Papua continuerà ad essere una spina nel fianco finché finalmente non ascolteremo e non entreremo in un dialogo sulle aspirazione papuane compresa la autodeterminazione di Papua.
Quando si pensa a Papua, ci si meraviglia molto delle proteste che sembrano non dover finire mai. Si assume che le principali frustrazioni dei papuani si originano dalla povertà e dalla mancanza di sviluppo.
La cosa è vera fino ad un certo punto. La ragione principale, comunque, è più semplice e la si può efficacemente mostrare mettendo insieme due dati. All’inizio di maggio 2109 manifestanti per l’indipendenza papuana erano stati arrestati dalla polizia, una cifra che è oltre il doppio dei 1205 che furono arruolati con la forza a legittimare il governo dell’Indonesia di Papua attraverso la legge di libera scelta del 1969.
Nonostante gli sforzi della nostra ambasciata nel Regno Unito a negare ai giornali che si erano avuti questi arresti, il Legal Aid Institute di Giacarta li ha documentati tutti e mantiene i nomi di tutti i 2109 arrestati. Si metta a confronto questa cifra con i 1025 che votarono in quello che i papuani definiscono la legge senza scelta, su una popolazione di allora di 800 mila persone.
Questa è la realtà storica che soggiace alle proteste di oggi sulla violenza di stato, sul degrado ambientale e la soppressione della libertà di parola a Papua. Finché non sarà affrontata le proteste continueranno e crescerà il numero di persone da aggiungere. La cifra di maggio si è fermata a 2282 dimostranti pacifici detenuti dalla polizia secondo le cifre dell’istituto.
Né svanisce l’attenzione internazionale su questa attuale ingiustizia storica. La scorsa settimana i papuani si riversarono in massa per le strade a sostenere il Movimento Unitario di liberazione per Papua occidentale, ULMWP, e la sua ricerca di ammissione come membro permanente dell’organizzazione intergovernativa regionale, il Gruppo di iniziativa Melanesiana MSG. Volevano anche inviare un messaggio di sostegno ai Parlamentari Internazionali per Papua Occidentale che si doveva incontrare il giorno seguente a Londra.
In quell’incontro, oltre 100 parlamentari e avvocati di vari paesi annunciavano la dichiarazione di Westminster che rigetta la Legge di Libera Scelta del 1969 come una violazione chiara del diritto alla autodeterminazione e che chiede una votazione con la supervisione internazionale a Papua. Oltre alla presenza di personalità dei nostri paesi vicini come Papua Nuova Guinea e Australia, sono giunti rappresentati di varie nazioni del pacifico la Francia, gli USA, la Svezia, Nuova Zelanda, Finlandia, Repubblica Ceca, Olanda e forse il più noto esponente dell’opposizione britannica Jeremy Corbyn che ha dichiarato il sostegno per “il diritto di un popolo a poter fare la propria scelta sul proprio futuro.”
Non appartengo ai tanti indonesiani non papuani che si sentono feriti dalla dichiarazione di Corbyn, stando ad una lettera pubblicata nel Regno Unito di recente. Molti dei miei amici indonesiani condividono la mia preoccupazione e fanno qualcosa attraverso organizzazioni solidali come Papua Itu Kita, Papua siamo noi.
Da indonesiana, lasciatemi raccontare cosa mi sconvolge di quello che va avanti a Papua.
La libertà di espressione è sistematicamente soppressa. Orgogliosi del nostro inno nazionale, ci fa arrabbiare sapere che la polizia l’ha insozzata quando ha preso a calci e pugni sei manifestanti pacifici che si sono rifiutati di cantarlo, mentre erano sotto arresto il 12 aprile nel distretto di polizia di Yahukimo a Papua. Siamo preoccupati per un giovane uomo di Timika, Steven Itlay che rischia la condanna a morte per tradimento dopo aver condotto una preghiera di massa nel cortile della chiesa lo scorso mese a sostegno del ULMWP.
Siamo arrabbiati che due persone siano state arrestate il 25 aprile mentre consegnavano una lettera di notifica sulle prossime manifestazioni alla polizia di Merauke vicino la frontiera con Papua Nuova Guinea. In modo simile furono arrestate una quarantina di persone nella capitale Jayapura il primo maggio per aver distribuito manifestini er una dimostrazione pacifica. La lista continua.
Fintanto che si useranno la violenza, arresti illegittimi e lunghe sentenze di carcere per tradimento per sopprimere la libertà di espressione a Papua, non servirà a nulla il discorso fatto dalla ambasciata indonesiana in Australia secondo cui i papuani traggono beneficio dalla democrazia indonesiana. Sia che si sostenga l’indipendenza di Papua o meno, si deve sostenere il diritto alla libertà di espressione garantita dalla costituzione.
Un altro pilastro della democrazia è la libertà di stampa sotto minaccia quando si parla di Papua. I giornalisti del posto si trovano sempre sotto minacce e violenza, e Papua era per lo più vietata ai media stranieri finché il presidente Joko Widodo non promise un più facile accesso a maggio 2015. Eppure i giornalisti stranieri si vedono spesso rifiutato il visto, oppure devono sottostare a ritardi, restrizioni sui luoghi e a pedinamenti da agenti della sicurezza mentre sono a Papua. Un giornalista di Londra ha dovuto attendere 18 mesi per avere il visto.
Ad ottobre due giornalisti zelandesi Johnny Blades e Koroi Hawkins di Radio New Zealand hanno dovuto rispondere alla richiesta di sei lettere di raccomandazione dai contatti a Papua. Il documentario del corrispondente di France 24 TV Cyril Payen dello scorso anno ha fatto arrabbiare così tanto il governo che gli ha rifiutato il visto a gennaio.
Quando si recano i giornalisti i loro intervistati sono vittime di intimidazioni, come accaduto con tr attivisti papuani guidati da Agus Kossay, arrestati dalla polizia dopo il loro incontro con il giornalista francese Marie Dhumieres lo scorso ottobre. L’anno prima Martinus Yohane fu rapito e trovato morto in mare in un sacco con le mani e piedi legati, torturato e assassinato dopo aver incontrato i giornalisti francesi Thomas e Valentine Bourrat di French Arte Television.
Negli ultimi anni, organizzazioni di sviluppo internazionali sono state costrette ad abbandonare Papua tra i quali il Comitato Internazionale della Croce Rossa, l’Organizzazione Cattolica per il soccorso e l’aiuto allo sviluppo, le Brigate della pace Internazionali. Oxfam UK ebbe l’ordine di andarsene lo scorso dicembre, appena dopo la dichiarazione di apertura di Jokowi.
ULMPW è un’organizzazione unitaria di varie organizzazioni papuane con un mandato culturale e politico legittimo di rappresentare la popolazione papuana. L’organizzazione ha uno status i osservatore e il governo indonesiano mantiene lo status di associato nel MSG. Se il governo mina e criminalizza ULMWP manca di rispetto al MSG come forum diplomatico.
Se comunque il governo intende seriamente rispettare MSG deve prendere la sua offerta di mediare un dialogo pacifico tra governo e ULMWP.
Il presidente Jokowi ha affermato che non ci sono problemi a Papua. Eppure le sue azioni dicono qualcosa di differente, quando la scorsa settimana inviò tante figure del governo per tentare di contenere il danno a Londra soffocando qualunque discorso dei problemi di Papua.
Mandare queste figure importanti all’estero in una missione che salvi la faccia ed inviare dei propri delegati come l’ex presidente di Timor est José Ramos Horta a Papua sono azioni che vogliono evitare la radice del problema.
Lo scorso secolo l’ex ministro degli esteri Ali Alatas descrisse Timor Est come “un sassolino nella scarpa” per la diplomazia nazionale. Papua continuerà ad essere una spina nel fianco finché finalmente non ascolteremo e non entreremo in un dialogo sulle aspirazione papuane compresa la autodeterminazione.
Veronica Koman, JakartaPost