Gli attacchi di ottobre e la risposta dura dei militari segnano un punto di svolta nei problemi della questione Rohingya nello stato Rakhine. La presenza di un gruppo militante, per quanto piccolo in questo momento, aggiunge una nuova dimensione.
Lo scorso mese l’ONU rilasciava un maledetto rapporto basato sulle interviste ad oltre 220 persone della minoranza Rohingya fuggita in Bangladesh dalla parte settentrionale dello stato Rakhine sin dall’ottobre 2016. Il rapporto descrive bene numerosi casi di omicidi bambini e neonati compresi, di stupri di massa, di persone picchiate tra le quali donne incinta, di vecchi e bambini bruciati vivi nelle case incendiate, di detenzioni arbitrarie, di distruzione di raccolti e vivande, di saccheggi e occupazioni di proprietà.
Le forze di polizia e militari birmane sarebbero quelle ad aver eseguito queste atrocità. Hanno preso parte anche gli abitanti dei villaggi Rakhine, alcuni dei quali erano stati integrati tra le forze di sicurezza in base a requisiti di ammissione larghi. Secondo il rapporto: Le forze armate e gli abitanti Rakhine di sostegno hanno costretto le vittime, piccoli compresi, a guardare le sofferenze dei membri della propria famiglia” I ricercatori hanno anche fotografato “ferite di coltelli e di pallottole, bruciature e ferite derivanti da percosse con il calcio del fucile e le mazze di bambù”.
Questi abusi accadevano in un contesto di operazione di controinsorgenza che seguiva un attacco del 9 ottobre a tre posti di guardia sulla frontiera nella parte settentrionale Rakhine. Rimasero uccisi almeno 9 militari. A reclamarne la responsabilità fu il movimento Harakah al Yaqin, movimento della fede HaY. Secondo International Crisis Group HaY è “guidato da un comitato di esuli Rohingya in Arabia Saudita”. Il governo birmano isolò l’area mentre le operazioni erano in corso restringendo il movimento delle persone e negando l’acceso umanitario e della stampa.
Le operazioni sono continuate fino a gennaio 2017 sebbene con intensità minore.
Dagli inizi di ottobre sono scappate dalle case 90 mila persone delle quali 66 mila sono fuggite in Bangladesh. La calcolata politica del terrore delle forze di sicurezza si aggiunge ai 120 mila che erano già scappati dalle violenze del 2012. Si aggiunge anche su un disegno di persecuzione che continua dagli anni 70, quando il governo iniziò politiche che alla fine strapparono, ad una comunità di oltre un milione di persone, anche il diritto alla cittadinanza. Prima di questo ultimo giro di violenze quasi 230 mila rifugiati Rohingya sopravvivevano miseramente in squallidi campi in Bangladesh da oltre tre decenni.
Il rapporto dell’ONU è l’ultimo dei tanti rapporti che periodicamente emergono rispetto agli abusi sui Rohingya e all’instabilità nello stato Rakhine. Si aggiunge ad una lunga lista di rapporti eccellenti dell’ONU, dei ricercatori e di organizzazione di diritti umani che negli anni hanno fatto conoscere le preoccupazioni che siano perpetrati crimini contro l’umanità, ripulitura etnica e più recentemente di genocidio contro i Rohingya, per i quali anche Papa Francesco ha pregato durante un’udienza generale.
E’ fondamentale per poter stabilire fatti e fare politiche informate la documentazione degli abusi dei diritti umani. Tuttavia questo ultimo rapporto illustra uno dei limiti dell’attenzione internazionale per la crisi dei Rohingya. Degno di nota è il fatto che il rapporto non contiene raccomandazioni su cosa fare per quello che sappiamo sono forti violazioni. Mentre tantissimi rapporti del passato hanno espresso raccomandazioni importanti, troppo spesso le risposte nazionali ed internazionali alla crisi Rohingya soffre del fenomeno di spostamento dell’obbiettivo. Più che fermare la violenza o accrescere l’assistenza umanitaria e allo sviluppo, una risposta comune ad un rapporto degno di nota è di emettere un altra dichiarazione, di richiedere un altro rapporto o indagine, e forse ospitare un incontro multilaterale.
Inoltre la reazione autocratica del governo è stata di rigettare i rapporti dei media come “fabbricazioni” mentre si continua ad impedire l’accesso ai giornalisti nelle aree più colpite.
La risposta alternativa è l’istituzione di una commissione, come La commissione di inchiesta Rakhine del 2012-13, il comitato centrale sull’applicazione della pace, stabilità e Sviluppo dello stato Rakhine del maggio 2016, la commissione di indagine Rakhine dell’agosto 2016 guidata da Kofi Annan ed altre. Al pari di rapporti e documentazione, queste entità possono assolvere ad una funzione essenziale quali stabilire ruoli istituzionali e strategie adatte alle sfide di medio e lungo periodo della regione.
Comunque possono servire come una tattica di stallo, che appaiono azioni mentre si fa ben poco per affrontare l’urgenza di fermare la violenza indiscriminata e prevenire la perdita di vite umane.
Rischiano di somigliare a quello che il sociologo Lauren Edelman definisce come “strutture simboliche” che danno l’illusione di norma mentre limitano la realizzazione dei diritti umani.
Se continueranno ad essere la risposta a questa crisi rapporti e commissione, si documenteranno i Rohingya fino alla morte prima di fare qualche passo significativo per dare loro sicurezza, accesso a servizi sanitari e alimenti e un posto sostenibile nel futuro di Myanmar.
Ci si potrebbe chiedere cosa il governo e la comunità internazionale dovrebbe fare sulla violenza nello stato Rakhine. Tanti hanno chiesto un’assistenza umanitaria maggiore e accesso dei media alle zone colpite. Le commissioni passate e gli esperti hanno sottolineato il bisogno di aderire ad una visione di una Birmania democratica che sia inclusiva e tollerante delle varie etnie e religioni.
Come dichiarò il padre fondatore AungSan nel 1946: “Ogni nazione al mondo che è un conglomerato di razze e religioni deve sviluppare un nazionalismo che sia compatibile col benessere di uno e tutti, indipendentemente dalle razze o religioni, dalle classi o il sesso.”
Una tale visione richiede la revisione o la reinterpretazione della legge della cittadinanza del 1982 per permettere ai Rohingya lo status di cittadini, di cambiare le leggi che discriminano in base ad etnia e religione, di contrastare forme estreme di nazionalismo buddista, di riconoscere la diversità storica del paese, e sostenere l’interazione positiva tra le fedi e la risoluzione pacifica delle dispute.
Con i diffusi abusi delle forze di sicurezza l’ONU deve esplorare delle forze di pace internazionali per assicurare la sicurezza alle popolazioni vulnerabili nella fase di allentamento delle tensioni.
In ultimo, la povertà e la negazione del governo centrale hanno in parte nutrito risentimento e disperazione rendendolo maturo per tensioni interetniche. Forse lavorando attraverso il Comitato entrale, il governo ed i paesi donatori tra i quali l’ASEN, devono agre in fretta per incentivare la pace e la prosperità per tutti nello stato Rakhine.
Potrebbero condizionare assistenza economica significativa al raggiungimento di obiettivi critici per il mantenimento della sicurezza e agli stessi diritti, all’accesso ai servizi sanitari, istruzione e al sostentamento.
Il progresso nella risoluzione di questa crisi deve mostrarsi in modo chiaro quando l’Unione Europea rivedrà l’estensione dell’embargo delle armi ad aprile. Entità private come le università potrebbero offrire visti e borse di studio a giovani Rohingya dislocati salvando potenzialmente le loro vite e a meglio posizionarli per aiutare le loro comunità.
Comunque a questione fondamentale non è ciò che si deve fare ma se o sotto quali condizioni il governo e la comunità internazionale avranno la volontà di lavorare concretamente verso il cambiamento tanto atteso. Senza dubbio, la Birmania si trova davanti a tante sfide e i Rohingya dislocati una piccola frazione dei 65 milioni di persone cacciati dalle case dalla violenza e e persecuzione nel mondo.
Un’osservazione strategica potrebbe focalizzare le menti sulle soluzioni. Gli attacchi di ottobre e la risposta dura dei militari segnano un punto di svolta nei problemi dello stato Rakhine. La presenza di un gruppo militante, per quanto piccolo in questo momento, aggiunge una nuova dimensione.
Potrebbe complicare la capacità della minoranza a conquistare la simpatia internazionale nonostante gran parte dei capi Rohingya abbia “escluso la violenza come controproducente. Il fatto che più persone abbracciano la violenza riflette il profondo fallimento della politica in tanti anni”.
Come avrebbe detto un militante di HaY: “I nostri fratelli Rohingya nel mondo provano a negoziare con i capi mondiali per porre pressione sul governo birmano, ma non funziona. Questo perciò ci ha costretto a fare la rivoluzione armata contro il governo per i nostri diritti”.
Le attività militanti hanno certamente rafforzato la risposta violenta del governo. Le richieste di condanna per chi compie violazioni di diritti umani saranno meno convincenti per le autorità nel mezzo degli sforzi contro il terrorismo.
L’approccio duro del governo è in fin dei conti controproducente per la sicurezza internazionale. Le tendenze militanti che crescono nel dolore e nella disperazione potrebbero attrarre altre reti terroristiche come accaduto in tante parti. Uno studente universitario negli USA condusse un attacco a novembre in parte basato sul trattamento dei Rohingya. La repressione violenta dentro il contesto birmano di un crescente nazionalismo buddista e di intolleranza religiosa esacerba l’instabilità nazionale, ed a sua volta rafforza il ruolo dei militari nel governo. Di conseguenza le fragili istituzioni democratiche del paese si indeboliranno minando il progresso politico ed economico.
Detto semplicemente Sterminare i Rohingya e permettere la crescita della crisi umanitaria significa che ne esce sconfitta tutta la regione come intero.
Il prossimo rapporto nella cronologia di questa tragedia probabilmente sarà quella di agosto della Commissione di Indagine Rakhine. Kofi Annan da capo della commissione probabilmente userà la sua esperienza diplomatica per presentare politiche vitali. Ma non dobbiamo aver bisogno di un altro rapporto che ci informi come sia richiesta una seria e concertata azione per salvare vite umane e far scender le tensioni.
Katherine Southwick NewMandala