Come al solito in questo momenti nei cicli elettorali, il governo cambogiano attacca a testa bassa contro gli oppositori, anche quando si celebra il venticinquesimo anniversario degli accordi di Pace di Parigi del 1991, firmati da 19 paesi.
Gli accordi tra le parti in guerra compreso Vietnam, che occupò la Cambogia negli anni 80, trovò una soluzione al conflitto e pose fine alla guerra Cambogia Vietnam, aprendo la strada all’azione di pace dell’ONU e ad una pace difficile.
Sin dalla metà del 2015, gli eventi nel paese si sono svolti secondo un canovaccio solito: accuse legali deboli contro i critici del governo, minacce e spacconate da parte di Hun Sen, primo ministro, e qualche blanda dichiarazione di preoccupazione dell’ONU e dei governi stranieri, non volenti o incapaci di sostenere le loro dichiarazioni con azioni concrete.
Oltre 20 persone sono state arrestate lo scorso anno: militanti dei diritti umani, parlamentari di opposizione ed un membro del comitato elettorale. A luglio un famoso politico Kem Ley fu ucciso in una stazione di benzina a Phnom Penh, scioccando il paese intero e portando alla memoria gli chi di un passato recente e più violento del paese. Il capo dell’opposizione Sam Rainsy è in esilio scelto, per la terza volta negli scorsi dieci anni, mentre il suo vice Kem Sohka resta asserragliato nel partito col rischio di essere arrestato se dovesse uscirne.
A luglio al culmine della ultima confusione, lasciai la Cambogia dopo aver dato copertura giornalistica ad otto anni per la stampa locale ed internazionale. Ma alcuni cambi a parte, la politica cambogiana sembra quasi la stessa come lo era agli inizi del 2008, quando arrivai da reporter alle prime armi. Stili e percorsi sono identici.
Come le personalità. Persino mentre cambia, la vita politica cambogiana, come il ritmo dei canti buddisti, ha la tendenza a ritornare sulle stesse cadenze e rime.
Come tanti colleghi fui inizialmente attirato in Cambogia dalla prospettiva di dare una mano nel giornalismo, con un internato e poi un lavoro presso un quotidiano locale in lingua inglese, Phnom Penh Post. Stando nel paese fui preso da quello che lo storico David Chandlr descrive come “fascino rumoroso”: la sua fusione di bellezza, incongruenza ed esotismo, radicato dal calore genuino e dalla gentilezza del suo popolo. Le esplorazioni cambogiane erano state completate dalla sfida giornalistica di provare a dare senso al lavoro opaco del partito del popolo cambogiano di Hun Sen, parte di una classe dirigente che aveva spietatamente consolidato il potere in tre decenni.
Allora il paese ha vissuto cambiamenti drammatici. Phnom Penh è stata trasformata da una città povera di stradoni rotti dagli alberi allineati in una punta di spillo di incipiente modernità. Una città che era stata evacuata con la forza dai Khmer Rossi nel 1975 ha ora un traffico enorme. Grattacieli gettano la loro ombra da meridiana sui marciapiedi. Una classe media va verso i centri commerciali luccicanti, i caffè alla moda e le catene di fastfood americani.
Questi sono solo i segni più sfacciati di una trasformazione più profonda. In tre decenni di governo di Hun Sen in Cambogia, il capitalismo alimentato dal mercato, il dividendo della fine di una guerra civile alla fine degli anni 90, ha innalzato gli standard di vita e ha generato alcuni dei tassi di crescita economia più alti al mondo.
Corruzione rampante
Allo stesso tempo la “Hunsenconomia” ha arricchito per lo più un piccolo pezzo di popolazione a spese del resto. La corruzione è rampante e incandescente. Le foreste cambogiane sono state strappate in un ciclo senza fine di lealtà e capitalismo da mazzette. Impossibilitati a vivere dalla terra, centinaia di giovani si sono riversati all’estero o nelle città per trovare lavori insopportabili nell’edilizia e nelle industrie manifatturiere.
Tutti questi cambi parvero giungere ad un capo nel 2013. Nelle elezioni nazionali di quell’anno il CNRP, rafforzato da Facebook e da un’ondata di scontento popolare, consegnò ad Hun Sen e al CPP il loro peggiore risultato dal 1998.
Fu una cosa importante da testimoniare. Seguendo il CNRP nella parte orientale del paese, osservavo le decine di migliaia di giovani delle campagne versarsi per le strade nelle piccole città di provincia per far ascoltare il loro desiderio di cambiamento. Nella sonnolenta Prey Veng, su un marciapiede ombroso che guardava su un lago cittadino, incontrai una anziana vedova dal capo rasato, Pech Yean, che aveva viaggiato con tutta la famiglia estesa per sentir parlare Sam Rainsy. Le domandai cosa non andasse con l’attuale governo al potere. “Potere assoluto. Trovano sempre reati e mettono in carcere la gente” rispose.
Benché Hun Sen alla fine avesse mantenuto il potere con una maggioranza ridotta, il risultato elettorale e l’enorme sostegno dato al CNRP, suggerivano che negli interstizi di una paura e deferenza radicate, potesse emergere una nuova Cambogia. Ma dal 2013, quando il momento favorevole del CNRP è andato scemando ed Hun Sen ha ripreso il controllo, è diventato più difficile distinguere la continuità dal cambiamento.
Nei paesi occidentali si assume spesso che la modernizzazione economica e lo sviluppo politico giungano insieme rafforzandosi a vicenda. Mentre un paese si sviluppa, i credi religiosi e le vestigia pre-moderne crollano e la gente prima o poi sviluppa qualche forma di governo democratico, basato sul libero mercato, il governo della legge e il rispetto dei diritti individuali.
La Cambogia presenta un quadro più ambiguo. Hun Sen, punto dal crollo del suo partito nel 2013, ha introdotto misure designate per convincere il sostegno popolare: salari più alti per i lavoratori, soldati e lavoratori pubblici e promessa di terre ai contadini senza terra. Usa Facebook per comunicare un’immagine più popolare rispondendo direttamente alle lamentele messe sulla sua pagina. Forse la gente ha beneficiato di questi doni dall’alto ma hanno messo da parte ogni riforma reale democratica.
Carisma e cleptocrazia
Nonostante la rapida modernizzazione, la cultura politica cambogiana resta radicata nei modi vecchi di pensare. E’ fortemente personalizzata, basata su catene fatte di lealtà e obbligo sociale che si allunga dal fondo della società verso i capi carismatici e cleptocrati alla sommità. Come era ai tempi del principe Sihanouk negli anni 50 e 60, le istituzioni politiche non hanno un potere reale indipendente dai meriti e il potere di chi li occupa.
Operando in universo legato ad un potere cosmicamente ordinato radicato nella personalità, la politica resta profondamente solipsistica. Nessun politico vuole ammettere la possibile legittimità di un altro. Il CPP e CNRP si vedono come nemici sostenuti dall’esterno che conducono il paese verso il precipizio, descrivendo se stessi come soli guardiani legittimi dell’interesse nazionale.
Il CNRP rappresenta una miscela contraddittoria di eredità. Se è vero che Rainsy e Kem Sokha parlano spesso di valori liberali democratici, il loro linguaggio è anche ricco di riferimenti razziali a Noi Khmer e a Yuon, gli odiati vietnamiti, l’orco della immaginazione politica cambogiana, tesi a ingoiare la Cambogia intera.
La profondità dell’orgoglio e del sentimento legato al Problema Vietnamita è difficile da ingigantire. Ricordo di essere stato colpito immediatamente durante la mia permanenza in Cambogia, in una delle mie prime lezioni di cambogiano. Il mio insegnante Sokha era un’anima calma, giovane con occhi a mandorla e un baffo sottile. Un giorno decisi di provare a meravigliarlo dicendogli di un prossimo viaggio a Saigon usando il suo nome antico khmer Prey Nokor. Non appena pronunciai il nome della antica città cambogiana, persa all’immigrazione vietnamita da sud tre secoli fa, Sokha si irrigidì. Le lacrime gli salirono agli occhi. Cambiai oggetto di discussione.
Come ha scritto il giornalista irlandese Nic Dunlop nel suo libro “TheLost Executioner”, la Cambogia è un paese facile da romanticizzare, una terra dall’apparenza gentile di risaie verdi, dai fiumi ondosi e dai templi buddisti dalle spirali dorate. Se si considerano le sofferenze patite dal paese, c’è sempre stata una tendenza comprensibile ad estrapolare le speranze di un cambio democratico fino ad attendersi che questo sviluppo sia in qualche modo imminente.
Il percorso della Cambogia, invece, giace, da qualche parte, tra la modernità in stile occidentale e le possibilità sociali e politiche radicate nel suo proprio passato. Quello che emerge oggi potrebbe rivelarsi una forma particolare di modernità cambogiana, una mescola ibrida in cui grattacieli, Starbucks e media sociali coesistono con i miti politici antichi ed i modi di vedere il mondo.
Ovviamente tutto cambia nel tempo. L’attuale generazione è la più istruita e connessa di qualunque storia cambogiana moderna, e le attese pubbliche non sono mai state così alte. Prima o poi HunSen ed il CPP dovranno rispondere alla gente, o rischiare uno scontento politico e sociale. Ma mentre il cambiamento politico sembra possibile, è difficile prevedere che forma assumerà: qualcosa riconoscibilmente democratico o qualche ripetizione non prevista, sotto nuove circostanze, di una vecchia rima cambogiana.
Sebastian Strangio, Asia Nikkei Review