Al centro della inazione del ASEAN è la politica di non interferenza negli affari interni dei suoi stati membri, dicono gli osservatori.
Nel quadro desolante dei governi del Sud Est Asiatico che fanno del respingimento dei profughi Rohingya e Bangladeshi nel mare delle Andamane la loro politica e prima preoccupazione, il ministro della giustizia filippino, Leila De Lima, è stato l’unico ad avanzare l’ipotesi che una flotta dell’ASEAN possa iniziare una missione umanitaria e raccogliere i profughi ancora in mare. Una missione da richiedere e portare avanti ai massimi livelli del governo.
Le Filippine sarebbero pronte ad accogliere coloro che saranno ritenuti richiedenti asilo secondo le norme internazionali che il paese ha sottoscritto nel 1981. Le Filippine hanno ospitato in passato profughi ebrei e emigranti vietnamiti che fuggivano dal Vietnam dopo il 25 aprile 1975.
“Se ci sono navi che vengono da noi a cercare protezione del nostro governo, c’è un processo, ci sono dei meccanismo esistenti su come gestir questi profughi o i richiedenti asilo. Non è quindi accurato dire che non li aiuteremo solo perché non hanno documenti. La loro situazione è differente e devono essere trattai differentemente” ha dichiarato la De Lima in risposta ad una precedente dichiarazione di portavoce del governo che avevano affermato che le Filippine avrebbero rigettato persone senza documenti di viaggio.
“Nella disperazione di lasciare il territorio dove la vita o la libertà è stata minacciata, o dove i loro diritti umani sono stati gravemente violati, sono diventati persino vittime del traffico umano….. Una crisi umanitaria che richiede misure umanitarie per affrontare le sfide di paesi a cui possono chiedere aiuto. Chi cerca asilo non può per forza avere documenti di viaggio specie quando chi fa la persecuzione è lo stato. Quindi la situazione merita un trattamento ed un’indagine differente”.
Sullo stato pauroso del soccorso umanitario un articolo della Reuters apparso su Irrawaddy.org
La Crisi Umanitaria nel Mare delle Andanamane e l’inazione dell’ASEAN
Solo giorni dopo che il tifone Nargis sconvolse nel 2008 la Birmania, l’allora segretario dell’ASEAN Surin Pitsuwan, immediatamente chiamò gli stati membri a dare aiuto urgente umanitario ai sopravvissuti.
Con migliaia di vite a rischio a causa della resistenza dei militari a permettere l’entrata dei lavoratori dell’aiuto straniero, l’ASEAN fece il passo di dirigere le operazioni di emergenza per oltre due milioni di persone colpite dal disastro.
Le agenzie umanitarie celebrarono l’ASEAN per essere stata in testa ad una risposta efficace agendo come un ponte tra la giunta e la comunità dell’aiuto internazionale. Sette anni dopo il quadro non potrebbe essere molto differente.
Il sudestasiatico è preso da una crisi umanitaria che si profila mentre navi stracolme di profughi Musulmani Rohingya che scappano alla persecuzione in Birmania e abitanti del Bangladesh che scappano la povertà in casa propria affrontano malattie e fame in mare.
Ma l’ASEAN è restata silenziosa, nonostante i richiami internazionali ad una risposta regionale e l’allarme dell’ONU sulla possibile catastrofe umanitaria.
“Non fu facile dare l’aiuto alla Birmania nel 2008” ha detto Surin alla Reuters. “Ma la situazione era un po’ meno complicata di quanto lo sia oggi poiché era un disastro naturale e non una crisi con profonda complessità politica.”
Al centro della inazione del ASEAN è la politica di non interferenza negli affari interni dei suoi stati membri, dicono gli osservatori. “C’è tanta sensibilità, pregiudizi e mutuo sospetto che rendono difficile a tutti fare qualcosa sulla situazione” dice Surin.
L’ONU ha detto che il disegno mortale della migrazione per la Baia del Bengala continuerà se non finisce la discriminazione contro i Rohingya, una popolazione apolide di oltre un milione di persone che vive in condizione di Apartheid con oltre 140 mila persone cacciati dalle case dopo gli scontri interetnici del 2012.
“E’ una crisi umanitaria di proporzione elevata, è scioccante e il trattarla richiede la massima urgenza” ribadisce Surin.
Gli altri paesi sono stati riluttanti ad accettare la responsabilità delle ultime ondate migratorie dopo che per anni hanno visto l’esodo di migliaia di Rohingya. Nelle scorse settimane Thailandia Indonesia e Malesia hanno respinto o accompagnate a largo navi affollate di emigranti.
Né c’è un piano su cosa fare dei 2500 migranti giunti in Malesia e Indonesia nella scorsa settimana, o degli altri 5000 che sono ancora in mare in navi malandate con poche risorse di viveri.
La Malesia, che presiede l’ASEAN ed è uno dei paesi più ricchi della regione, sostiene di avere 120 mila migranti dalla Birmania e non intende prenderne altri.
“L’ASEAN ha la capacità di essere efficace nella gestione della crisi ma solo se c’è la volontà politica” ha detto Lilianne Fan che fece parte del team del dopo Nargis. Anche se ci fosse maggiore volontà politica per trattare la situazione, L’ASEAN manca di un quadro legale per proteggere i rifugiati anche se disastri e conflitti hanno sradicato quasi 8 milioni di persone nella regione Asia Pacifico nel solo 2013.
Solo due stati, Cambogia e Filippine, hanno ratificato la Convenzione dei Rifugiati dell’ONU. “I rifugiati fanno parte e fibra del tessuto sociale dell’ASEAN” sostiene Liliane Fan. “Non facendo nulla si è fuori da ogni realtà sociale ed umanitaria della regione”
Il ruolo largamente elogiato dell’ASEAN durante il post Nargis è stato spesso attribuito al voler indurre un serio processo di riforme della Birmania che iniziò nel 2011 quando iniziò la presidenza Thein Sein come primo presidente civile.
E’ iniziata un’ondata di investimento estero e secondo molti critici il voler fare affari con la Birmania sta impedendo a tanti paesi di criticarla sul piano delle violazioni dei diritti umani.
“Asean parla molto di governo della legge e democrazia ma è paralizzata su questa crisi” dice Charles Santiago di Asean Parliamentarians for Human Rights e membro del DAP malese.
“Si attiene solo sugli investimenti, e quindi non si fa pressione sulla Birmania quando ci sono troppe opportunità in quel paese”.
ASTRID ZWEYNERT / THOMSON REUTERS FOUNDATION|