, xenofobia e odio ha preparato il paese per un altro giro di violenze mortali come visto nel 2012. Sebbene le cifre ufficiale siano rimaste relativamente basse nell’ordine di centinaia, molti gruppi dei diritti credono che il numero reale sia molto più alto. Mentre si avvicinano le elezioni generali, le avvisaglie di altre atrocità di massa si fanno sempre più evidenti. La privazione dei diritti dei Rohingya potrebbe servire come la scintilla che incendierà il paese.
L’amministrazione Obama, a suo credito, ha preso nota di questi sviluppi inquietanti ed ha segnalato al governo birmano di fare dei passi per proteggere e rafforzare i diritti della minoranza come precondizione per un approfondimento delle relazioni bilaterali. L’assistenza militare, che il governo birmano vede come priorità, è stata per il momento fermata.
Nel frattempo, la nuova Commissione di Prevenzione delle atrocità del Presidente è servita ad assicurare che le minacce ai Rohingya restino una componente centrale all’approfondimento della discussione bilaterale con i rappresentanti birmani. A novembre Obama pose la questione negli incontri con la loro controparte a novembre ed ha applicato iniziative per intercettare i primi segni di nuove violenze contro i Rohingya, qualcosa che non fu fatta per i Tutsi del Ruanda due decenni fa. Sarà sufficiente?
Mentre continua l’apertura della Birmania, molti investitori europei e americani corrono a prendersi un pezzo delle possibilità di investimento nel paese. Ma con l’apertura di ogni nuova concessionaria Mercedes o di un grattacielo di lusso, si erode la leva occidentale per raggiungere un’adeguata protezione per i cittadini più vulnerabili del paese.
In una conferenza del 2012 presso Holocaust Memorial Museum degli USA, l’allora segretaria di stato Clinton mise in guardia che “gli USA e i nostri amici devono agire prima che si accatasti la legna o che si accenda il fiammifero, poiché quando il fuoco ha preso piede, le nostre opzioni di intervento sono più costose e più difficili.”
Ma tanta legna è stata già accatastata in Birmania. I crimini e le ingiustizie che son ostate già commesse contro i Rohingya rappresentano alcune delle precondizioni fondamentali per il genocidio a cui gli analisti ricercano, ma non è troppo tardi per fare qualcosa.
Un passo importante, che la comunità internazionale può prendere per assicurarsi che la corsa a dichiarare la Birmania un successo democratico non escluda i Rohingya, è condizionare i prestiti futuri condizionati, l’assistenza militare e i pacchetti di sviluppo alla creazione di nuove protezioni legislative per i Rohingya. Allo stesso modo agirebbe la pressione affinché l’attuale e i futuri governi rendano responsabili le autorità locali, nazionali e religiose che hanno aiutato ad incitare, dirigere o condonare le passate e ogni futura violenza contro i Rohingya.
Quando si chiede loro cosa si può fare per migliorare la loro situazione, alcuni Rohingya hanno detto che le autorità locali e nazionali dovrebbero permettere che siano raggiunti da una maggiore assistenza umanitaria. Alcuni hanno chiesto per una maggiore pressione internazionale sul governo. Altri hanno chiesto di sforzarsi di cambiare le mentalità di odio dentro la società contro i Rohingya e i musulmani. Al contempo, una donna di un campo ha detto semplicemente. “Possiamo solo stare qui a pregare ed attendere.”
Una cosa è certa: se scoppia la violenza e i capi e la gente della Birmania decide di cercare la “soluzione finale” per i Rohingya, sarà impossibile per tutti di ravvivare il vecchio ritornello “non sapevamo” delle passate generazioni di difensori del genocidio.
Cameron Hudson, ForeignPolicy