Kasian Tejapira è professore di scienze politiche alla Università Thammasat in Thailandia e scrittore prolifico che ha sfornato libri, poemi oltre ad un migliaio di articoli accademici e di giornali sin dal 1981.
Tra i lavori di Kasian Tejapira ci sono Toppling Thaksin; The Post-Modernisation Of Thainess; Imagined Uncommunity: The Lookjin Middle Class And Thai Official Nationalism; e The Irony Of Democratisation And The Decline Of Royal Hegemony In Thailand.
Tutti i suoi libri sono spesso richiamati come un riferimento per i dibattiti e le pubblicazioni accademiche.
Kasian Tejapira è anche ricordato, ogni ottobre, come uno dei tre intellettuali della Generazione di Ottobre, insieme a Thongchai Winichakul e Somsak Jeamteerasakul, di cui è ben nota la critica delle grandi istituzioni politiche della Thailandia.
Quel 6 ottobre del 1976 era lì quando ebbe luogo la violenta repressione. Fu tra i 3000 giovani che si unirono al defunto Partito Comunista Thailandese, CPT, dopo la brutale repressione del 6 ottobre 1976.
L’esperienza di Kasian Tejapira studente in quegli scontri e la fuga nella giunga che ne seguì per unirsi al partito comunista thailandese restano ancora importanti nella lotta politica contemporanea.
Qui di seguito c’è un pezzo di un’intervista con lo studioso.
Quale era il tuo ruolo negli scontri del 6 ottobre 1976?
Sono un manovale del movimento studentesco. Thongchai era ovviamente un capo e Somsak era anche bene conosciuto perché parlava con franchezza ed era tagliente. Ma molti studenti mi conoscevano come un loro tutore. Il mio ruolo era un po’ simile a quello di Krisadang Nutcharut (un avvocato dei diritti umani e organizzatore delle commemorazioni di quest’anno del 6 ottobre 1976). Ero il principale sostituto sui palchi quando Thongchai e Somsak non erano a disposizione.
Dopo varie notti all’università, tornai in bus a casa la notte del 5 ottobre. All’alba la radio cominciava a parlare di una situazione brutta. Un amico mi avvisò che la situazione era crollata e che non sarei potuto tornare dentro. Non sono un eroe quindi.
Ma sei un sopravvissuto.
Un Dentai, un duro a morire, come dire saresti dovuto morire ma inavvertitamente sei sopravvissuto.
Qual’era l’influenza del partito comunista thailandese sul movimento?
Certo il CPP infiltrò il movimento. Ma c’erano fattori contrari e a favore anche. Gli studenti erano frustrati, la situazione era così tetra, e gli studenti sentivano di esser stati azzoppati nella lotta contro il sistema. Ci furono molti assassini di studenti e militanti. E’ solo una protesta in una società democratica, vero? Ma sentivamo che lottavamo contro qualcosa che non riusciva a morire. Le attività incessanti delle autorità e le squadracce spingevano anche la gente nelle braccia del CPT.
Quando Kriengkamol Laohapairoj della Federazione degli Studenti Thailandesi disse alla folla all’inizio di ottobre di quell’anno “un’altra morte ancora e prenderò le armi”, disse qualcosa che sentivamo.
Dopo che l’università fu sgombrata e fatta bruciare dagli studenti delle professionali prima del 6 ottobre 1976, ci sentimmo feriti come se fosse stata messa a soqquadro casa nostra. Tutti sentivamo di esser accerchiati, accerchiati dalla assenza di legge.
Come si spiega la brutalità?
Provo ad essere obiettivo su questa cosa. Il potere di allora non voleva combattere due conflitti. Dovevano liberare la capitale dal CPT mentre fronteggiavano la guerriglia comunista nelle aree rurali. Scelsero la brutalità per terrorizzarci, per dirla in breve. Ma gli si ritorse contro, divenne vendetta e indirettamente incoraggiò la gene ad unirsi al CPT. Ironicamente il CPT e i governanti della elite sottostimarono gli intellettuali. Alla fine questi studenti uscirono dalla giungla perché non erano d’accordo con l’approccio del CPT. In realtà non fu solo il CPT a forgiare i nostri modi di pensare. Ci influenzarono anche i movimenti di sinistra nel mondo, come le guardie rosse cinesi, la nuova sinistra europea e americana, gli eroi della sinistra thailandese come Jit Bhumisak e Udom Srisuwan.
Come si comportò la tua famiglia?
Dopo il 6 ottobre del 1976, decisi di stare calmo per due mesi. Mio padre si calmò. Un giorno di dicembre gli dissi che andavo a comprare da mangiare. Mi disse di tornare a casa presto. Mi ci vollero però quasi cinque anni prima di tornare. Come potevo tornare a studiare in un luogo dove i miei compagni furono uccisi?
Una cellula del CPT mi contattò. Poi stetti in una zona di una roccaforte dei Khmer Rossi. Avevamo una comune lì. Feci un addestramento base militare di tre mesi.
Come ti sei rapportato con Khmer Rossi?
Non ci era permesso il contatto diretto. Vivevamo separatamente. Ma talvolta ci parlavo. Loro pensavano che non si sarebbe mai avuta una rivoluzione in Thailandia, perché era dei capitalisti, non delle persone piccole e scure come loro. Ne rimasi scioccato quando uno di loro usò una pagina di un’enciclopedia francese per farsi una sigaretta. Noi volevamo leggerla.
Qual’è il tuo obiettivo immaginato della vittoria?
Una cosa abbastanza romantica: dobbiamo vincere la rivoluzione e tornare a Sanam Luang a quell’albero di tamarindo dove gli studenti furono impiccati o far girare i carrarmati nella capitale
Ci spieghi il tuo ritorno?
Ci fu detto che la vittoria era possibile, ma la guerra si protraeva, pensavamo che in tre anni avremmo potuto vincere. Ma poi sembravano essere cinque anni e poi ancora ci voleva più tempo. Ma i Khmer Rossi erano sotto attacco e non avevamo una base nostra. Sapevamo che la vittoria diventava più lontana. Ma la guerra estesa non era la questione principale: il fattore che ci fece lasciare la giungla fu la divisione dentro il CPT.
Inoltre, il primo ministro Kriengsak Chomaman aveva fatto qualcosa per raggiungere gli studenti. Quando lasciai la frontiera per una visita alla famiglia, pensavo di tornare nella giungla. Ma al mio ritorno nella società, bombardato da un carico di informazioni contraddittorie, quando il mio articolo critico non fu pubblicato nel giornale della comune, ritardai il mio ritorno. Alla fine ripresi il mio status di studente e finii gli studi.
Parlando di resistenza e di contrasto allo status quo, vedi una qualche somiglianza col movimento delle magliette rosse?
Allora Kriengsak iniziò la manovra di riconciliazione a cui fecero seguito Chavalit Yongchaiyudth e Prem Tinsulanond. Ebbero un buon successo a scollegare gli studenti dal CPT, partito comunista thailandese. Ma le magliette rosse, dopo la repressione, non avevano la giungla dove nascondersi. E non siamo sicuri che volessero prendere le armi. Per la nostra generazione, che si perse in quell’idea, ci piangemmo su. Una volta che accettammo che era finita, riprendemmo le nostre vite individuali ed alcuni di noi hanno conquistato ricchezza e felicità. Basti guardare a chi ha avuto successo negli affari, nelle ONG, nelle università.
Alcuni militanti si sentirono depressi per non aver mai vinto una lotta democratica, uno dopo l’altra.
Dobbiamo liberarci del modo di pensare del CPT. Non esiste qualcosa come la guerra finale. E’ solo un movimento graduale. L’emancipazione umana è un processo. Se la pensiamo così possiamo continuare a lottare ed aiutare gli altri nella lotta, vincere a poco a poco. Ma se tu perdi non abbandoni. Non è un gioco questo. E’ un modo di vivere.
Quali sono le circostanze degli esiliati contemporanei. Cosa cambia rispetto a quelli degli anni 70?
Nel passato gli esuli erano giovani e in salute. Gli esuli di ora devono iniziare una nuova vita. Abbastanza doloroso. A loro manca casa mente la situazione non sembra farli voler tornare presto.
Non c’è speranza di riconciliazione allora come lo fu quando lo stato diede il benvenuto agli studenti che tornavano dalla giungla negli anni 80?
Non credo che accadrà presto perché il potere attuale proverà ad acquisire una presa del potere usando la forza e affermando la legge e l’ordine per reprimere la gente invece di affidarsi al carisma e alla persuasione.
Saremo ancora in un viaggio di lungo raggio con i militari?
Alcuni riescono a tollerarlo e attendere le elezioni, ed alcuni credono che il periodo di transizione alla fine passerà. Non credo che potremmo permetterci di avere un rigido potere militare per sempre. Abbiamo la monarchia che funziona da contrasto. I militari non possono avere potere assoluto come accaduto nella storia di altri paesi. Dopo tutto i militari thai non sono così uniti. Forse anno disciplina ed ordine mentre condividono risorse ed interessi.
Forse dobbiamo capire che la società è governata da un pluralismo di elite che attualmente usano i militari per mantenere l’ordine sociale e la stabilità.
Ecco perché sentiamo il primo ministro lamentasi sempre “mi avete chiesto di fare questo lavoro ma non mi aiutate, lasciandomi questo lavoro tutto da solo”. E’ un messaggio per quelle elite.
Il pluralismo delle elite non permetterà ai militari di restare dominanti; è solo questione di quando e come allentare la morsa dei militari, cosa che neanche io so. Sfortunatamente l’elite si tiene al potere con il sacrificio della gente semplice.
Achara Ashayagachat, BangkokPost