Al cuore della lotta di anni sta la questione della identità, insieme al desiderio di una cittadinanza ai Rohingya e ai diritti fondamentali che ne discendono. Ma persino per quei musulmani che con la carta rosa si dicono cittadini birmani la vita continua ad essere un sacrificio quotidiano.
Mahla si rifiuta di dire come le fu distrutta la casa nell’ottobre del 2012. Il solo citare quell’episodio la porta a piangere. Inoltre soffre di problemi al cuore, ed il dottore le ha consigliato “di non pensare a cose cattive”.
Quel mese, scoppiò in varie cittadine un’ondata di violenze settarie tra le comunità Rakhine buddiste e i musulmani Rohingya e Kaman. I musulmani sopportarono l’impatto più forte.
Da allora questa madre di cinque figli vive in una capanna malandata al Campo Taung Paw, dove sono confinati 2916 musulmani, alla periferia di una cittadina isolata e piccola di Myebon, dove per generazioni le comunità buddiste e musulmane avevano convissuto.
La maggioranza dei Rohingya del Rakhine non è riconosciuta dallo stato birmano, ma Mahla è una delle poche persone che ha ottenuto la residenza negli ultimi anni. Parte di un programma pilota lanciato nella sua cittadina nel settembre 2014, le fu data una carta rosa che segnala che è una cittadina completa.
I Rohingya sono quasi universalmente oltraggiati dalla popolazione birmana a maggioranza buddista e sono stati oppressi dai governi sin dagli anni 70. La loro etnia non è inclusa nella lista delle 135 etnie riconosciute come razze nazionali adottata nel 1982. Invece sono etichettati come bengalesi con l’implicazione che sono immigrati clandestini dal territorio che è ora il Bangladesh.
La legge della cittadinanza del 1982 fa dell’appartenenza ad una delle razze nazionali il primo criterio della cittadinanza benché non il solo, e non è stata la sua applicazione che ha reso apolidi la maggioranza dei Rohingya.
“Sebbene la legge della cittadinanza del 1982 fosse chiaramente reazionaria, non rese nessun gruppo apolide sulla carta” dice Nick Cheesman della ANU ed esperto del governo della legge in Birmania.
“Di fatto riconosceva come cittadini chi era già registrato come tale, indipendentemente da come erano stati identificati per razza o religione. Ma tra gli anni 80 e inizio 90 quando il governo lanciò il processo di nuova registrazione, prendendo le vecchie carte di identità e emettendo le nuove, ai musulmani nel Rakhine non furono rilasciate nuove carte di identità anche quando ne avevano diritto.
Il problema nella Birmania contemporanea è che la nozione di razze nazionali sorpassa quello di cittadinanza, sia legalmente che ideologicamente. La legge della cittadinanza del 1982 potrebbe riconoscere che membri di razze non nazionali, che in precedenza avevano la cittadinanza, la mantengano, ma fissa come fondamento per la cittadinanza l’essere membro di una razza nazionale” aggiunge l’esperto.
Mahla siede nella sua capanna malridotta che condivide con il marito e cinque figli mentre spiega come e perché ha ottenuto la cart rosa e con essa la cittadinanza.
“Ci definiamo Rohingya ma il governo non ci permette di usare il nostro nome. Nel processo di verifica del 2014, le autorità ci dissero che avremmo avuto più opportunità se avessimo accettato di essere etichettati come Bengalesi e che avremmo avuto la cittadinanza” racconta.
La designazione di Bengalesi fu applicata anche ad alcuni Kaman, un gruppo musulmano nel Rakhine che è elencata nelle 135 razze nazionali. Maung Zaw, padre di 45 anni di tre figli anch’esso confinato a Taung Paw Camp, ci mostra la carta rosa che gli diedero tre anni fa. Sulla carta figura come bengalese, ma anche prodotto, perplesso, il suo libro di famiglia che afferma che isuoi genitori erano Kaman.
In un’altra capanna del Campo Taung Paw, le rughe e l’aspetto distrutto di Gulban rivelano una vita di sofferenze che la fanno sembrare più vecchia dei suoi 53 anni. Non parla birmano, solo il dialetto Bengalese dei Rohingya, ma per anni ha attentamente tenuto con cura i documenti che provano di aver vissuto nel Rakhine da almeno tre generazioni, riuscendo a mostrarli quando fu lanciato il programma pilota. Ora è cittadina birmana, almeno sulla carta.
“Sentii la parola Rohingya dai miei genitori che ero bambina ma non è accettata dal dipartimento dell’immigrazione. Mi risero in faccia dicendomi di andare via quando la pronunciai una volta nel loro ufficio. Bengali significa che veniamo dal Bangladesh ed io sono della Birmania, ma voglio accettarlo se mi dà la cittadinanza ed i diritti.” ci spiega.
“Ma nulla è cambiato per me una volta che ho avuto la cittadinanza” dice Gulban facendo eco ad un sentimento espresso da tutti i cittadini riconosciuti recentemente nel campo.
Indipendentemente dal loro status condividono le stesse restrizioni di movimento imposti a tutti i musulmani nel Rakhine, le stesse restrizioni all’istruzione e salute, lo stesso senso di disperazione.
Tin Shwe, l’amministratore generale di Myebon era responsabile del programma pilota del 2014. “Virtualmente tutti i musulmani chiesero la cittadinanza, e nessuno usò la parola Rohingya. Non usano quella parola qui. Alla fine demmo la cittadinanza completa a 97 persone e la naturalizzata a 969 di loro” dice il sindaco. “Demmo loro la cittadinanza secondo la legge del 1982 anche se non sono naturalmente cittadini.”
Quando gli si chiede quale sia la differenza tra le due categorie, aggiunge: “Non appartengono a nessuna delle razze indigene”. “Possono muoversi quando vogliono, andare a Sittwe e da lì a Yangoon, ma per andare a Yangoon devono informare le autorità”.
Vari cittadini musulmani, comunque, hanno affermato che i permessi di viaggio sono difficili da avere e bisogna pagare bustarelle grandi alla polizia.
Gulban dice di non voler viaggiare fuori di Myebon. “Sono povera e non ho dove andare, ma non voglio rimanere confinata in questo campo”.
Mahla comunque è ansiosa per i figli. “Qui possono ricevere solo l’istruzione primaria e la media, ed ho paura per il loro futuro.” spiega. “Non possono ricevere una vera istruzione e languiranno se non ce la fanno ad andarsene da qui”.
Tin Shwe, di etnia Bamar della Birmania centrale, accusa la popolazione locale Rakhine per le restrizione imposte ai Rohingya.
“Quando fu applicato il programma, trovò molte proteste dalla comunità indigena. Provai a spiegare loro la legge, ma è difficile perché ci troviamo nel mezzo tra entrambe le comunità. La gente Rakhine non permette ai Rohingya di andare all’ospedale, e allora mandiamo i dottori ai campi, del governo come delle ONG”.
Il principale agitatore della comunità Rakhine a Myebon è Khin Thein che presiede la rete delle Donne Rakhine. “I kalar (termine peggiorativo per indicare la gente di origine dell’Asia Meridionale) non appartengono a questo posto. Con i governi militari precedenti giungevano dal Bangladesh e corrompevano le autorità del posto per avere i documenti perché avevano tanti soldi. Ecco perché non possiamo accettarli in gran parte e protestiamo” spiega la donna nel negozio di gioielli a Myenbon.
Lei afferma che la gente dal Bangladesh prova a sistemarsi nella Birmania nonostante le condizioni fortemente peggiorate per i musulmani nel Rakhine dal 2012. Quando le si chiedono le prove di quello che dice risponde: “Non ho prove reali, ma ho sentito dicerie”.
Bananda Phyabawga, il reverendo di Pyanabakemn, un monastero buddista, ha espresso idee simili sull’Islam.
“Se guardate alla storia, paesi come Indonesia e Afghanistan erano buddisti ma divennero musulmani. Provano ad imporre la loro religione agli altri, e abbiamo bisogno di gestir queste minacce” dice di fronte ad una sala piena di novizi ed altri giovani che ascoltano la sua parola.
Il discorso del reverendo fa eco alle organizzazioni buddiste estremiste come MabaTha e 969, emerse negli ultimi anni. I nazionalisti Rakhine comunque sono almeno così risentiti della dominazione da parte del governo birmano come lo sono della minaccia di invasione musulmana percepita nel loro suolo.
“Il nostro principale nemico è il governo birmano. Sostengo Arakan Army e voglio l’indipendenza della terra natia”.
Ma al di là delle divergenze tra i nazionalisti come Khin Thein ed i rappresentanti del governo come Tin Shwe, tutti sembrano d’accordo nel dire che i Rohingya non sono cittadini naturali della Birmania. Ed offrono la stessa ricetta per la soluzione del conflitto di comunità che affligge lo stato Rakhine: il tempo.
“E’ impossibile convivere per ora, ma lo potrebbe essere nei prossimi cinque o dieci anni” dice il reverendo. Al di là di quello, nessuno sembra avere una strategia concreta per ripristinare la coesistenza che esisteva prima del 2012.
Nel campo di Taung Paw, dopo cinque anni di confino in cui persino la cittadinanza non ha migliorato le condizioni di chi è stato fortunato ad avere la carta rosa, il tempo sembra solo aggiungere disperazione. E gli obiettivi di chi vive dentro sembra essere molto più modesto di quanti credono in Birmania.
“Non so cosa siano i diritti umani” dice Gulban. “So solo che i piacerebbe avere da mangiare in tavola, libertà di movimento, istruzione per i miei figli, accesso ai servizi sanitari e per la mia famiglia di vivere senza paura”
Carlos Sardiña Galache, SoutheastasiaGLOBE