“Se non lo abbiamo capito prima, questa età della intolleranza deve spingerci a farlo ora.” scrive l’opinionista e critico cinematografico thai Kong Rithdee.
Come al tempo del fascismo l’Italia inneggiava a “Dio patria e famiglia”, in Thailandia “Buddismo, Monarchia nazione” è la triplice da non sfiorare, neanche col pensiero.
Uno dei tre pilastri fondamentali della Thailandesità, o dell’essere thai, il buddismo è sotto una lo sguardo indagatore di molti giornali dove ogni giorno appaiono casi di monaci che hanno amanti, che fumano, che sfoggiano ricchezza, che vengono spogliati per aver intascato somme notevoli, che giocano d’azzardo, che vanno a prostitute.
Ma non lo si può mostrare, farne un’immagine, come invece fa il film horror “Arbat” perché potrebbe distruggere la fede della maggioranza del regno.
“Il film presenta scene che distruggeranno il buddismo. Se è proiettato la fede della gente nel buddismo si deteriorerà” dice Somchai Surachatri dell’ Ufficio Nazionale del Buddismo in Thailandia che fa parte come istituto della censura nel ministero della cultura che lo ha già vietato per blasfemia
E’ la storia di un novizio di un tempio costretto a farsi monaco dal padre che sviluppa una relazione con una ragazza del villaggio dove si trova. Lo si vede usare droga, accarezzare la ragazza. Troppo per la censura.
Di seguito traduciamo un commento di Kong Rithdee del BangkokPost.
Immagini, fede ed età della intolleranza
Ad un certo punto la religione nutre una cultura di intolleranza. Diventa poi una forma di assolutismo, sempre più tossico nel clima di fervore nazionalista e bombardamenti dittatoriali.
Si veda il Sacro Romano Impero del Medio Evo, il Wahabismo dell’Arabia Saudita di oggi, o parti del buddismo di Myanmar. Ora la Thailandia flirta con quella trappola fondamentalista anche se non ci siamo già dentro, grazie al cielo, sebbene la porta è tutta aperta e i canti sono già iniziati.
Nel censurare il film thai Arbat cosa temevano i censori dal cuore tenero?
Temevano l’immagine, credo, perché l’immagine nella storia è sempre la manifestazione più semplice della blasfemia, l’iconografia del male che ha il potere della seduzione.
Nel nostro caso l’immagine di un monaco di bell’aspetto che tocca una giovane ragazza, come mostra il trailer, o che fuma, o che beve alcol. Nella realtà alcuni monaci lo fanno ed i censori lo ammettono.
Ma è differente, peggiore, quando questi comportamenti si trasformano in immagini, perché per i fondamentalisti le immagini volgarizzano la realtà e trasformano la realtà in profanazione. E’ una mentalità precedente alla pittura e di certo il cinema.
Il Cinema, l’immagine che si muove per le masse, illumina solo la debolezza attraverso la simulazione della vita e della realtà.
Distruggere i quadri, vietare i film. La paura dell’immagine si intensifica con l’atmosfera autoritaria, e con la dose giornaliera di rettitudine degli uomini al potere.
“Dobbiamo proteggere la religione” cioè buddismo, che è la ragione del divieto, e Protezione è sempre stata citata come un jolly per praticare l’intolleranza negli anni passati.
Non importa che Arbat, il cui nome è stato modificato in Arpat per far piacere ai censori, è un film davvero conservatore. E’ una lezione di moralità per cui i monaci cattivi vedranno una brutta fine. Per i fondamentalisti quello che conta è l’immagine, non il messaggio, e qui l’immagine è il male da cui per proteggerci abbiamo bisogno del talismano della censura.
La religione, come i film, non riescono a resistere al potere dell’interpretazione.
Questo anno, l’Iran presenta il film Mohammad come rappresentante all’Oscar per il miglior film straniero. Come suggerisce il titolo, è la prima parte di una trilogia sulla vita del profeta islamico. Senza sorprese, i clerici sauditi Wahabi hanno condannato il film per blasfemia senza doverlo vedere perché riproduce un’immagine del profeta che è proibito; un “lavoro osceno” e “un atto ostile contro l’Islam”.
Immagine come peccato o immagine come eulogia? Non oso intervenire; solo che quelle dure parole contro il film iraniano sarebbero potute giungere bene dalla nostra censura che ha reclutato monaci come consiglieri.
La filosofia che sottende è questa: in Thailandia a storia della costruzione delle immagini è profondamente legata all’ideologia tradizionale per cui lo scopo dell’arte è di servire alla religione.
Ecco perché i nostri templi sono così belli. I migliori artigiani e pittori li hanno eretti e decorati. Ecco perché i nostri artisti nazionali sono spesso ma non sempre quelli che dipingono l’elaborato immaginario a tema buddista.
Ecco perché in parte le prime scuole ad essere fondate furono le nostre scuole d’arte e produrre artisti per la religione ed il palazzo.
Custodiamo il loro lavoro naturalmente, l’arte elevata nata dall’elevato spiritualismo. Crediamo solo che ci sono molte altre cose che dovremmo imparare a custodire.
Quando l’immagine, l’arte non aderiscono a questa regola, quando sovverte piuttosto che adulare la religione, allora si trova nei guai.
Arbat o come si chiama ora, è solo l’ultimo esempio.
I film sui monaci hanno subito la censura tante altre volte, per non citare i quadri. Tutta questa censura esemplifica un antico pensiero, rafforzato dal clima attuale di governo ipocrita, che arte e moralità sono la stessa cosa. Bach scrisse la musica di chiesa più bella, ma era il 18° secolo prima che il pagano Stravinsky lo sfidasse 200 anni dopo.
Anche il suono e l’immagine che traspirava furono definiti blasfemi. Gli artisti siamesi fecero i templi più belli e 200 anni dopo il nostro corpo religioso crede ancora che gli artisti devono restare i loro servi fedeli.
L’arte moderna è politica, e la religione dei tempi moderni non riesce a sfuggire alla politica, non per forza la parlamentare, ma la politica del pensiero, del cuore, la libertà di scegliere, di mettere indubbio, di deridere e interpretare. S
olo chi è rimasto nel 18°secolo si mantiene ancora all’idea assoluta che immagine ed arte sono i leccapiedi della fede, e che la creatività laica deve essere messa sotto controllo e vietata. Qui non è stata mai decretata la separazione del tempio dallo stato.
Se non lo abbiamo capito prima, questa età della intolleranza deve spingerci a farlo ora.
Kong Rithdee, Bangkok Post