Soe Aung è un lavoratore di una delle agenzie umanitarie internazionali a Sittwe, dove è nato, la capitale dello stato Rakhine. E’ un buon lavoro ma non gli piace parlarne in pubblico o al di fuori del suo giro di amici e familiari. La ragione è che la sua agenzia lavora con i Rohingya musulmani.
“Me ne sto per fatti miei qui” dice Soe Aung. “Nei caffè non ne parlo, né discuto con la gente”.
Come gran parte della gente qui, è di etnia Rakhine, una delle etnie riconosciute, buddista, religione maggioritaria in Birmania. I musulmani costituiscono la seconda religione diffusa qui ed identifica per lo più i Rohingya.
I Rohingya però non sono ufficialmente riconosciuti tra le 135 razze nazionali. Sono soggetti a restrizioni simili all’apartheid e alla maggioranza di loro è negata la cittadinanza. Si ritrovano sotto una nuova ondata di attacchi che hanno creato migliaia di sfollati.
Le tensioni tra le due comunità scoppiarono violentemente nel 2012 quando centinaia di Rohingya furono uccisi. Circa 140 mila persone furono allontanati dalle loro comunità e circa 120 mila persone restano nei campi profughi attorno Sittwe, in grande maggioranza Rohingya.
Dopo quelle violenze arrivarono tante agenzie umanitarie internazionali nel Rakhine per trattare la crisi umanitaria che si era generata insieme ad una richiesta di personale locale. Attratti da salari alti e dall’opportunità di fare qualcosa di interessante e un lavoro importante, molti buddisti Rakhine fecero domanda di lavoro e furono assunti. Ma il loro lavoro li ha esposti alla critica dei membri delle loro comunità che cominciarono ad accusare le organizzazioni internazionali di essere dalla parte dei Rohingya.
Quella tensione tra le agenzie umanitarie internazionali e alcuni della comunità Rohingya ha avuto alti e bassi nel tempo, accesa spesso da monaci buddisti ultra-nazionalisti. Nel 2014 i buddisti Rakhine attaccarono a Sittwe gli uffici della Malteser Internazional, organizzazione tedesca, e di altre agenzie dell’ONU.
La situazione è diventata incandescente le scorse settimane, mentre i militari portano avanti operazioni a Maugdaw, una cittadina sulla frontiera col Bangladesh. Il governo dice che membri della comunità Rohingya hanno fatto attacchi a osti di frontiera e che l’esercito sta dando la caccia ad un gruppo clandestino militante.
I militari rifiutano di permettere a giornalisti e ai gruppi di aiuto di accedere a Maungdaw tanto da rendere impossibile verificare i rapporti fatti da gruppi dei diritti umani su abusi contro la popolazione civile. HRW ha rilasciato immagini satellitari di interi villaggi Rohingya bruciati del tutto, e l’ONU ha chiesto una indagine. Da parte sua il governo ha negato che i soldati abbiano commesso atrocità addossandone la colpa ad attaccanti misteriosi per gli incendi delle case.
Nel fine settimana, il governo ha detto che i suoi soldati hanno ucciso 25 militanti ma alcuni resoconti non sono affatto credibili, come quello secondo cui i militari abbiano ucciso sei persone che “correvano contro i militari per attaccarli” avendo in mano però solo dei machete.
La mancanza totale di informazioni verificabili da Maungdaw porta a paura e dicerie, sia tra i Rohingya che i Rakhine, alcuni dei quali sono scappati dalle cittadine a maggioranza musulmana per rifugiarsi a Sittwe.
Di conseguenza i lavoratori Rakhine delle agenzie umanitarie internazionali si trovano in una situazione sempre più difficile. I salari forse sono il doppio di quelli che avrebbero se lavorassero per il governo o i gruppi locali, ma rischiano di essere visti come traditori o trattati come pariah a casa.
“Nella mia comunità non dico apertamente che lavoro per una ONG internazionale” dice Myo Min anche lui lavoratore per un’agenzia a Sittwe, il cui nome è un tabù.
“Mentre cresce la tensione, alcuni lavoratori Rakhine temono per la propria sicurezza quando lavorano nelle città a maggioranza musulmana come Maungdaw.
“Nella aree musulmane dove andiamo, talvolta abbiamo paura. Ci potrebbero attaccare forse all’improvviso” dice Zaw Zaw che ha lavorato per lo stato da molti anni. “Ora è sempre più così. E non son il solo.”
Zaw Zaw dice di non essersi mai trovato di fronte a ripercussioni difficili dalla sua propria comunità ma è fonte di attrito. “Loro non attaccano e non mi fanno soffrire, ma non ne parlano” dice anche di capire la loro posizione.
Infatti alcuni lavoratori delle agenzie umanitarie del posto condividono questi sentimenti di risentimento verso le ONG internazionali che loro vedono come alleati dei Rohingya, dice ZawZaw. Il lavoratore allude qui al credo diffuso che i media internazionali esagerino le storie di sofferenza raccontate dai Rohingya. “Sappiamo che esagerano” dice Zaw Zaw.
C’è la percezione popolare che la situazione per i Rohingya non sia così catastrofica come tanti stranieri pensano. Questo è, in parte, a causa dell’aiuto in più che le comunità Rohingya ricevono rispetto alle Rakhine, ma questo è perché quasi tutti quelli presenti nei campi di sfollati sono Rohingya. E persino Rohingya nei propri villaggi sono sottoposti a restrizioni di movimenti, che li rende disoccupati, oltre alla mancanza di accesso alla salute e alla scuola.
La popolazione Rakhine a sua volta è stata marginalizzata dalla maggioranza etnica birmana Bamar e lo stato Rakhine è il secondo paese più povero della Birmania, fattori che servono ancor di più a peggiorare la sfiducia.
Questo risentimento fa di Sittwe un posto difficile anche per gli stranieri, tanti dei quali simpatizano con la situazione difficile che le loro parti locali incontrano.
Gabrielle Aron, direttrice dei programmi per Collaborative for Development Action, è aurice di un rapporto recente sulla sensibilità del conflitto che tocca le relazioni tra i lavoratori locali delle agenzie umanitarie internazionali e le loro comunità. Trovò che il personale della ONG di etnia Rakhine si trovava sotto pressione.
“Se si considera la percezione tra tanti della comunità Rakhine secondo cui gran parte delle agenzie umanitarie internazionali sostengono in primo luogo la popolazione musulmana, lavorare per queste agenzie per un Rakhine può sembrare come un tradimento a causa delle tensioni interetniche.” dice Aron. “Si trovano in una posizione difficile. Molte persone che lavorano in queste agenzie umanitarie internazionali sono davvero dedicate al lavoro che fanno, ma si trovano a dover camminare su una linea molto sottile”