Bill Kayong, militante ambientalista della città petrolifera di Miri, tra i Dayak nel Sarawak del Borneo Malese, fu ucciso il 21 giugno del 2016, mentre era fermo nella sua macchina ad un semaforo.
Due pallottole lo trafissero uccidendolo all’istante.
Bill Kayong è uno delle 185 persone uccise nel mondo nel 2016 per difendere il proprio ambiente da progetti petroliferi, o dalle grandi dighe o da piantagioni di olio di palma, o diboscamento abusivo, o progetti minerari. Global Witness sostiene che è stato l’anno peggiore che si ricordi.
Cinque mesi dopo a novembre 2016, tre persone di Miri vengono accusate di aver ucciso Kayong, tra i quali vi è l’assistente personale di Stephen Lee della compagnia di olio di palma Tung Huat.
Lee diventa l’oggetto di una caccia globale attraverso Singapore, Melbourne e poi la provincia cinese di Fujian, da dove proviene la sua famiglia.
Le autorità dicono di aver trovato la mente di questo omicidio, cosa che Lee rigetta.
Bill Kayong. che lavorava per un parlamentare di opposizione Michael Teo del People Justice Party, PKR, era dedicato alla protezione delle comunità locali aborigene Dayak del Sarawak, i cui territori sono preda delle compagnie di legname e di olio da palma.
Negli ultimi tempi Kayong si era concentrato su una comunità vicino Miri, Sungai Bekelit, che vive in una tradizione casa comune, una longhouse, costruzioni grandi in legno su palafitte, lunghe anche cento metri, suddivise in appartamenti che si aprono su una terra comune.
Hanno un capo e terre comuni controllate dalla legge consuetudinaria che risale a secoli fa. Da otto anni la gente di Sungai Bekelit si batte contro lo sfratto, sostenuto dallo stato, delle loro terre a favore di Lee per farne piantagioni di olio di palma.
Si era giunti ad una situazione molto forte di scontro aperto tra i Lee, che avevano emanato licenze di coltivazione, e la comunità che riteneva i propri diritti fondamentali.
La lotta di Bill Kayong non può definirsi ambientalista di per sé, quanto di dei diritti della popolazione Dayak.
Ma la sua morte ha spinto i militanti ambientalisti ad unificare la propria voce a chi si batte per i diritti della terra. Le longhouse sono, giustamente insieme a chi li difende, l’ultima speranza per le moribonde foreste dello stato, a causa del diboscamento delle foreste vergini e del conseguente impianto delle piantagioni da olio di palma che è il raccolto più diffuso e più ricco.
“Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un’ondata di omicidi per tutta Sarawak con la stessa operatività. Criminali in macchina che sparano” dicono alcuni attivisti dell’ambiente di Save Sarawak Rivers Network in un comunicato, perché “le compagnie impiegano criminali tra il proprio personale della sicurezza per badare alle proprie piantagioni”.
La morte di Kayong non ha raggiunto i giornali di tutto il mondo, né ci sono teche a ricordarlo. La foto posta sul palo di legno vicino al luogo della morte è ormai consunta, coperta dall’erba e dimenticata.
Ma alla prima udienza del processo a novembre, dove il buttafuori di una discoteca rischia la pena di morte per l’omicidio, si è presentata la nuova organizzazione di base Dayak che Kayong aveva costituito, Pedas, Sarawak Dayak Association. Pedas si occupa di chi è attaccato dalle gang criminali e marca la presenza politica nelle longhouse.
La moglie seduta insieme ai due figli, ai fratelli di Kayong dice: “Non so di una minaccia alla sua vita. Teneva tutto per sé. Non voleva che ci preoccupassimo”.
Nel pomeriggio lo stesso buttafuori che uccise Kayong era sotto processo per aver picchiato, vari mesi prima, un capo villaggio delle longhouse di Sungai Bekelit, Jambai anak Jali che aveva lavorato con Kayong.
Jambai descrive alla corte come nel novembre 2015 era stato seguito, buttato fuori strada con la macchina dove c’erano moglie e nipote, e poi come gli finirono di distruggere la sua auto, mentre con una spada di samurai lo ferirono ad un braccio. L’ultimo di una serie di violenze iniziate nel 2008, quando Jambai andò in tribunale a contestare una licenza per la Tung Huat di coltivare 3361 ettari di foreste attorno alle loro longhouse.
Il buttafuori, Fitri, e gli altri si sono sempre dichiarati innocenti.
“Possiamo provare che la terra è nostra. Eravamo lì dal 1934. Ma la compagnia ha assoldato le guardie per impedirci di andare nelle nostre terre.” dice Jambai che aggiunge che la compagnia si è anche appropriata delle piantagioni di olio di palma della comunità. “Raccolgono il nostro raccolto maturo. Ci rimangono 380 ettari. Bill venne a darci una mano nel 2014.”
Sarawak è separato dalla penisola malese dal Mare Cinese Meridionale ed è stato dominato sempre dai sultani del Brunei con cui confina. Gestito da una famiglia di avventurieri inglesi, divenne parte della confederazione malese dopo l’indipendenza nel 1957.
Negli anni recenti, mentre la Malesia diventava una delle tigri economiche della regione, Sarawak è stato per decenni sinonimo di saccheggio delle ricche foreste pluviali alla ricerca di legname pregiato ed ora di terra per piantagioni olio di palma.
Poche persone si sono arricchite tantissimo in questo periodo.
“I politici del governo hanno fatto milioni vendendo la terra” dice Teo del PKR. Chi provava a proteggere la foresta era ucciso, come il noto ambientalista svizzero Bruno Manser che scomparve per sempre nella giungla nel 2000.
Ma ora che gran parte del suolo è stato preso dalle grandi compagnie, i piccoli criminali con più armi che buon senso, raschiano quello che resta.
La laurea in medicina e i legami politici e di affari non lo hanno protetto dalla violenza. A metà 2015, a pochi metri da dove usualmente beve caffè vicino alla sua clinica, qualcuno lo assalì con una mazza da baseball fratturandogli le ossa del collo n tre parti, prima di fuggire con un’auto senza targa. “Mi fu detto che sarei stato ucciso perché ero coinvolto con Bill. Poi una mattina mi chiamò e mi disse che Bill era stato ucciso”.
Molti cittadini del Sarawak hanno sempre voluto uno stato separato ed alcuni lo vogliono ancora. Molti che vivono nelle Longhouse sognano i giorni in cui erano governati dai re bianchi che stabilirono i confini del villaggio includendo gran parte delle aree che la comunità reclama come terra tradizionale. In tanti hanno le foto dei Brooks sulle pareti delle case.
“Le autorità coloniali britanniche riconoscevano i diritti dei suoli Dayak” dice Nicholas Mujah, ex burocrate che ora nelle orti testimonia per le richieste di comunità, sottolineando la natura temporale lunga dei diritti del suolo consuetudinari. Ma dopo l’indipendenza, il nuovo governo cominciò a reclamare che tutte le foreste appartenevano allo stato. Ai nativi rimaneva solo la terra su cui crescevano i raccolti vicino alle longhouse.
Il risultato è stato un rampante subentro delle corporazioni nelle terre di foresta dello stato e gli scontri senza fine con le comunità indigene. Le norme internazionali che danno alle comunità indigene il diritto a dare o mantenere il loro consenso libero, prioritario ed informato per le attività economiche sulle terre tradizionali non incontrano orecchie disposte ad ascoltarle in Sarawak.
“Quando posi questo diritto al consenso al direttore delle foreste qui, disse che non ne aveva mai sentito parlare” disse Kallang di Save Sarawak Rivers Network
Il governo di Sarawak non se ne importa molto dei diritti dei suoli dei suoi cittadini, dice l’avvocato e parlamentare Baru Bian, ed ignora il proprio ruolo nel creare e nell’incapacità di risolvere questioni della terra.
Secondo il governo tutti i conflitti tra le licenze provvisorie si devono risolvere tra le compagnie medesime. E’ un rifiuto di responsabilità” dice Baru il quale sostiene che “il governo deve stabilire i diritti consuetudinari prima di dare licenze alle compagnie.”
In teoria ci sono dei tribunali appositi per fissare tali questioni. Ma secondo Teo queste corti raramente si riuniscono. “I processi continuano per vent’anni, e quindi se le comunità riescono a riavere la terra, essa è già tutta distrutta”
Quando invece le comunità rifiutano di cedere alle compagnie, il risultato è il conflitto. A Sungai Bekelit le tre longhouse che si batterono contro la Tung Huat bloccando l’arresto alle loro terre videro la polizia rompere il loro blocco
La vita nelle longhouse non è affatto idilliaca. Nelle regioni remote delle colline, raggiungibili solo con la barca, la vita è ancora primitiva. Vicino alle strade però, i residenti hanno auto parcheggiate di fuori, TV satellitare e telefonini. Chi lavora nelle città torna a casa per i fine settimana.
Le longhouse restano a tutti gli effetti quello che rimane della vita comunitaria, e e mantengono una lealtà forte tra chi vive o è cresciuto tra loro, specialmente quando il governo prova a svendere la loro terra tradizionale.
A Sungai Bekelit, il riferimento per la morte di Kayong, le longhouse avevano 300 persone in 63 famiglie. Lì c’è ancora la barricata che bloccava la strada che la nuora di Jambai ci mostra.
“Avevano molta paura di Bill” dice una donna che gestisce la piattaforma di legno a fianco della barricata. “Lo conoscevano tutti. Diventava potente e gli volevano chiudere la bocca. Gli offrirono soldi per controllarci” dice un uomo. “E quando registrò la conversazione e ce la fece sentire lo accusarono di tradimento. Una brutta situazione”.
Gli chiediamo delle operazioni della compagnia. “Non li vediamo mai” dice la donna. “Crediamo che abbiano dieci indonesiani che raccolgono i frutti.”
La donna Kudut Anak Tunku era imprenditrice essa stessa e vendeva 40 tonnellate di frutti al mese del valore di 5000 dollari, metà di profitti, determinata a mantenere il pezzo di terra. Anche lei impiegava indonesiani per il raccolto. Dai profitti ha cominciato a costruirsi la sua nuova casa in cemento di fianco alla longhouse.
Venti anni fa, durante una visita precedente a Sarawak, si era andati a Marudi da Miri, una cittadina nell’entroterra a 20 minuti di aeroplano, sulla linea del fronte della deforestazione.
Riprendemmo il volo di nuovo. Trovammo Jok Jau Evong, che guida da sempre la ONG Sahabat Alam Malaysia. Da sempre aiuta le comunità a combattere la deforestazione costruendo mappe e documentando le loro terre, andando in tribunale per i loro diritti. “Per vincere Devono provare di vivere qui da varie generazioni, che la loro terra si estende ben al dilà delle aree che coltivano direttamente” dice Jok.
E’ stata una lunga battaglia persa. In quella prima visita, l’aero sorvolò per o più foreste. Ora le foreste sono sparite. Le colline deforestate sono ricoperte di piantagioni di palma. Nele strade attorno a Marudi ci si aggira in un panorama di piantagioni, frammenti distrutti di foreste e equipaggiamento di diboscamento abbandonati.
In quel periodo Sarawak era il principato di un uomo solo, il primo ministro Abdul Taib Mahmud. Sotto il suo governo, gran parte delle foreste pluviali furono trasformate in legname da un pugno di giganti del legname. Gran parte del suolo era coperto di piantagioni di olio di palma: Vari fiumi furono ostruiti dalle dighe nello sforzo abortito di iniziare l’industrializzazione con l’economica energia idroelettrica.
Le comunità restano accovacciate tra i resti piatti delle loro vecchie foreste. Ma il turbinio economico che aveva percorso le loro foreste non sembra averli lasciati ricchi. Il lavoro è poco e i profitti spariti.
Jok ci porta a vedere la longhouse di Sungai Buri, un villaggio di 200 anni che è stato in parte riforestato con campioni forniti da Sahabat Alam Malaysia. Nel breve giro si possono vedere 500 differenti tipi di alberi. Un piccolo gesto di sfida per una comunità che ha perso quasi tutta la sua foresta e la fonte del loro sostentamento.
“Prima che arrivassero le imprese di diboscamento la vita era facile perché avevamo la foresta” dice il capo della longhouse Gasak Anak Tadong. “Andavamo a caccia di animali selvatici. L’acqua era pulita. Ma ora è più difficile dare da mangiare alla famiglie.
E chiaramente impossibile ritornare ad un passato ricordato. Ma c’è un movimento crescente per l’indipendenza, alimentato da altri movimenti di indipendenza nella regione, ma anche dal credo che lo stato non ha mai fatto parte vera della Malesia a cui mai ha dato un consenso appropriato per l’unificazione.
Sempre più politici di opposizione, sulla base dello scontento per i diritti della terra e la distruzione ambientale, discutono di indipendenza. “Diciamo che siamo una nazione ma non ci è permesso di discuterlo. Abbiamo bisogno di un referendum per andarcene. Come la Scozia o Timor.
Una mattina a Miri, accompagnammo Teo ed altri per una passeggiata nel distretto finanziario mentre distribuivano volantini per una riunione sulla democrazia a Kuching nel fine settimana.
“Siamo estranei nella nostra terra” dice Dennis Along segretario del PKR. “Il governo non riconosce i nostri diritti. Ci cacciano via come cani sulla nostra terra. Vogliamo ridare indietro l’autonomia alle nostre comunità rurali tradizionali.
In questa atmosfera politica claustrofobica, le dispute sulla terra sono durature, tossiche e senza soluzione, mentre continua la devastazione ambientale.
Forse Bill Kayong non sarà l’ultimo militante malese a pagare con la sua vita.
Fred Pearce, Yale Environment 360 TheGuardian