Il rischio maggiore viene dal danno di lungo termine che un uomo forte potrebbe arrecare alle istituzioni ancora fragili di una giovane democrazia
Nel vano sforzo di reprimere la rivoluzione che portò, nel 1899, alla prima repubblica filippina, l’esercito spagnolo passò per le armi Jose Rizal, l’eroe nazionalista filippino, nel parco che ora porta il suo nome.
Quasi 90 anni dopo, i manifestanti, stanchi della cleptocrazia assassina di Ferdinando Marcos, si radunarono nella stessa piazza in una manifestazione del potere popolare che alla fine lo costrinse all’esilio. Il 7 maggio, due giorni prima che i filippini andavano alle elezioni per scegliere il nuovo presidente, 250 mila persone si radunarono a Rizal Park per una manifestazione di sostegno a Rodrigo didong Duterte che promette un’altra rivoluzione politica.
Duterte, il sindaco di Davao dalla lingua tagliente, ha trionfato il 9 maggio. Due concorrenti hanno ammesso la sconfitta. Miriam Defensor Santiago che è stata in tutti e tre i rami del governo, ha preso solo il 3.4% dei voti. Grace Poe, una senatrice telegenica con poca esperienza politica, ha gettato il guanto la notte elle elezioni. Mar Roxas, ministro uscente, ha terminato lontano nonostante il sostegno del presidente uscente, Aquino. Binay, il vice presidente di Aquino, che si trova di fronte a un flusso forte di accuse di corruzione, è finito ben oltre dietro.
Il paese di oltre cento milioni di abitanti che Duterte eredita ha una delle economie più espansive dell’Asia. Ma persiste tenacemente la povertà. Gli elettori sono stanchi di infrastrutture cadenti, del traffico che si mangia la produttività, della corruzione persistente e del governo inefficiente. E lo scontento cova verso la politica miope e feudale del paese, dominata da decenni da un pugno di famiglie latifondiste.
Duterte è stato l’uomo di azione che viene da fuori, pronto a prendere per il collo i problemi della nazione. Ha dato pochi dettagli. In un lungo discorso tortuoso, pieno di linguaggio volgare, dato alla manifestazione nel Parco di Rizal, ha promesso solo di combattere il crimine e la corruzione. La folla ha salutato la sua promessa di uccidere i criminali con l’esercito e la polizia. Minacce simili durante la campagna elettorale hanno più fatto gioire la gente che impaurirla. I cittadini filippini sono stanchi dei ladri che incontrano nelle strade, come di quelli che devono sorbirsi nei piani alti.
Sarà il primo presidente da Mindanao, la parte più meridionale delle isole costituenti le Filippine e la parte più povera del paese. Sarà anche il primo a non aver avuto una carica ufficiale nazionale da quando Corazon Aquino, madre del presidente attuale e moglie di Ninoy eroe nazionale, che guidò la rivolta popolare, divenne presidente nel 1986.
Duterte ha usato questo profondo risentimento verso le ricchezze immense e la forza politica accumulata da poche famiglie dell’elite.
Tre dei quattro candidati che Duterte ha sconfitto erano politicamente legati a Cory Aquino; la quarta, Grace Poe era la figlia adottiva di un amico di Marcos. “La brigata giallo spenta” sostiene Malcom Cook del ISEAS di Singapore che si riferisce al colore giallo come simbolo anti Marcos.
La promessa della rivoluzione del 1986 è diventata quella che Miguel Syjuco, scrittore filippino, definisce “una oligarchia rinascente”. Le dinastie politiche dominano la politica localmente e a livello nazionale. Anche i Marcos si sono rifatti la strada nel potere: la moglie di Marcos Padre Imelda è parlamentare;Ferdinando Bongbong è senatore e combatte una battaglia testa a testa per la vicepresidenza; Imee è governatrice di Ilocos Norte. Questa elite ha molte connessioni, con istruzione occidentale, con buone credenziali nel mondo, ma sono sempre più disconnessi dalla gente che presuppongono di servire.
Duterte ha sfruttato questa differenza. Ha citato spesso i propri mezzi modesti, mentre i suoi sostenitori hanno manifestato contro i politici tradizionali, trapos oppure vecchi straccioni. Ilsuo discorso ruvido e l’impazienza verso le convenzioni e i processi democratici sono diventati dei punti di forza piuttosto che di debolezza; segni di autenticità e l’indicazione che farà le cose in modo diverso.
Il suo programma di un federalismo vagamente definito ha raccolto il risentimento delle province contro il potere concentrato di Manila. Nel frattempo per prendere voti a Manila, ha esaltato la sua storia di Sindaco di Davao per aver trasformato una città violenta in una piccola Singapore: sicura, pulita ed ordinata. I residenti della capitale stanchi del caos e del traffico sperano che farà la stessa cosa lì. Ma la regione di Manila, un insieme stretto di 17 città e municipalità, sarà difficile da mettere insieme. E per onorare la promessa di federalismo ci vorrà un cambiamento costituzionale. Tre presidenti dopo Marocs ci hanno provato ma invano.
La domanda ora è che tipo di presidente Duterte sarà. La sua campagna si è concentrata essenzialmente sul crimine, droga e corruzione, temi importanti in un paese matto per le armi dove pagare i pizzi è una frustrazione quotidiana. Ma nel trattare questi temi Duterte ha assunto una posizione da macho. La sua promessa di eliminare tutti e tre i problemi entro sei mesi è impossibile anche se dovesse andare avanti con la furia omicida. Ma può fare tanti danni col solo provarci.
Promette di impiccare i criminali e ha ricordato con piacere l’abilità di Marcos ad “usare la forza del governo per ottenere quello che davvero voleva”. Molti rigettano queste dichiarazioni come delle spacconate e hanno fiducia che Duterte modererà i suoi toni una volta che diventa presidente. Ma sperare che un presidente non farà quello che dice è rischioso.
Per alcune cose dice che seguirà il percorso che il paese già percorre cercando per esempio la pace nel meridione. Aquino era sul punto di firmare un accordo di pace con i ribelli musulmani di Mindanao e porre fine ad una lunga insorgenza, quando 44 poliziotti morirono in una incursione andata a male contro un gruppo. Dopo quella incursione la legge che avrebbe dovuto creare l’entità autonoma è diventata tossica politicamente ed è morta nel congresso. Duterte dice di sostenere questa legge e potrebbe risuscitarla.
Sembra improbabile un cambio improvviso sul piano economico. Nonostante i discorsi da duro su tutto, non ha detto di grandi cambiamenti. Poiché l’economia va avanti bene, va bene.
Le entrate personali nominali sono cresciute da $2,372 nel 2011 a $2,873 nel 2014. Tra il 2010 e il 2015 l’economia si è espansa ad un tasso medio di 6.3%, due punti in più degli anni precedenti, rappresentando il miglioramento maggiore nella regione. La Banca mondiale prevede simili scenari col 6.4 del 2016 e 6.2% per i successivi due anni. Nel periodo di Aquino il paese ha ottenuto la valutazione di investment grade con una riduzione del costo dei prestiti del paese.
Mentre l’economia si è espansa, il debito pubblico è seso nettamente, dal 77% del PIL del 2004 al 44% di marzo. Le rimesse sono cresciute nel 2015 per il quattordicesimo anni di seguito e rappresentano il 10% del PIL. Ma un settore di servizi in rapida crescita come call center, trascrizione di dati, disegno del software e ingegneristico ed altri compiti di ufficio ha tenuto più filippini istruiti a casa. Il numero di persone che vivono all’estero è sceso da 10,2 milioni del 2013 a 9.4 di oggi.
Saggiamente Duterte pensa di mantenere l’attenzione del predecessore sulle infrastrutture. Meno saggiamente pensa di far rivivere l’industria dell’acciaio nonostante la caduta globale. Vuole accrescere gli investimenti nel turismo, dove le Filippine attraggono meno visitatori del dovuto, e propone di affittare isole a investitori esteri per creare industrie. In modo preoccupante dato il potenziale del paese come nazione commerciale, sembra indifferente alla partecipazione del TPP. Dice che cercherà le menti economiche del paese e far fare loro la scelta politica. Scegliere i giusti consiglieri potrebbe rassicurare gli investitori preoccupati e mantenere il paese sul percorso intrapreso.
Aquino non merita tutto il credito per la salute economica del paese. Chi lo ha preceduto, Arroyo, mise in atto delle riforme di finanza e fiscali che hanno gettato le fondamenta della crescita stabile. Introdusse una tassa sul valore aggiunto che ha accresciuto le entrate del governo, ha tagliato i costi amministrativi ed istituito i programmi di trasferimento di cassa che dà fino a 319 dollari l’anno a 4.4 milioni di famiglie povere, se vacinano i figli e li mandano a scuola.
Aquino ha costruito sui programmi fiscali e sociali ambiziosi della Arroyo. Nel 2012 il suo governo impose delle “tasse del peccato” su tabacco e alcol indirizzando 85% delle entrate alla sanità e il 15% per aiutare i lavoratori del tabacco e contadini a trovare nuovi lavori. Due anni dopo il bilancio annuale della sanità è cresciuto da 1,25 miliardi a 2 miliardi di dollari; a metà 2015 la quota di persone nel sistema sanitario era cresciuto a 82% dal 74 del 2011. Aquino ha espanso l’istruzione elementare per includere asili e scuola fino a 18 anni ed ha accresciuto i trasferimenti di cassa iniziati dalla Arroyo.
Aquino ha usato il suo capitale politico nella lotta alla corruzione e al miglioramento della trasparenza. Molti comunque hanno notato che le vittime di più alto profilo della sua campagna contro la corruzione erano tre senatori dell’opposizione, il capo della corte suprema che ordinò la suddivisione delle piantagioni della famiglia Aquino e la ex presidente Arroyo, anche all’opposizione.
Molti hanno notato che nonostante le nobili affermazioni del “percorso retto” la gente ordinaria ha dovuto pagare la polizia ed i burocrati. Anche così le Filippine hanno migliorato la posizione in Transparency International passando dal 134° posto al 95°.
Migliorano le infrastrutture. La spesa è cresciuta dal 1.8% del PIL quando Aquino salì alla presidenza al 5% di questo anno. La percezione che tale spesa sia più efficace ed è stata gestita in modo trasparente ha aiutato a triplicare l’investimento estero diretto.
Ma queste cifre incoraggianti non raccontano la storia completa. La qiuota dei filippini che vivono sotto la soglia della povertà è la stessa del 2009, 26.3%, prima dei cinque anni di corsa del PIL. Una popolazione in espansione significa che anche se alcuni sono usciti dalla povertà ci sono più poveri ora di quando Aquino salì alla presidenza.
Gli abitanti delle città e del settore dei servizi hanno fatto bene. Il PIL di chi vive a Manila è quattro volte superiore a chi vive nelle Visayas o a Mindanao. Oltre la metà delle persone più povere del paese sono lavoratori delle campagne che sono quasi sempre più poveri di chi vive in città. I prezzi alti del riso, un risultato del programma mal concepito di sufficienza alimentare, ha colpito i poveri in modo forte.
Manila e le altre città restano fortemente congestionate. Gli elettori accusano Aquino benché non sia una sua colpa. Le Filippine non investono in infrastrutture da anni. Con l’economia che è esplosa si è immesso più denaro nelle strade, ma non a sufficienza per tener conto del crescente numero di auto, specie a Manila. Nessuno sa quello che Duterte farà con i poeri delle campagne o come decongestionerà Manila.
Quando si parla degli affari esteri, ha già mostrato Duterte un che nell’offendere gli alleati. Quando Australia e USA espressero dispiacere per alcune affermazioni volgari di Duterte, sul come avrebbe voluto essere il primo quando una monaca australiana fu violentata ed uccisa durante una rivolta in prigione, ha permesso di far tagliare i legami diplomatici. Dopo che Singapore ha detto che era falsa la foto su Facebook in cui si mostrava che Lee Hsien Loong sembrava sostenere Duterte, ha scherzato sul bruciare una bandiera di Singapore. Tali scherzi non sono stati digeriti bene per qualche ragione.
Non esistono figure care che sfuggano all’insulto di Duterte. Ricordando il traffico enorme durante la visita papale Duterte ha detto: “Papa, figlio di puttana, vattene a casa. Non venirci più a fare visita”. Era in un discorso in cui accettava la nomina per la corsa alla presidenza. I Filippini, cattolici per 80%, sembrano non avercela con lui per questo.
La questione di politica estera più scottante è lo stallo con la Cina nel Mare Cinese Meridionale. Su questo Duterte ha sbandato del tutto. SI è detto “pronto a morire” per il paese promettendo di andare personalmente su un motoscafo a mettere la bandiera filippina su un’isola contestata. Ha insistito dicendo di essere disposto a negoziati bilaterali e a sviluppi congiunti, qualcosa che la Cina ha detto di favorire. Ha anche promesso di starsi zitto sulla disputa se la Cina accetta di costruire linee ferroviarie per le Filippine.
Ma è un mistero su quello che di fatto farà. Più recentemente sembrava voler accettare lo status quo: dopo il voto di lunedì h detto ai giornalisti: “Direi alla Cina. Non reclamare nulla qui ed io non insisterò nel dire che è nostro.” Si attende una decisione della corte permanente dell’arbitrato de L’Aia per le prossime settimane sul caso portato avanti dalle Filippine contro la Cina. Se sosterrà la posizione filippina e quindi la Cina iniziasse a costruire sulle Scarborough Shoal, che entrambi reclamano e che la Cina occupa, secondo le Filippine, dal 2012 in contraddizione ad un accordo mediato dagli americani, nessun presidente filippino potrà semplicemente accettare specialmente per un duro.
Nonostante le bravate di Duterte e i presunti omicidi extragiudiziali di sospetti criminali, non potrebbe avere un grande impatto sul crimine. Il tasso di omicidi di Davao resta alto. La reputazione di Duterte sulla pulizia era stata messa indubbio verso la fine della campagna elettorale, quando Trillanes, candidato indipendente alla vicepresidenza, lo accusò di avere milioni di dollari in conti bancari segreti, di gestire una rete di protezione illegale e di impiegare impiegati fantasmi. Duterte ha negato le accuse.
La sua campagna contro il potere potrebbe anche fermarlo: essendo andato contro l’elite politica ora deve governare con essa. In molti rivedono in lui gli echi di Estrada, un altro presidente populista eletto su una piattaforma contro la corruzione. La sua presidenza durò solo 18 mesi, poi fu messo sotto accusa per corruzione e si dimise dopo che le forze armate gli tolsero il sostegno.
Un simile futuro potrebbe nascondersi per Duterte. Durante la campagna elettorale alcuni dissero che la macchina elettorale di Aquino avrebbe sostenuto Poe dopo aver constatato che Roxas non avrebbe mai potuto vincere. Altri si dice che preferiscano la messa sotto accusa specie se il candidato alla vicepresidenza Leni Robredo vincesse le elezioni diventando così il presidente effettivo con la partenza di Duterte.
In molti hanno sperato che le Filippine avessero superato tale antichità. Quando Aquino si dimette alla fine di giugno, diventerà il primo presidente ad assumere l’ufficio con mani pulite e a lasciarlo allo stesso modo da Ramos nel 1998. Diversamente dai suoi due predecessori Aquino non si è trovato a sostenere messe sotto accuse o tentativi di golpe. Qualunque cosa si pensi di Duterte gli elettori lo hanno scelto e merita di assumere l’incarico in favore di vento alle spalle piuttosto che di cospiratori.
Alle Filippine non farebbe assolutamente bene il ritorno all’instabilità. Il paese non dipende troppo dalle merci o dalla Cina. Diversamente dalla Cina, Giappone e Thailandia, la popolazione filippina è giovane ed è una forza lavoro che parla inglese economica. Il paese non condivide l’istinto protezionista indonesiano e dà il benvenuto all’investimento straniero. Se mantiene il percorso fatto finora diventerà una delle stelle in Asia.
Tutto è a rischio. Nel breve periodo Duterte non potrà fare una inversione politica a fermare la crescita. Ma gli investitori sono nervosi: Aquino era spento ma prevedibile; Duterte non è nessuno delle due cose. Nei prossimi mesi le Filippine rischiano la stessa combinazione di imprevedibilità politica e stagnazione come in Thailandia, un altro paese diviso tra una minoranza abituata da tempo a comandare ed una maggioranza che continua a votare contro di essa. Se l’elite filippina comprende il messaggio che gli elettori hanno inviato con l’elezione di Duterte potrebbero contrastare questo destino.
Il rischio maggiore viene dal danno di lungo termine che un uomo forte potrebbe arrecare alle istituzioni ancora fragili di una giovane democrazia. Nei comizi ha giocato sulla possibilità di sciogliere il parlamento e dichiarare un governo rivoluzionario se non riesce a realizzare quello che chiede. Il suo entusiasmo per gli omicidi dei vigilanti mostra la sua preferenza per l’ordine a spese della legge. La crescente prosperità del paese riflette il governo migliorato del paese e la fiducia degli investitori. Giustamente gli elettori vogliono un crescita più inclusiva e sono scontenti del dominio del loro paese da parte di una minoranza di famiglie. Ma eleggere un presidente che disprezza la legge e le norme democratiche non risolverà alcun problema.