Ogni anno che passa fa affievolire i ricordi delle morti violente allo stesso modo in cui perdono di colore le vecchie fotografie. Sono ora passati 50 lunghi anni da quella notte del 30 settembre a Giacarta, quando furono massacrati da truppe ribelli sette ufficiali dell’esercito indonesiano, tra i quali sei generali, facendo scatenare un’orgia di violenza in gran parte di Giava e di Bali, dove resta ancora da chiarire se morirono più o meno di un milione di persone, un genocidio dimenticato.
Le vittime erano in gran parte cittadini indonesiani ordinari di città e villaggi delle isole di Giava e di Bali, uccisi crudelmente e senza pietà, di solito strangolati o presi a randellate nel mezzo della notte, per il più piccolo sospetto di avere simpatie comuniste.
Molti avevano partecipato a qualche attività del partito comunista indonesiano che, con almeno 3 milioni di membri, era il partito politico maggiore del paese e che aveva il sostegno tacito di Sukarno, il padre fondatore dell’Indonesia. Molte delle vittime erano istruite perché si credeva che gli intellettuali erano facili a simpatie comuniste. Ci si trovava di fronte alla morte per il solo fatto di portare occhiali.
Per tre lunghi decenni le vittime hanno sofferto in silenzio. Ogni anno, a ricordare il golpe mancato del 30 settembre, il governo del Nuovo Ordine del presidente Suharto mostrava una drammatica ricostruzione degli eventi di quella notte fatale che mostravano i generali come eroi ed i cospiratori comunisti come assassini brutali, restando in silenzio sulle stragi di massa che ne seguirono.
Quando l’Indonesia, nel 1998, si liberò del giogo autoritario ed abbracciò il sistema democratico previsto dai padri fondatori del paese, ci fu una speranza di riconoscimento del passato. Ma la democrazia liberale si è dimostrato uno strumento debole sia per la giustizia che la riconciliazione in Indonesia. L’abilità dei media di raccontare la storia del passato tragico dell’arcipelago non ha portato ad un impegno collettivo di stabilire la verità o di far rispondere ai responsabili.
Le vittime, invece, sono state ulteriormente torturate con la promessa di un riconoscimento sotto forma di una richiesta di perdono, per poi sentirsi dire che gli omicidi erano giustificati da un potere fortemente conservatore che continua a credere ai propri credi anticomunisti 30 anni dopo il collasso del comunismo.
Da presidente Susilo Bambang Yudhoyono sostenne un rapporto della Commissione Nazionale dei Diritti Umani sugli omicidi- Il rapporto voluminoso raccomandava un’azione per dare un risarcimento alle vittime. Yudhoyoo pensava a dare delle scuse nazionali, ma si trovò di fronte alla forte resistenza dentro le file dei militari e del potere islamico, molti membri dei quali portarono avanti tanti omicidi.
Forse era una speranza vana. Il suocero stesso di Yudhoyono, Sarwo Edhie, era il generale delle forze speciali a cui fu ordinato di dare inizio alla repressione dei comunisti e dei simpatizzanti. A peggiorare le cose, prima la fine del suo mandato, Yudhoyono accarezzò una proposta di fare di Sarwo Edhie un eroe nazionale.
Ci furono speranze nuove che il presidente Joko Widodo, eletto in modo popolare lo scorso anno e senza legami al vecchio potere conservatore, avrebbe affrontato finalmente la questione. Prevedere le scuse per le violazioni di diritti umani fu una delle tante vaghe promesse che fece nella sua corsa al potere. Ma ora i suoi rappresentanti dicono che il presidente ha questioni più importanti di sviluppo sociale ed economico a cui badare.
L’esercito resta una colonna forte del potere e non sembra voglia chiedere scusa per il suo passato sanguinoso. Infatti c’è ancora rabbia nei circoli militari sul presunto coinvolgimento comunista nelle morti dei generali. “Anche noi siamo vittime” un ufficiale ha detto all’autore.
Nè le organizzazioni islamiche implicate nel portar avanti i massacri vogliono che si parli del loro ruolo facendo un qualcosa per chiedere scusa per il passato. Le notizie della decisione di Jokowi di non chiedere scusa quest’anno è giunto dopo un incontro con il secondo gruppo islamico più grande, Muhammadiya.
Dietro alle scuse, al disappunto e all’incapacità di affrontare quello che tutto il mondo considera un genocidio dimenticato, vi è una profonda paura del futuro.
“Cosa vogliono i comunisti?” chiese un conservatore in un incontro per discutere la riconciliazione durante la presidenza di Yudhoyono. “Vogliono la riforma agraria”. Poi chiese: “Abbiamo una riforma agraria oggi?”
La paura del cambiamento sociale in una società che è ancora piena di ineguaglianze spiega perché le proteste anticomuniste accadono ancora ogni volta che i capi politici pensano di affrontare le stragi di massa. Il tasso di povertà forse si è dimezzato negli ultimi 15 anni ma la distribuzione delle entrate è diventata ancora più ineguale. Il 40% della popolazione del paese di 250 milioni di persone ancora vive con meno di 2 dollari al giorno.
Le minacce alla coesione sociale potrebbe essere un fattore che previene la responsabilità. La società giavanese del 1965 era composta di una miscela più bilanciata di comunità cristiane e musulmane. Il partito comunista avanzò nelle comunità cristiane ed i sentimenti anticomunisti si radicarono tra i musulmani.
Non è un segreto che molti degli omicidi furono portati avanti da gruppi di giovani musulmani e da milizie, incoraggiate ed armate dall’esercito. Dopo molti cristiani si convertirono all’Islam per sfuggire al sospetto e alle ulteriori pressioni. L’eredità dell’accelerata islamizzazione da allora ha indebolito i meccanismi culturali tradizionali per mantenere l’armonia ta le fedi e il conflitto religioso cresce.
Molti indonesiani sostengono che aprire queste vecchie ferite farà emergere ancor di più le diseguaglianze rafforzando le divisioni sociali che già di frequente sono in conflitto. Perché scuotere la barca?
Le vecchie fotografie forse scompariranno e le immagini della morte e delle immense sofferenze di così vasta scala scompariranno tranne che fisicamente, ma il trauma sociale collettivo continua a vivere nella psiche del paese. Compare nei lavori creativi di scrittori come Leila Chudori e Laksmi Pamuntjak che nacquero poco prima o dopo le stragi. E’ stato vividamente espresso da alcuni attori stessi, assassini e le loro vittime, nei film di Jashua Oppenheimer.
Quello che le fotografie nascondono è cosa sente la gente, quanto profondamente molti indonesiani si vergognano di un periodo della loro storia che non possono cancellare. Questa macchia neraa sul passato rannuvola la loro visione del futuro.
Michael Vatikiotis, Asiasentinel.com