Non si possono minimizzare o sperare che sparissero le divisioni interetniche in una giovane democrazia, ed è tempo che il governo birmano e la comunità internazionale riconoscano la forte prova che si sta avendo un genocidio contro i Rohingya e che lo facciano terminare.
La violenza nello stato Rakhine è salito dopo un attacco contro le posizioni della polizia di frontiera, che ha lasciato nove morti. L’assistenza umanitaria e l’accesso ai media è stato tagliato da settimane, mentre le autorità birmane conducono un’operazione di controinsorgena contro i presunti assalitori Rohingya.
Resta poco chiara la responsabilità dell’attacco. Si pensa che siano già morti un centinaia di persone mentre altri 30 mila persone dislocate si aggiungono ai 160 mila già sopravvivono in squallidi campi di concentramento sin dai precedenti attacchi el 2012. HRW ha rilasciato immagini via satellite che mostrano come oltre 1200 costruzioni nei villaggi Rohingya sono stati rasi al suolo nel mese scorso. E’ stato denunciato lo stupro da parte di vari soldati contro donne e ragazze.
Il Bangladesh che da 30 anni permette che oltre 230 mila rifugiati Rohingya registrati o meno si rifugiassero sul proprio territorio, respingono le persone che cercano rifugio oltre la frontiera.
Questi eventi segnano un deterioramento drammatico in una situazione da tempo disperata per una minoranza che tanti identificano come la più perseguitata al mondo. Gran parte di loro sono apolidi, definiti dal governo come Bengalesi o immigrati clandestini, nonostante che in tanti abbiano avuto la cittadinanza nel passato e vivano da generazioni nella regione. Sono costretti a lavori forzati e confinati in campi di concentramento dove non ricevono alimenti adeguati e cure mediche dove le donne incinta e bambini sono a rischio di malattie e morte.
I Rohingya sono soggetti a dure restrizioni sui matrimoni, sul movimento e sulla grandezza del nucleo familiare. Le loro moschee sono state distrutte; chi è fuggito su barche malmesse verso altri paesi come Malesia e Thailandia è stato respinto in mare aperto per morire o soffrire nelle mani dei trafficanti o languire in detenzioni infinite.
Una domanda che perseguita il governo birmano e la comunità internazionale è se quello che accade alla comunità Rohingya costituisca un genocidio contro i Rohingya. Per ora si erge una dichiarazione credibile che stia avendo luogo un crimine di genocidio riconosciuto internazionalmente in Birmania. Di conseguenza, secondo gli obblighi internazionali il governo birmano e gli altri stati devono prendere tutte le azioni necessarie per fermare il più grave genere di catastrofe umanitaria.
Secondo l’articolo II della convenzione sul genocidio, ratificata dalla Birmania, si definisce genocidio “… uno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, del tipo: uccidere membri del gruppo, causare danni mentali o fisici seri ai membri del gruppo; infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolati per causare la loro distruzione fisica in parte o interamente; imporre misure intese a prevenire le nascite dentro il gruppo; trasferire con la forza bambini del gruppo verso un altro gruppo.”
Il tribunale Yugoslavo ha ulteriormente elaborato sull’articolo II che infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolati per causare la loro distruzione fisica in parte o interamente può includere “Soggiogare il gruppo ad una dieta di sussistenza, l’espulsione sistematica dalle case e la negazione al diritto ai servizi medici. Si include anche la creazione di circostanze che portino ad una morte lenta come la mancanza di case, vestiti ed igiene o eccessivo lavoro ed attività fisica”.
Ci sono pochi dubbi che la popolazione Rohingya abbia sofferto degli atti indicati nell’articolo II della convenzione sul genocidio.
Sulla condizione di intento del crimine, che gli atti siano commessi con l’intento di distruggere per intero o in parte il gruppo, le corti hanno preso un approccio fortemente contestualizzato da caso per caso, per determinare se l’intento possa essere applicato dalle circostanze attuali. Tale conclusione deve essere “la sola ragionevole possibile sulla prova”. In aggiunta come ha detto il tribunale ruandese: “Chi compie il reato è colpevole perché sapeva o dovrebbe aver saputo che l’atto commesso distruggeva un gruppo per intero o in parte”.
L’approccio caso per caso, insieme al grave peso della prova che richiede che la prova sia “totalmente conclusiva” rende le determinazioni di genocidio inevitabilmente contestabili. Altre analisi potrebbero suggerire che l’intento complessivo dei colpevoli in Birmania si comprend meglio come “pulizia etnica” che riflette l’idea che l’intento reale è di trasferire con la forza o espellere i Rohingya piuttosto che distruggerli fisicamente.
Nel caso del 2015 tra Croazia e Serbia, che includeva la prova di omicidi, violene sessuali, lavoro forzato e dislocazione, la Corte Internazionale di giustizia non trovò l’intento del genocidio da parte dei serbi contro i Croati nel contesto della guerra di Yugoslavia. Considerazioni chiave erano che il conflitto era visto come territoriale ed i serbi avevano organizzato trasporti per croati per evacuare territori che i serbi avevano occupato.
La differenza nel caso Rohingya è che non c’è chiara fuga dalla miseria estrema e dall’alto rischio di morte o estrema violenza per mano dei trafficanti o da autorità di immigrazione di altre nazioni. Non esistono misure sistematiche di deportare ufficialmente la popolazione sia fornendo trasporto o accettando arrangiamenti formali con paesi riceventi. Inoltre i Rohingya sono dissuasi dal partire a causa di restrizioni sui movimenti e punizioni per andarsene, come la rimozione tra le liste di famiglia, l’estorsione dei membri di famiglia che rimangono e la prigione per il rientrare illegale.
Centinaia se non migliaia di bambini nati nei campi squallidi soffrono di malattie prevedibili a causa di mancanza di alimenti e cure mediche. Le condizioni complessive sono tali che quelle persone che impongono loro un periodo prolungato sappia o debba sapere che la fine eventuale sia la distruzione fisica del gruppo per intero o in parte.
La complessità di provare il genocidio non si accorda affatto con l’urgenza di prevenire e rispondere alle situazioni da genocidio quando si presentano. Si potrebbe attendere decenni che un tribunale internazionale o un gruppo di esperti concludano in modo autorevole se si tratta di genocidio o meno. Sarebbe uno scenario che giungerebbe troppo tardi per tante vittime e le loro famiglie, per non citare la ricaduta politica nazionale e il disastro economico che assicurerebbe dopo il fatto. Allo stesso tempo i costi morali e politici, come lo stigma che dura e la potenziale ricaduta penale, di non aver fatto nulla agire per fermare il genocidio sono sono grandi.
La legge e le istituzioni internazionali pongono perciò l’enfasi sulla prevenzione del genocidio come un obbligo che è almeno forte come la protezione. La convenzione del 1948 obbliga gli stati a prevenire e punire il genocidio. La tanto affermata dottrina della Responsabilità alla protezione chiede agli stati di prevenire e proteggere le vittime dai crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio in assenza di risposte del governo significative.
Si può trarre ora un ampio studio e caso legale per identificare situazioni che assomigliano molto al genocidio e chiedono risposte robuste per rispondere agli obblighi di prevenzione e protezione. Nel 2015 la International State Crime Initiative rilasciò un rapporto che si basava su uno studio scientifico affermando che “il genocidio ha luogo in Birmania” mettendo in guardia sul “pericolo serio e presente di annichilamento della popolazione Rohingya del paese”. Altri hanno fatto un caso legale di genocidio o alto rischio di genocidio come gli studiosi Zarni e Cowley della Yale Law School, e tra gli altri l’ex accusa del tribunale jugoslavo Geoffrey Nice.
Alcuni dicono che non dovrebbe importare l’etichetta e hanno in parte ragione. Questi crimini troppo spesso accadono lungo uno spettro di casi che senza un’azione correttiva possono portar allo stesso risultato, la perdita massiccia di vite e la distruzione.
Si potrebbe credere che l’azione sarebbe la stessa indipendentemente dalle parole usate per definire il crimine. Troppe conferenze internazionali e incontri diplomatici negli anni lamentavano la lunga lista di persecuzioni e sofferenze patite da questo gruppo negli anni con risposte risultanti inadeguate in modo spropositato alla gravità della loro storia. Politiche tiepide verso la Birmania e i Rohingya tradiscono una riluttanza troppo radicata di mettere un titolo su questi crimini come genocidio per paura di sovvertire la narrativa che in tanti nel mondo attendevano, una illuminata transizione democratica. La nozione di genocidio rischia di riportare il paese tra i paria internazionali piuttosto che un beniamino internazionale.
Ma la violenza attuale illustra dolorosamente che le divisioni interetniche in una giovane democrazia non le si possono minimizzare o desiderare che non esistessero. E’ tempo che la Birmania, l’ASEAN e l’ONU si confrontino con la prospettiva di un genocidio che si perpetra contro i Rohingya. Devono essere aperti per la loro inazione o almeno prendere azioni e mettere risorse necessarie a salvare vite nella regione e preservare il futuro birmano.
Katerine Southwick, Kerrycollisonblogspotit