In decine di migliaia di Rohingya, gruppo etnico musulmano, sono scappati nei mesi recenti dal paese creando una crisi regionale con navi cariche di migranti abbandonati in mare o con tantissimi abusati e sequestrati in campi di prigionia per un riscatto.
Il governo birmano, però, insiste che la gran parte dei migranti, verso cui si riferisce con il termine Bengalesi, non appartengono alla Birmania e non intende cambiare le proprie politiche che li privano dei loro diritti umani fondamentali e che confinano oltre 140 mila persone in uno squallido campo affollato.
“Non ci sono cambiamenti di politica governativa verso i bengalesi” ha detto Zaw Htay dell’Ufficio della Presidenza.
Sotto la pressione internazionale, mentre navi stracolme si cuocevano ondeggiando per giorni nell’oceano senza nessun paese disposto ad accettarli, i capi regionali si sono incontrati a Bangkok lo scorso mese, e la crisi immediata si allentò quando ai migranti si garantì un rifugio temporaneo. Ma fu subito disciolta qualunque speranza che la Birmania potesse essere convinta ad ammorbidire la propria posizione.
Quando una delegazione governativa ritornò dai colloqui, i media di stato salutarono i delegati per aver “rifiutato le accuse che le persone sulle navi provenissero dalla Birmania.”
E quella gente, nonostante gli orrori delle storie in mare, non è per questo meno disperata per andarsene. “Non ce la faccio più a vivere qui” dice Nur Islam, un pescatore che per due anni e mezzo ha languito nell’enorme accampamento governativo. “Ho dei figli e non riesco a nutrirli”.
Due dei suoi figli se ne andarono in Malesia con le barche, e sebbene non abbia saputo più nulla di loro, dice che è pronto ad andarsene. “Se riesco ad vere del denaro me ne andrò in Malesia non appena possibile.”
Se l’esodo è scemato un po’, la ragione sembra essere temporanea.
In una concessione alla pressione internazionale, il governo birmano ha detto che avrebbe monitorato il traffico di navi per reprimere il traffico di schiavi. Ma considerato il desiderio che i Rohinguìya se ne vadano, il suo impegno di controllare le coste potrebbe non durare.
Inoltre i trafficanti forse possono aver assunto una posizione più defilata dopo la repressione dei loro campi di transito nella Thailandia meridionale, mentre forse le notizie delle violenze in quei campi forse sono filtrati anche qui. Mancano tante persone all’appello tra i tanti che se ne sono andati.
La scorsa settimana un uomo accusato di essere uno dei trafficanti era stato picchiato da una folla armata di coltelli e mazze di ferro in un attacco da parte di familiari di un emigrato trattenuto per il riscatto.
Forse però la ragione principale del allentamento dell’emigrazione è il tempo che con l’arrivo dei monsoni si è fatto agitato e pericoloso. Mari più navigabili torneranno ad ottobre e novembre e con loro i trafficanti, perché la domanda esiste ancora.
Dal 2012, quando scoppiò la violenza tra buddisti e musulmani e le folle buddiste bruciarono le case dei musulmani, il governo ha spostato migliaia di Rohingya da Sittwe e da altri villaggi e città in questo campo, un’area di solo pochi chilometri quadrati.
Ci vivono circa 140 mila Rohingya in file di capanne senza elettricità, dove scorrono rivoli di fogna attraverso canali di cemento aperti, dove i bambini sono malnutriti e i servizi sanitari sono amministrati da medici sovraccarichi di lavoro che non hanno nulla per trattare malattie serie.
Ai Rohingya è proibito andarsene, una regola applicata anche a quei Rohingya che vivono nelle case vicino al campo. Il governo non ha detto se e quando sarà permesso loro di ritornare nelle loro case. “Se ci costringono a restare di più, strisceranno tutti fino alle navi se ci sarà bisogno” ha detto Dil Mohamad che un tempo aveva un negozietto quando fu costretto a scappare dalla casa di Sittwe data alle fiamme da una folla buddista.
I Rohingya che vivono fuori del campo, in innumerevoli villaggi lungo la frontiera ol Bangladesh, parlano di un’altra prigione. Sono strettamente monitorati dalle autorità, costretti al lavoro forzato e impediti di uscire senza permesso dal villaggio. Ai Rohingya è negata la cittadinanza sebbene molti dicano che le loro famiglie vivono sin da prima che esistesse la frontiera tra quello che era la Birmania allora e quello che era il resto dell’impero britannico nell’Asia Meridionale.
Fino alle politiche ufficiali di discriminazione dei primi anni 90 e ai discorsi buddisti estremisti che accendono l’odio dei musulmani per il paese, tanti Rohingya lavoravano per il governo come insegnanti, pompieri e impiegati.
“Ho detto tante volte alle autorità che sono un cittadino di questo paese e che i miei genitori erano anche cittadini” dice Noor Muhammad di 60 anni, ex sergente della polizia birmana ora internato nel campo. “Il governo dice stai qui, ed io seguivo gli ordini. Ma non so fino a quando potremo essere ancora tolleranti. Abbiamo quasi esaurito la pazienza.”
Gli ufficiali di polizia confermano che Muhammad era un sergente ma prendono le distanze da lui. “E’ difficile fidarsi dei Kalar” dice Khin Maung Kyaw che usa un termine spregiativo per chi viene dal subcontinente. “Vogliono creare problemi, colpirti alle spalle”.
Gran parte delle famiglie del campo dipendono interamente dall’assistenza dell’ONU e dalle agenszie di aiuto straniere. Migliaia che non sono registrati come residenti dei campi non possono ricevere le razioni dell’ONU. Fino a due mesi fa il governo dava razioni di riso ai non registrati, ma poi più nulla. Pochissimi nel campo hanno un lavoro e quindi vivono dei loro risparmi e della gentilezza degli altri.
Islam, il pescatore, vive nella sezione chiamata “Campo di plastica”, denominato dai materiali di risulta che i residenti non registrati usano per le loro dimore improvvisate. Nella capanna di fianco un uomo con la tubercolosi riesce a malapena a muoversi dal letto. Seduto fuori della porta ci sta Rashid Ahmad un ragazzo di 13 anni, che non riesce a controllare le braccia e le gambe. Ma madre dice che i dottori glia hanno diagnosticato la poliomielite.
Da questa posizione a Sittwe una barca qualunque ha sempre un buon aspetto.
Le 25 mila persone che sono scappate dalla Birmania e dal bangladesh quest’anno se ne sono andati da veri punti lungo la baia del Bengala, ma il porto principale per gli emigranti era la spiaggia di Ohn Daw Gyi, un villaggio di fianco al campo.
Qui sotto la piena vista di un posto di polizia si imbarcavano in piccole barche che li portavano verso imbarcazioni più grandi. I residenti dicono che i trafficanti pagavano la polizia perché guardassero dall’altra parte. Di recente hanno cambiato la polizia nel campo, ed il nuovo capo dice che tutte le barche che lasciano saranno controllate.
“Non posso dirvi cosa accadeva prima del cambio” dice il poliziotto. “Le nostre nuove istruzioni dicono che le barche devono mostrare il permesso prima di andarsene. Non lasceremo passare alcuna delle barche dei trafficanti.
Kobir Muhammad, un pescatore, che non ci sono state partenze di emigranti da due mesi. “Se la polizia non lo permette nessuno può andarsene”
Ma i residenti del campo dicono che con tante persone affollate in così piccolo spazio e così poca speranza, altre partenze sono ineviabili.
“Non c’è lavoro qui, non c’è abbastanza da mangiare” dice Abdul Salam, che prosperava vendendo pesce secco fino a che la sua casa non fu bruciata re anni fa. “Sentono che possono trovare il lavoro in Malesia. Per quanto possano essere umili i lavori che hanno, è sempre meglio di qui”.
Thomas Fuller, New York Times