Le elezioni sono a meno di un anno, ma la sfiducia crescente nel governo fa scemare il desiderio del cittadino ordinario di un Messia che li liberi dalla povertà e dalla miseria. Ne fa della democrazia filippina un qualcosa senza speranza? E’ una causa che si affievolisce per chi vuole cambiare lo stato delle cose presenti? Uno sguardo allo stato della politica democratica potrebbe gettare la luce sulla crisi reale della democrazia, vale a dire, la sua impossibilità nel fratturare in modo serio il sistema oligarchico del paese.
La democrazia filippina, la più vecchia ma incerta del Sudest Asiatico
Oltre un decennio fa le Filippine erano uno dei paesi di punta per la democrazia. Tecnicamente aveva tutte le istituzioni necessarie al loro posto, come un congresso e un meccanismo di partecipazione popolare, fino al livello locale. Elezioni libere sono sempre state il modo di selezionare i capi del governo dal 1946. La sua storia fu persino immortalata durante la rivoluzione di EDSA del 1986 dove i filippini mostrarono come il Potere Popolare era capace di abbattere il regime oppressivo di Marcos. Fu un periodo elevato che presto ispirò altre rivoluzioni non violente nella regione e nella America Latina.
Comunque l’immagine ammirevole della democrazia filippina all’estero si è dimostrata molto superficiale specialmente dopo una serie di tentativi di golpe contro il Presidente del Potere Popolare, Corazon Aquino. Il paese non è preservato dalla “regressione dalla democrazia” del sudest asiatico. Oggi non c’è un segno di ritorno alla democrazia in Thailandia, mentre in Indonesia la legge controversa che non elimina le elezioni locali ha diminuito le attese di una fioritura democratica. La Cambogia si trova ancora sotto l’egida del vecchio partito CPP che non mostra segni di voler aprire lo spazio politico. E il mondo deve ancora avere la testimonianza di un impegno sincero alla transizione democratica, un processo che è fortemente dipendente sul destino di Aung San Suu Kyi. L’unica cosa che forse salva la pelle democratica delle Filippine è che è “la migliore tra le più deboli”, una descrizione troppo spregiativa per apprezzarla.
La più vecchia democrazia della regione è davvero compromessa. Nel 1992 David Timberman indicò un paradosso nel suo libro “A Changeless Land: Continuity and Change in Philippine Politics: despite a change in the form of government from authoritarian to democracy in 1986”. La politica filippina era intrisa in un modello antico di governo corrotto, frode elettorale e povertà. Questa affermazione vale ancora. Uno sguardo veloce agli indicatori di sviluppo mostra che oltre il 25% dei filippini vivono ancora nella povertà, molto dietro il Vietnam (partito unico guidato dai comunisti) e lo Sri Lanka, e si situa al 38° posto nell’indice di percezione della corruzione, CPI. Nessun indice è migliorato significativamente nell’ultimo decennio. La diseguaglianza socioeconomica resta una grande questione e i contribuenti si domandano dove vanno le loro tasse, se a migliorare il pubblico servizio oppure a riempire il portafoglio dei politici.
Il Potere Popolare di oggi
Le innovazioni democratiche, un tempo fiere, dei Filippini decadono. Per prima cosa, le proteste di strada nella capitale sono rese inefficaci se non pericolose. Se la Thailandia è nota come la casa dei golpe, allora le Filippine è considerata come il Paese dell’EDSA. La possibilità di ripetere la prima rivoluzione dell’EDSA nel XXI secolo ha perso il proprio fascino dopo i tentativi di cacciare prima e riportare il presidente Estrada, eufemisticamente definite EDSA II del gennaio 2001 ed EDSA III dell’Aprile 2001.Questo ha fatto vedere la “mentalità da folla” del paese. Da quando Gloria Macapagal Arroyo fu sospettata di frode elettorale, nel mettere in dubbio la sua legittimità a governare, la maggioranza dei filippini aveva perso la vitalità a partecipare, o persino apprezzare chi senza sosta protestava per strada.
Seconda cosa, le elezioni sono diventate un modo per estrarre potere politico dagli elettori. I capi precedentemente cacciati o i membri delle loro famiglie, come Imelda Marcos e suo figlio, come pure Estrada e Arroyo, detenevano posizioni del governo significative. Il numero di casi di compravendita di voti e di violenza elettorale crebbe facendo crescere i dubbi sull’efficacia delle elezioni a tenere sotto controllo i gruppi politici dominanti ed i clan. Mentre gli oligarchi, quei pochi che detengono molto della ricchezza e potere del paese, sono colpevoli di questi crimini elettorali, il loro mercato di massa, composto di poveri privi di istruzione, è declassato a “bobotante”, elettori ignoranti dal potere delle elite. Le elite mettono in dubbio l’abilità politica dei sottoclasse di fare giuste scelte di politici a causa della loro vulnerabilità al populismo e alla compravendita dei voti. Con la maggioranza che è così sfruttata da un piccolo manipolo, le nostre elezioni non sono che una parodia di democrazia.
Infine, l’autostrada dei media sociali di certo dà una via veloce alla presa di coscienza e alla stimolazione della folla. Alcuni sostengono che i Filippini hanno trovato nel cyberspazio una nuova alternativa alle strade. Qui attaccare un politico corrotto come l’incensare una sposa vergine delle celebrità sono resi più facile.
La partecipazione diventa un atto di conoscenza indiscriminata e di reazione compulsiva. Dà una svolta al vecchio motto marxista: Cittadini di tutto il mondo unitevi nelle vostre singole case, non abbiamo nulla da perdere se non i 5 Giga di dati! La convenienza di avere solo uno smartphone come arma contro lo stato rende la voce dei cittadini della rete più penetrante degli analoghi manifestanti di strada.
Eppure, mentre il paese forse è stato per quattro anni consecutivi la capitale del network sociale del mondo, una spettacolare comunità di Facebook non ne fa una vibrante democrazia. Se un messaggio conciso è qualcosa di più di una serie di zero ed uno resta una grande domanda. Nell’espressione online furiosa nelle Filippine traspirano due cose. La prima, c’è una richiesta online di più politiche, più regole, più leggi, un governo più grande non persone più grandi, che sminuisce il ruolo cruciale della democrazia nell’impedire che la politica sia solo un dominio da copia incolla legislativo; secondo, lì nasce un credo ingenuo per cui Internet e gli altri media appartengano solo alla gente come arma contro la tirannia. Per quanto appaiano liberi, le reti dei media sociali non differiscono molto dalle altre forme dei media. I maggiori offerenti possono far circolare la loro agenda. I tiranni, i mogul e i finti operatori possono perseguire i propri interessi sotto le spoglie del bene pubblico.
Inoltre i massmedia non rappresentano più i mediatori critici nel discorso pubblico. Riciclano semplicemente da usare come spazzatura. L’enfasi sull’intrattenimento o meglio ancora, pagati per ridurre seri dibattiti politici a uno spettacolo inconsistente, rendendo la frase “analisi oggettiva, critica e profonda” una cosa senza senso. In breve il panorama dei media filippini rinforza quello che il filosofo politico Sheldon Wolin descrive come “la scomparsa virtuale della cultura della partecipazione ed il suo rimpiazzo da una cultura del privato, dell’isolamento e del consumismo”.
E’ questo il volto del Potere Popolare oggi nelle Filippine. Proteste, elezioni e cittadinanza della rete sono tre forze potenti che si credono al di fuori delle deboli istituzioni oligarchiche che infestano il sistema politico del paese. Eppure questo ha reso la gente più disincantata e la loro abilità a concorrere è incorporata nella distopia Huxleiana. Cosa succede se questi mezzi contribuiscono al peggioramento della politica filippina piuttosto che a liberarsi delle parti marce, se sono degli spazi per trasformare l’ispirazione in mere uscite per i cinici? O peggio se il sistema corrotto ha già cooptato questi meccanismi per rafforzare ulteriormente la loro presa sul potere, mettendo in silenzio le voci sotto forma di un buon ascoltatore?
Una tirata di aggettivi
Chi prova a comprendere il paradosso della democrazia filippina si trova intrappolato in una formula prevedibile: le Filippine sono democratiche ma con delle riserve. La sola cosa che cambia nelle analii della democrazia di un paese sono i modificatori: Tribale, Clientelistico, elitista, oligarchico e borghese. Questi studi, che studiano le debolezze delle istituzioni democratiche e la roccaforte dei gruppi di potere, descrivono la condizione politica del paese per dire come funziona e perché è buona o cattiva. Forniscono di solito discussioni ben basate e comprensive di quello che si scorge sulla superficie. Tuttavia il modo in cui questo discorso generale tratta le questioni politiche richiede anche attenzione critica. Affrontare la chiara contraddizione di avere una oligarchia dentro una democrazia di sicuro richiede una interiezione normativa per allontanarsi da quello che Max Weber classifica come democratizzazione “passiva” verso una democrazia fantasiosa. Mentre una si concentra sul governo con politici professionisti, specialisti e con la legislazione, l’altro apprezza di più la capacità creativa di vari fattori a sfidare la nostra comprensione comune, pessimistica della politica come dominio di pochi.
Quando collegata alla riduzione della povertà e allo sviluppo, il punto di vista negativo del governo corrotto diventa l’ossatura dell’assunzione neoliberista che aleggia definita “marketizzazione del governo”. Privatizzazione, deregulation e aderenza alle prescrizioni esterne di politica come quelle del IMF e WTO, sono prese come caratteristiche fondamentali per il progresso socio economico e sono considerati indicatori di un governo che migliora. In accordo, un insieme palliativo di strategie di politiche di riforma complesse che danno meno responsabilità di governo, più potere al settore privato e chiedono che gli “esperti” possano impedire la diffusione del maligno. In questo mondo la gente sono numeri e statistiche, la loro voce soffocata nel mare del tecnicismo. Business Club e specialisti della politica accumulano potere e controllo, mentre i cittadini ordinari diventano ricettori di esternalità negative delle loro prescrizioni.
La competenza non è necessaria per raccoglier informazione e prove per ciò. Passare qualche giorno a Manila è sufficiente a capire cosa non va. E’ il luogo dove l’opulenza e la povertà degradante coesistono fianco a fianco, come in universi paralleli. Comunità e costruzioni rinchiuse nei cancelli sono fortezze per tenere lontano la puzza all’aperto, sporco e miserabile, condizioni che racchiudono alla realtà per la maggioranza.
Mentre la prossima conferenza dei CEO di Forbes si terrà nella sicurezza e conforto di un hotel a cinque stelle, la Montagna Fumante cresce come un’istituzione dimenticata nel panorama di Manila. E’ risibile che il film locale di successo, Metro Manila, portasse il sottotitolo “la città più pericolosa al mondo” quando fu portato in Giappone. Un’aggiunta offensiva, cattura il messaggio della storia: il crimine è talvolta il solo modo per uscire dalla povertà nella metropoli persino per chi ha la coscienza di fare differentemente.
Le dure vicissitudini giornaliere dei filippini sono conseguenze del trattare la politica democratica come un mezzo per scegliere il loro governo. La legittimazione si riduce ad una questione di legalità e di istituzioni formali e concrete. Basti dire ora che comporta due dure implicazioni. La prima, parlare del complesso dell’oligarchia come un cardine della politica democratica mina il suo scopo critico di contestare l’elite di governo. Diventa un’anatra zoppa per chi vuole correggere il sistema corrotto. Secondo, perpetua l’idea che la gente che può prendere decisioni sono un piccolo gruppo di specialisti, di politicanti e organizzazioni che si scambiano annotazioni nelle loro “rinchiuse” nicchie speciali e privilegiate. Si è dimenticato come la gente come il periodo del dopo EDSA della gente, possa creare una rottura significativa nel sistema apparentemente immutabile.
Contro le limitazioni prescrittive alla democrazia
E’ quindi tipico vedere la democrazia filippina come eccessiva dove le istituzioni sono state lacerate dalla libera volontà dei potenti. In un dibattito del 1992 tra Lee Kwan Yew e Fidel Ramos, il compianto leader di Singapore disse al presidente Filippino che “l’esuberanza” di democrazia nel paese è controproducente per il suo sviluppo. Alcuni decenni dopo l’ex premier malese Mahatir reiterò le parole di Lee Kwan Yew, affermando che mentre la democrazia è “il miglior strumento di governo inventato dall’uomo”, lavorerà solo se ci sono dei limiti appropriati. Entrambi i capi del sudest asiatico credevano che le Filippine avessero troppa democrazia, e che iniettare qulche misura autoritaria non farebbe male al paese. Questa non è una prescrizione purament asiatica, ma è endemica tra i critici conservatori occidentali di quello che Samuel Huntington etichetta in modo errato il “cimurro democratico”.
Le prescrizioni di Lee e Mahatir hanno peso dato il loro successo nel fare uscire i propri paesi dalla povertà. Comunque le istituzioni democratiche che castigano sono i mezzi vitali per contestare i governi oligarchici, e permettere il fiorir della democrazia per la gente.Quello che vediamo ora nelle Filippine è un sistema oligarchico che fa finta di essere democratico, una democrazia “non eccessiva”. Se si comprende la democrazia in termini di istituzioni e procedure formali, il lato antagonista, conflittuale della democrazia, il tonico necessario che la fa vivere, è sovvertito per il puro status quo. La crisi reale della democrazia filippina (e persino di altri paesi) è l’usurpazione inarrestabile dei mezzi partecipatori nascosti sotto la parola “in nome del popolo” per mantenere la propria posizione.
Sia la ricerca dei rivoluzionari anticolonialisti di una figura messianica che la prescrizione del politologo Remigio Agpalo di curare le malattie della politica filippina, Regime di Pangulo, dimostrano la dipendenza della nazione su una persona sola, autoritaria per salvare il paese. Dopo oltre 400 anni di attesa, il Messia non è arrivato. Eppure falsi profeti invitano i filippini ad attendere invano mentre giocano d’azzardo per e con il loro futuro.
Si i filippini diventano indifferenti. I poveri e i deboli sono esausti, sì. Eppure quella che sembra essere una crescente apatia può anche essere vista come un momento di risveglio. Forse è il tempo di considerare la possibilità di una salvazione politica sena una figura unificante. Ai margini, individui e gruppi cominciano a formare la loro propria cultura di resistenza contro varie forme di soggiogo e marginalizzazione, mentre altri cercano il rifugio fuori del paese per crearsi le loro Filippine.
In una vera democrazia, il potere di prendere decisioni è condivisa indiscriminatamente, non è concentrata in pochi e nei privilegiati. E’ capace di sfidare senza sosta assunzioni congelate e punti di vista prevalenti. Non si tratta solo di procedure formali e riforme politiche, ma anche il potenziale infinito della gente di screditare quelle istituzioni esistenti attraverso la loro ricerca di metodi migliori di governo che non tagli la libertà. In altre parole le Filippine devono ancora provare il potere reale della democrazia che risiede nella possibilità di una nuova salvezza collettiva.
Carmina Yu Untalan PhD at Osaka School of International Public Policy, Osaka Universi, Kyoto Review, YAV, Issue 18, Kyoto Review of Southeast Asia. September 2015