Dopo sei anni di strategia militare che non è riuscita a controllare la violenza è tempo di dare speranza alla soluzione politica.
In un articolo sul Bangkok Post e su International Crisis Group, Rungravee Chalermsripinyorat discute dello stato di guerra che si protrae da sei anni ormai nelle province Thailandesi del Sud a maggioranza Malay musulmana.
3900 persone sono morte, uno stato di perenne minacci di guerra civile che le forze armate thailandesi non riescono a dominare. Non è certo la povertà a muovere questa guerra, ma sono le istanze di tipo etnico religioso, la mancanza di autonomia e l’esasperato nazionalismo thai le prime cause di questo conflitto.
Come in altre parti del mondo, non è una guerra di civilizzazioni in atto, ma semplicemente la voglia di scegliere il proprio destino.
La Thailandia ha bisogno di liberarsi dei propri tabù e pensare all’impensabile se si vuole trovare una soluzione politica per porre fine all’insorgenza nel sud della Thailandia che dura ormai da 6 lunghi anni con più di 3900 morti. Le forze armate vogliono mantenere il controllo sulle regioni del profondo sud (Pattani, Yala, Naratiwat a predominanza musulmana), ma le strategie militari non sono riuscite a portare la pace, accrescendo invece la violenza. La repressione militare ha provato la propria inefficacia nel contenere la violenza.
La distinta caratteristica etnica e religiosa di un sud essenzialmente malay musulmano va riconosciuta e si devono esplorare nuovi modi per stimolare il dialogo e affrontare le loro richieste.
Il primo ministro Abhisit Vejjajiva, nel giorno della sua nomina, si impegnò a rimodellare la politica verso il sud spostandola dalla mano pesante dei militari a quella più leggera della politica. Quasi un anno dopo, è stato fatto poco per cambiare il modo di porsi del governo.
Il peso della violenza è calato lo scorso anno, ma ora si va intensificando. Le operazioni militari di confinamento e ricerca iniziate nel luglio 2007 furono soltanto una soluzione temporanea. Gli attacchi più recenti sono più brutali, con alcune vittime uccise, decapitate e bruciate. Le bombe degli insorgenti sono diventate più potenti, le tecniche si sono raffinate. Usano radio riceventi per innescare lo scoppio rendendo più difficile prevenire lo scppio delle bombe.
La fiducia del governo nei confronti dei militari per rafforzare il proprio potere ha impedito la realizzazione di un cambio di politica nel Sud. Si ha paura di confrontarsi con i generali il cui sostegno è essenziale per tenere a bada le “magliette rosse” seguaci del deposto primo ministro Thaksin Shinawatra.
L’esercito si è opposto alla abolizione del decreto di emergenza e della legge marziale in vigore a Pattani, Yala e Narathiwat sostenendo che queste leggi siano essenziali per le operazioni di contro insorgenza. C’è stato qualche compromesso che ha portato all’abolizione della legge marziale nei quattro distretti di Songkhla a basso indice di violenza ma con la Legge di Sicurezza Interna in vigore al suo posto. Benché più leggera questa legge ha creato nuove preoccupazioni. La paura dei gruppi di difesa dei Diritti Umani riguarda il comma 21 che, permettendo un abbandono delle accuse dopo una “riabilitazione”, incrementerebbe la “detenzione amministrativa” senza procedure di sicurezza sufficienti con conseguenti confessioni forzate.
E’ anche da discutere se un indottrinamento di nazionalismo thai potrebbe mai cambiare le menti di militanti guidati da un’ideologia etnico-nazionalista.
I militari si oppongono anche al piano governativo di emanare una legge che permetterebbe al Centro Amministrativo delle Province del Confine Meridionale, incaricato dell’operazione “Cuori e menti” di essere indipendente dal Comando delle Operazioni di Sicurezza Interna (ISOC) controllato dai militari. Una versione annacquata è davanti al parlamento, ma il continuo conflitto politico a Bangkok implica che la Camera possa essere sciolta prima che questa legge possa essere emanata.
Nonostante le promesse del governo, la giustizia è lontana dai residenti delle province più meridionali.
Mai nessuna forza addetta alla sicurezza del passato è stata mai incriminata dei crimini passati, compreso le atrocità commesse a Krue Se e Tak Bai.
Non ci sono stati arresti degli esecutori degli attacchi alla moschea di Al Furqan dell’8 giugno 2009 che hanno ucciso 8 persone ferendone altre 12. Le indagini di polizia indicano che alcune milizie buddiste spalleggiate dall’esercito abbiano fatto l’attacco in risposta all’omicidio di alcuni seguaci buddisti. La carneficina fa crescere la paura che aver armato i civili abbia approfondito le tensioni comuni esacerbando il conflitto.
Neanche allargare la spesa risolverebbe il problema. Senza una supervisione reale una grossa spesa porterebbe ad una “industria dell’insicurezza” contribuendo così all’inerzia poiché alcuni ufficali trarrebbero profitto dai progetti. L’aumentata corruzione non solo erode la legittimazione del governo e sarebbe sfruttata dall’insorgenza.
Non è la povertà ad alimentare il conflitto, perciò le cause radicali non possono essere risolte da stimoli economici per affrontare le lamentele politiche. La politica verso il sud dovrebbe essere spinta piuttosto dalla speranza che dalla paura e si dovrebbe invertire la tanto dichiarata politica di “no ai negoziati”.
I colloqui di pace sono in realtà efficaci nel porre fine alla violenza in molti conflitti separatisti senza condurre alla secessione. In anni recenti, si sono avuti dialoghi segreti tra governi Thai e parti che affermavano di rappresentare gli insorgenti senza risultato alcuno a causa di una mancanza di un impegno continuo e serio al processo di pace portando questi processi confidenziali ad uno stallo.
Parte delle proposte in un processo negoziale è spesso la riforma delle forme di governo. Si dovrebbero esplorare varie alternative e non si dovrebbero percepire come una minaccia allo stato unitario i procedimenti di amministrazione speciale. Quando il governo mostra il suo serio impegno al negoziato i rappresentanti dei militanti hanno il bisogno di dimostrare il loro controllo del fuoco sul terreno.
Dopo sei anni di strategia militare che non è riuscita a controllare la violenza è tempo di dare speranza alla soluzione politica.